UN UOMO PERBENE Vita di Alberto Giacomelli giudice ucciso dalla mafia di Salvo Ognibene
UN UOMO PERBENE Vita di Alberto Giacomelli giudice ucciso dalla mafia di Salvo Ognibene
Nell’estate inquieta del 1988, la mattina del 14 settembre, viene ucciso a Trapani il giudice Alberto Giacomelli, che da più di un anno ha lasciato la toga per andare in pensione. È, a tutti gli effetti, un delitto «senza»: senza clamore, senza assassini (mai trovati), senza movente per lungo tempo, senza lapidi e celebrazioni. Un delitto senza memoria, inghiottito da depistaggi, omertà, ignoranza e, sullo sfondo, l’ombra cupa di Totò Riina. Giacomelli era presidente delle misure di prevenzione del Tribunale, un uomo defilato, silenzioso, sobrio. Uno che dietro il sipario decideva i destini economici di quei «galantuomini» e che aveva messo la firma su un patrimonio che, per volontà e in nome del popolo italiano, non doveva più appartenere alla mafia. Lontana dalle attenzioni dei cronisti e dalle luci degli studi televisivi, la storia di Giacomelli viene ora riconsegnata alla memoria grazie ai ricordi di chi lo ha conosciuto.
Prefazione di Attilio Bolzoni.
Fonte: articolo21.org
Articolo del 11 settembre 2018
Alberto Giacomelli. “Un uomo per bene”. Il magistrato ucciso a Trapani il 14 settembre 1998
Il 14 settembre di 30 anni fa viene ucciso a Trapani dalla criminalità organizzata il magistrato Alberto Giacomelli. Lo ricorda in un libro dal titolo “Un uomo per bene” il giornalista Salvo Ognibene. Pubblichiamo di seguito, per gentile concessione delle Edizioni Dehoniane Bologna l’introduzione dell’autore e la prefazione di Attilio Bolzoni.
Prefazione – di Attilio Bolzoni
Sono due gli anni siciliani che annunciano quello che possiamo definire l’«atto finale», le stragi d’estate del 1992, prima di Giovanni Falcone poi di Paolo Borsellino. Sono sempre due gli anni, il 1988 e il 1989, che sono serviti a «preparare» il cratere di Capaci e lo sconvolgente attentato – appena cinquantasei giorni dopo – di via Mariano D’Amelio. Me la ricordo quella Sicilia, me la ricordo bene quella Sicilia dell’88 e dell’89. Corvi, talpe, sciacalli, candelotti di dinamite, «menti raffinatissime», misteri che hanno fatto tremare l’isola e anche l’Italia.
Il 1988 era cominciato male a Palermo. Gennaio non era ancora finito e avevano ucciso Giuseppe Insalaco, un ex sindaco, un uomo politico che aveva deciso di denunciare le trame intorno ai grandi appalti, sempre gli stessi nomi, sempre le stesse protezioni, sempre gli stessi oscuri legami fra un Palazzo e l’altro. Insalaco lasciò un «diario» con il suo grido di dolore e le sue accuse, due liste di nomi, da una parte i «buoni» (fra i quali il presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella, ucciso; il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, ucciso; il consigliere istruttore Cesare Terranova, ucciso; il segretario regionale del Partito comunista italiano Pio La Torre, ucciso), dall’altra i «cattivi» (fra i quali l’europarlamentare Salvo Lima, il presidente Giulio Andreotti, il procuratore capo della Repubblica Vincenzo Pajno, l’esattore mafioso Ignazio Salvo) e in mezzo una Palermo sprofondata nella paura. Dei sicari di Totò Riina e dei loro complici, invisibili gli uni e gli altri ma presenti in una città sospesa fra il suo passato e il suo futuro.
Il maxi processo si era concluso un anno e un mese prima con le prime e decisive condanne per la Cupola. L’impianto accusatorio del pool antimafia aveva retto alla prova della Corte d’assise, ma in tanti speravano nell’appello per disintegrare quel capolavoro di ingegneria giudiziaria che aveva inventato Giovanni Falcone. Era già arrivata la stagione del disincanto. Era passato appena un anno dalla fine del maxi processo e sembrava un secolo.
Fu in quella primavera che a Roma decisero di scavare la fossa istituzionale a Falcone. A Palazzo dei Marescialli, la sede del Consiglio superiore della magistratura. Al posto di Antonino Caponnetto, il consigliere istruttore che aveva sostituito Rocco Chinnici saltato in aria il 29 luglio del 1983, nominarono un vecchio magistrato che non sapeva nulla di questioni mafiose e che in poche settimane disintegrò a colpi di penna l’«unicità» di Cosa nostra, sparpagliando in mille rivoli tutte le indagini che il pool aveva centralizzato. Nei corridoi del Tribunale parlarono di «spezzatino antimafia». Era la fine di un metodo di lavoro e di investigazione che aveva dato per la prima volta straordinari risultati. Un segnale per Giovanni Falcone, dentro e fuori Palermo, dentro e fuori lo Stato. Qualche mese dopo questa vergognosa vicenda interna alla magistratura italiana, il procuratore capo della Repubblica a Marsala Paolo Borsellino denunciò «la fine della lotta alla mafia». In una clamorosa intervista che rilasciò a Saverio Lodato de L’Unità e a me, che già scrivevo da quasi dieci anni per La Repubblica, Borsellino sferrò un attacco contro le scelte del Consiglio superiore della magistratura e accusò la macchina repressiva dello Stato di non muoversi più «dai tempi di Ninni Cassarà e Beppe Montana», i due funzionari della Squadra mobile di Palermo assassinati nel 1985 e che erano stati il «motore» delle indagini di Falcone per istruire il maxi processo.
L’estate siciliana del 1988 se ne andò con un titolo in prima pagina – ogni giorno – su tutti i quotidiani italiani. Era esploso il «caso Palermo», con il suo Tribunale ormai chiamato il «Palazzo dei veleni», le infuocate polemiche sulla mancata nomina di Giovanni Falcone a consigliere istruttore, il cambio improvviso dei vertici della polizia palermitana, i timori degli ambienti politici romani, le speranze dei siciliani.
Un’estate inquieta. Un’estate che non era ancora finita. E il 14 settembre, di mattina, nel silenzio più cupo uccisero Alberto Giacomelli, giudice figlio di un giudice, che da poco più di un anno aveva lasciato la toga. Un delitto «senza». Senza clamore. Senza assassini (mai trovati), senza movente per lungo tempo, senza lapidi e celebrazioni per ricordare l’uomo e il magistrato, un delitto senza niente e senza tutto. Un giudice dimenticato un attimo dopo la sua morte violenta. Inghiottito da maldicenze e depistaggi, dall’omertà, dall’ignoranza. Inghiottito da una Sicilia che appena qualche giorno dopo stava piangendo il presidente della Corte d’assise Antonino Saetta e qualche giorno dopo ancora il giornalista Mauro Rostagno. Mese di mattanza il settembre del 1988.
Si saprà solo dopo molti anni – quando ne parleranno i pentiti di Cosa nostra – che Alberto Giacomelli aveva «pagato» per avere confiscato con un provvedimento un «bene di famiglia», una proprietà di Gaetano Riina, il fratello dello «zio Totò», il capo dei capi, in quel 1988 latitante già da quasi vent’anni. Era presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Trapani, defilato, silenzioso, sobrio. Uno che dietro il sipario decideva i destini economici di quei «galantuomini», che aveva messo la sua firma su un patrimonio che per sua volontà e in nome del popolo italiano non apparteneva più al mafioso di Corleone che in Sicilia decideva chi doveva vivere e chi doveva morire. Così è uscito di scena, in punta di piedi, un coraggiosissimo magistrato siciliano che non aveva mai avuto le attenzioni dei cronisti o le luci degli studi televisivi, così è morto in solitudine Alberto Giacomelli. Ci sono delitti e delitti in Sicilia. E alcuni sono meno «importanti» di altri perché non «gridano», perché le vittime non hanno una storia pubblica tanto clamorosa da prendersi spazio prima e anche dopo un agguato di mafia.
La Sicilia del 1988 – dei giudici delegittimati e assassinati, dei giornalisti caduti – ha anticipato un 1989 non meno agitato e spaventoso. Prima i pentiti trovati alle porte di Palermo che volevano riprendere una «guerra» con i loro nemici di cosca, poi le lettere del Corvo per isolare ancora di più Giovanni Falcone. E poi ancora l’Addaura, quei candelotti di dinamite sistemati sulla scogliera per uccidere il magistrato. Mafia e non solo mafia. Fu quella volta che Falcone parlò di «menti raffinatissime». Fu quel giorno del giugno 1989 – il 21 – che Falcone cominciò a morire.
Introduzione – di Salvo Ognibene
La prima volta che ho incontrato il nome e la storia di Alberto Giacomelli è stata durante una delle mie prime udienze da praticante avvocato. Poco prima di entrare nell’aula penale al secondo piano del Tribunale di Trapani, incrociai una targa su cui vi era scritto «Aula Presidente Alberto Giacomelli». Mi soffermai a lungo a fissarla, poi entrai in aula. Da allora non ho più sentito nulla su quel giudice ucciso a Trapani quando era già in pensione. Lo «incontrai» nuovamente in una scuola siciliana: la docente che mi invitò, insieme a Rosaria Cascio, per parlare del nostro libro sull’eredità di padre Pino Puglisi, mi raccontò di tutto il bellissimo calendario di incontri che avevano stilato in occasione del Progetto/Concorso nazionale di Legalità intitolato ad Accursio Miraglia, nel settantesimo della ricorrenza e dell’ultimo incontro sulla storia e sull’esempio di Alberto Giacomelli, grazie alla presenza di don Giuseppe, il figlio. Una storia bellissima quella del giudice Giacomelli, ma coperta dal silenzio. Dopo mesi di studio e assidue ricerche continuo a non trovare una risposta chiara del perché una storia così importante sia stata quasi lasciata cadere nel dimenticatoio della memoria. Quella memoria che è l’anima di una comunità e che il nostro Paese, purtroppo, ha dimostrato di avere il difetto di dimenticare in fretta.
L’idea di scrivere questo libro è nata il 21 marzo 2017, durante un volo partito da Trapani e diretto a Bologna. Proprio a Trapani, nella città del giudice, si era tenuta la XXII Giornata nazionale della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti della mafia. Un’idea che si è lentamente trasformata in necessità, dopo aver studiato gli incartamenti giudiziari e aver incontrato chi aveva conosciuto il giudice ucciso il 14 settembre del 1988 per mano mafiosa.
Quello che vi consegno è il racconto della vita di Alberto Giacomelli, più come uomo che come giudice. È la storia di un uomo mite, sempre pronto al dialogo e a prendersi cura delle persone. Un uomo al quale il nostro Paese deve essere profondamente grato. Scavando nella sua storia, grazie soprattutto alla testimonianza di chi lo ha conosciuto all’interno del Palazzo di Giustizia di Trapani e di chi ne ha conservato il ricordo, torna subito in mente l’imperativo categorico del filosofo tedesco Immanuel Kant, che nella Critica della ragion pratica scriveva: «Agisci in modo da trattare l’umanità, tanto nella tua persona quanto nella persona di ogni altro, sempre anche come un fine, e mai unicamente come un mezzo».
L’umanità, ecco. Quello che ha sempre distinto Alberto Giacomelli.
Fonte: mafie.blogautore.repubblica.it
Articolo del 28 dicembre 2018
Un uomo perbene
di Salvo Ognibene
Il 14 settembre del 1988 è un giorno come tanti per il giudice in pensione Alberto Giacomelli. La vendemmia è terminata e come ogni anno il magistrato e la sua famiglia si sono trasferiti nella casa di campagna a Locogrande, una frazione del comune di Trapani.
Giacomelli esce di casa alle otto del mattino e, a bordo della sua Fiat Panda (che nel frattempo ha sostituito l’auto di servizio), si immette nella via Falconara diretto verso la strada statale 115.
Il suo corpo viene ritrovato al centro dell’asfalto.
Nessun segno di frenata. Lo sportello chiuso. Ha ancora le chiavi in mano.
Tre spari.
La sua vita interrotta da due proiettili che lo colpiscono alla testa e all’addome, aveva sessantanove anni.
A circa duecento metri, vicino ad un cassonetto per i rifiuti, viene ritrovata una vespa di colore celeste ed una pistola cal. 38 e, all’interno del contenitore, un casco di colore rosso.
Subito dopo partì la delegittimazione, e le indagini degli inquirenti si indirizzarono verso questioni di campagna e, in particolare, sulla gestione (presunta) poco chiara, di terreni e soldi, da parte del giudice tanto da non escludere l’ipotesi di un delitto legato ad un tentativo di estorsione.
Dopo, un lungo silenzio.
È, a tutti gli effetti, un delitto «senza» quello di Alberto Giacomelli: senza clamore, senza assassini (mai trovati), senza movente per lungo tempo, senza lapidi e celebrazioni.
Si saprà solo dopo molti anni – quando ne parleranno i pentiti di Cosa Nostra – che il giudice aveva “pagato” per avere confiscato con un provvedimento un “bene di famiglia”, una proprietà di Gaetano Riina, il fratello dello “zio Totò”, il capo dei capi, in quel 1988 latitante già da quasi vent’anni. Proprio in quegli anni era entrata in vigore la legge “Rognoni – La Torre” con la quale si colpivano le mafie nelle ricchezze e nei patrimoni accumulati, indebolendole sia dal punto di vista economico che, soprattutto, da quello sociale e proprio tra i primi provvedimenti emessi ci furono quelli della sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Trapani di cui Alberto Giacomelli ne era il presidente.
Il 28 gennaio 1985 il collegio da lui presieduto decretava l’applicazione della misura di prevenzione della sorveglianza speciale per la durata di tre anni a Gaetano Riina e la confisca dei beni immobili appartenenti a lui e alla moglie, Vita Cardinetto.
Un “affronto” troppo grave, tanto che Gaetano Riina cercò non solo di ricorrere ai gradi superiori della Giustizia per riavere la sua casa ma anche di mantenerne il possesso facendosi nominare affidatario e chiedendo di poter ottenere la disponibilità di uno degli immobili che avevano costituito la sua casa di abitazione (richiesta che non gli fu accordata).
Fu quella firma a “condannare” Giacomelli.
In qualità di mandante, l’unico condannato per l’omicidio del giudice di Trapani, è stato Salvatore Riina, colpevole d’aver cagionato la morte di Giacomelli; degli esecutori, invece, nessuna traccia. Una vendetta attuata 3 anni e mezzo dopo, perché la mafia non dimentica. La mafia non uccide mai senza una ragione (la loro) ma la prevedibilità del delitto Giacomelli non poteva essere annunciata, e la piena verità, purtroppo, non è stata raggiunta.
Per il delitto gli esecutori non sono mai stati individuati.
Undici giorni dopo l’omicidio del giudice verranno uccisi dalla barbarie mafiosa, il giudice Antonino Saetta, assassinato sulla strada Agrigento – Caltanissetta insieme al figlio Stefano e, poche ore dopo, il 26 settembre 1988, il giornalista Mauro Rostagno, vittima di un agguato a Valderice.
Morti che gridano ancora giustizia e che si portano dietro qualche mistero e poche certezze.
Alberto Giacomelli prima di essere giudice è stato uomo e da uomo è stato ucciso. Colpito per il suo servizio prestato in magistratura, quando magistrato non era più.
E’ l’unico caso di un giudice ucciso quando era già in pensione.
Chi lo ha conosciuto racconta ancora oggi la sua ricchezza di umanità, gli insegnamenti colmi di etica e il rispetto anche per gli imputati, l’attitudine a socializzare con i giovani, avvocati e magistrati, non curandosi mai delle gerarchie.
Per voce di popolo, Alberto Giacomelli, era semplicemente “u zù Betto”, ed era forse il giudice più amabile e benvoluto degli uffici giudiziari trapanesi. Il suo viso esprimeva quella sensibilità e quell’accoglienza che non è facile trovare tra i magistrati, soprattutto tra i vecchi magistrati; una categoria professionale difficile e a volte troppo chiusa in se stessa. Giacomelli lo sapeva bene e, in un certo qual modo, per questo è stato un magistrato adottante: come racconteranno molti colleghi, lui accoglieva chiunque arrivasse.
Un uomo sensibile e di vasta cultura che aveva sempre vissuto la propria vita e la propria professione serenamente.
Una storia lontana dalle attenzioni dei cronisti e dalle luci degli studi televisivi, una storia che ci insegna la normalità del “dovere”, nella professione e nella vita, anche a distanza di trent’anni dall’omicidio mafioso del giudice Alberto Giacomelli.
Un uomo al quale il nostro Paese deve essere profondamente grato.
Fonte: alqamah.it
Articolo del 14 settembre 2018
Un uomo perbene
Lo scrittore Salvo Ognibene col suo nuovo libro dedicato al giudice Alberto Giacomelli, ucciso dalla mafia a Trapani 30 anni addietro
Approda in libreria il nuovo libro del giovane scrittore menfitano Salvo Ognibene dal titolo “Un uomo perbene – Vita di Alberto Giacomelli, giudice ucciso dalla mafia”, pubblicato da Edb. La prefazione è a cura del giornalista de La Repubblica Attilio Bolzioni.
Si legge nella descrizione del libro già in vendita nei principali bookstore online: “Nell’estate inquieta del 1988, la mattina del 14 settembre, viene ucciso a Trapani il giudice Alberto Giacomelli, che da più di un anno ha lasciato la toga per andare in pensione. È, a tutti gli effetti, un delitto «senza»: senza clamore, senza assassini (mai trovati), senza movente per lungo tempo, senza lapidi e celebrazioni. Un delitto senza memoria, inghiottito da depistaggi, omertà, ignoranza e, sullo sfondo, l’ombra cupa di Totò Riina. Giacomelli era presidente delle misure di prevenzione del Tribunale, un uomo defilato, silenzioso, sobrio. Uno che dietro il sipario decideva i destini economici di quei «galantuomini» e che aveva messo la firma su un patrimonio che, per volontà e in nome del popolo italiano, non doveva più appartenere alla mafia. Lontana dalle attenzioni dei cronisti e dalle luci degli studi televisivi, la storia di Giacomelli viene ora riconsegnata alla memoria grazie ai ricordi di chi lo ha conosciuto”.
Salvo Ognibene ha studiato giurisprudenza all’Università di Bologna discutendo una tesi sui rapporti tra Chiesa, mafia e religione. Nel 2011 ha fondato il sito di informazione e dibattito Dieci e Venticinque e collabora, tra le altre, con Articolo21. Impegnato nella promozione della legalità e della cultura antimafia, ha contribuito alla formazione di diversi dossier di denuncia sul fenomeno mafioso in Emilia Romagna. Ha pubblicato nel dicembre del 2014 “L’eucaristia mafiosa. La voce dei preti” (Navarra Editore, 2014) e ha realizzato uno spazio di condivisione e approfondimento sui rapporti tra mafia e Chiesa (www.eucaristiamafiosa.it). “Il primo martire di mafia. L’eredità di padre Pino Puglisi” (Edizioni Dehoniane, 2016), scritto insieme a Rosaria Cascio, è il suo secondo libro e Sport e Identità. La lotta alla discriminazione in ambito sportivo (a cura di Antonello De Oto, Bonomo Editore 2016).
“L’idea di scrivere un libro sulla storia del giudice Alberto Giacomelli – spiega l’autore – nasce il 21 marzo 2017, durante un volo partito da Trapani e diretto a Bologna. Proprio a Trapani, nella città del giudice, si era tenuta la XXII Giornata nazionale della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti della mafia organizzata da Libera. Un’idea che si è lentamente trasformata in necessità, dopo aver studiato gli incartamenti giudiziari e aver incontrato chi aveva conosciuto il giudice ucciso il 14 settembre del 1988 per mano mafiosa. Quello che vi consegno è il racconto della vita di Alberto Giacomelli, più come uomo che come giudice. È la storia di un uomo mite, sempre pronto al dialogo e a prendersi cura delle persone. Un uomo al quale il nostro Paese deve essere profondamente grato”.
Il libro in prima nazionale è stato presentato ieri sera a Trapani al Seminario vescovile, presenti con l’autore il Vescovo Pietro Maria Fragnelli, il procuratore generale di Reggio Calabria Dino Petralia, e il già presidente di sezione in Cassazione Pietro Maria Sireci. Ad introdurre la presentazione, moderata dalla giornalista Lilli Genco, è stato don Giuseppe Giacomelli, figlio del giudice ucciso da Cosa nostra il 14 settembre del 1988.
fonte comunicalo.it
Salvo Ognibene presenta il libro “Un uomo perbene” – Alberto Giacomelli