24 ottobre 1988 Torino. Ucciso a colpi di lupara Giuseppe Valentino, operaio di 50 anni, originario di Siderno.
Giuseppe Valentino, 50 anni, operaio da 32 anni presso la Ditta Stola di Torino, originario di Siderno (RC), da cui era emigrato all’età di 17 anni, è stato ucciso il 24 ottobre del 1988 mentre, in bicicletta, si recava al lavoro, da un assassino che gli ha esploso contro, a bruciapelo, due colpi, uno alla testa e uno all’addome.
Giuseppe Valentino era una persona onesta, come raccontarono tutti quelli che lo conoscevano, viveva del proprio lavoro e possedeva solo quella bicicletta con cui si recava al lavoro.
“Un misterioso delitto a Torino. Probabilmente indecifrabile se si tralasciano i riferimenti alla Calabria, alla vita nelle province dominate dalla ‘ndrangheta. A radici che affondano nel tempo ma esprimono tutta la loro vitalità in vendette e catene d’interessi. La «colpa» attribuita dalla ‘ndrangheta a Giuseppe Valentino potrebbe anche essere solo quella di aver risposto «no» a una richiesta di collaborazione o partecipazione a qualche crimine, magari tentando di ignorare un «giuramento di sangue» pronunciato in gioventù.”
Fonte: archiviolastampa.it
Articolo del 25 ottobre 1988
Torino come l’Aspromonte. Troppe lupare di ‘ndrangheta
di Alessandro Rigaldo
In Calabria per inquadrare la spietata esecuzione in via Asiago di Giuseppe Valentino. L’ucciso era originario di Siderno, paese dominato per 50 anni dal boss mafioso Antonio Macrì.
Si cerca in Calabria il movente del feroce omicidio di Giuseppe Valentino, ucciso a Torino ieri mattina a colpi di lupara, mentre andava al lavoro in bicicletta. Come per altri delitti attribuibili all’«onorata società», in prima battuta non c’è altro da fare per gli inquirenti che scavare nei luoghi d’origine nel tentativo di inquadrare questo tipo d’esecuzione, che se è all’ordine del giorno nelle province di Reggio Calabria e Catanzaro, si ripete a Torino in questi ultimi tempi con preoccupante regolarità.
Da Siderno, dov’era nato 52 anni fa, Giuseppe Valentino se n’era andato a 17 anni. Ufficialmente per cercare lavoro, ma in quel paese jonico nel ’53 spadroneggiava Don Antonio Macrì, il boss dei boss «Zi ‘Ntoni», capobastone che controllava personalmente l’intera vita e i traffici della città. Nessuno si allontavava senza che lui sapesse. A lui si doveva la «mazzetta» per ogni attività redditizia, di lavoro: anche per miseri stipendi. Molti dei giovani che si allontanavano dovevano prima sottoporsi a un giuramento di fedeltà di stile mafioso.
Come tutti i seguaci dei tre mitici cavalieri spagnoli (Osso, Mastrosso e Gargagnosso) che hanno dato luogo a mafia, ‘ndrangheta e camorra, Antonio Macrì è stato implacabile con i suoi nemici e, uomo della vecchia guardia ancorata al codice d’onore mafioso, si scontrò però con le giovani leve, giovani tracotanti che credevano solo nella legge del tritolo, nei guadagni con i sequestri di persona per arricchirsi in fretta e bene.
Una catena di delitti precedettero nel 1975 l’esecuzione di Antonio Macrì, e a centinaia si contano quelli che questa morte ha provocato. L’uccisione di questo «boss dei boss» fa storia perché era uno che contava anche in America, in seno a Cosa Nostra. Al matrimonio della figlia primogenita (Macrì ebbe nove figli di primo letto, uno di secondo e una ventina di nipoti) a rendergli omaggio arrivarono in jet invitati dall’America e dall’Australia. «Gente — dichiarò emblematicamente lo stesso Macrì — venuta per rispetto e non per paura». Due anonimi «killer» lo eliminarono dopo 50 anni di potere assoluto, mandati da qualcuno che vedeva in «Don Antonio» di Sidemo un ostacolo alla scalata del proprio potere. Un uomo, un mito, responsabile di molti delitti e altri crimini in vita e che ne ha forse provocati ancora di più da morto.
E’ in quest’assurdo ambiente criminale che gli inquirenti torinesi con l’aiuto dei colleghi calabresi cercano esecutori e mandanti del delitto di ieri. Una spietata esecuzione per un calabrese che lavorava da 32 anni nella ditta di modelli in legno per fonderia dei fratelli Stola, uno dei quali, Francesco, fatto sparire per sempre nel ’78 dopo un sequestro quasi certamente compiuto da una banda mista calabro-piemontese.
Giuseppe Valentino non è mai stato ricco. Ha sempre provveduto alla famiglia (il suo matrimonio con Maria Teresa Gentili è stato senza figli) lavorando indefessamente, facendo straordinari e con il contributo del lavoro di lei. Non possedeva nemmeno l’auto, soltanto quella bicicletta da cui è caduto quando un assassino ancora senza volto gli ha esploso contro, a bruciapelo, due colpi, uno alla testa e uno all’addome, sfigurandolo.
Un nuovo misterioso delitto a Torino. Probabilmente indecifrabile se si tralasciano i riferimenti alla Calabria, alla vita nelle province dominate dalla ‘ndrangheta. A radici che affondano nel tempo ma esprimono tutta la loro vitalità in vendette e catene d’interessi. La «colpa» attribuita dalla ‘ndrangheta a Giuseppe Valentino potrebbe anche essere solo quella di aver risposto «no» a una richiesta di collaborazione o partecipazione a qualche crimine, magari tentando di ignorare un «giuramento di sangue» pronunciato in gioventù.
Fonte: archiviolastampa.it
Articolo del 26 ottobre 1988
Sul delitto l’ombra della ‘ndrangheta
Le indagini per l’uccisione dell’operaio freddato l’altra mattina a colpi di lupara
Secondo la polizia, i killer non hanno sbagliato persona: «Sapevano quello che facevano» – Ma la moglie e gli amici ripetono: «Era una brava persona» – Storie di un boss di Siderno e di un rapito mai tornato.
E’ nel salotto, gonna e maglia nere, attorno ci sono i parenti: -Chiedo solo giustizia’. La vedova di Giuseppe Valentino, 52 anni, l’operalo ammazzato l’altra mattina in via Asiago, alle 7, mentre In bicicletta stava andando al lavoro, ripete: ‘Chiedete, chiedete a tutti- Giuseppe era un uomo onesto, una brava persona. Casa e lavoro’.
I parenti la sorreggono: •Lasciatemi stare, lasciatemi dire — reagisce Maria Teresa Valentino —. Ci siamo sposati 25 anni fa, lui era arrivato a Torino nel ‘SI. Erano anni difficili per tutti. Viveva in una baracca. Poi, col sudore della fronte, s’era sistemato.
Polizia e carabinieri hanno indagato nel suo passato: nulla che possa essere utile all’inchiesta. Le indagini si sono spostate anche nel Sud, a Sidemo, dov’era nato, per scoprire qualche fatto che possa portare un po’ di luce su questo fatto di sangue.
C’è chi ricorda altri omicidi, recenti e passati, a Torino e nel Sud; c’è chi sottolinea che proprio a Siderno, paese di Valentino, dieci anni fa è stato ammazzato Antonio Macrì, boss dei boss, «Zi ‘Ntoni-. capobastone che controllava tutte le attività economiche in paese e nella provincia. Ma che, si mormora, pretendeva anche «mazzette», cioè tangenti, da chi lasciava Sidemo e trovava fortuna al Nord: un giuramento d’onore, fatto al boss, partendo, che poi non si poteva più tradire, pena la vita.
E la vendetta per quel delitto non sarebbe ancora finita. Lui, «Zi ‘Ntoni», negli ultimi mesi di vita, si era scontrato con le giovani leve della mala locale, che tentavano di Imporsi credendo di far presto soldi con i1 sequestri, forse con la droga.
La sua morte avrebbe scatenato una lunga serie di vendette, una faida che andrebbe ancora avanti, con morti ammazzati in Italia, ma anche nella lontana Australia, dove molti abitanti di Siderno sono emigrati in questi anni.
Va precisato che sono solo ipotesi. E, ammesso che ci siano legami, non è però stata trovata la chiave tra questi episodi e la morte di Giuseppe Valentino, uomo che tutti definiscono «onesto e corretto’. Potrebbe avere detto «no» a richieste da parte della ‘ndrangheta?
Nella casa di via Germonio 50, accanto alla vedova, ci sono alcuni compagni di lavoro di Giuseppe Valentino, operaio alla ditta Stola, produzione di stampi in legno per fonderia, di via La Thuile 71. Uno dei titolari della fabbrica, Francesco, fu sequestrato il 7 febbraio ’78, di lui non si è saputo più nulla, i suoi rapitori non si sono mai fatti vivi.
I compagni di Valentino: •Una brava persona Giuseppe. D’estate, spesso, rimaneva in azienda come guardiano, mentre noi andavamo in ferie. Era persona di fiducia’.
E allora, perché è stato ammazzato? Un errore di persona? I killer, erano due giovani, aspettavano per strada, a bordo di una Fiat Uno scura. Hanno seguito Valentino per alcuni metri, poi lo hanno affiancato: un colpo di sterzo, lui è caduto a terra.
Il killer è sceso, la lupara in mano. Due colpi, che gli hanno devastano il volto e spappolano l’addome. Un errore? •Non è possibile, hanno avuto il tempo per riconoscerlo’, dicono gli inquirenti. Maria Teresa Valentino: •M’a perché?’. E nessuno, per ora, sa darle risposta.
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Fonte: archiviolastampa.it
Articolo del 6 luglio 1989
Torino, per la mafia è terra di frontiera. Un «tribunale» decide, i killer sparano.
di Ivano Barbiero
La lunga catena di delitti comincia con l’assassinio di Giuseppe Papaleo. Dietro ogni agguato, la guerra per la spartizione del traffico della droga. E poi? Sempre più difficili le indagini.
La lunga catena di delitti comincia con l’assassinio di Giuseppe Papaleo. Dietro ogni agguato, la guerra per la spartizione del traffico della droga. E poi? Sempre più difficili le indagini. C’è un tribunale che decide le esecuzioni. È quello della mafia. Non ha appelli, non ha volti, non accetta «errori». E Torino, «terra dì frontiera», è semplicemente una delle tante isole di quest’arcipelago costruito sulla legge della P 38. In più di un’occasione gli inquirenti hanno rimarcato che nell’«isola Torino» c’è un vuoto nella leadership della mala e qualcuno sta cercando di approfittarne tentando di occupare gli spazi lasciati vuoti dal clan dei catanesi. Dov’è il comune denominatore, oltre a quello del controllo del traffico della droga, che arma la mano dei sicari? Attorno a quale tavolo si decidono le sentenze? Come risposta rimane la lunga serie di cadaveri.
La catena di delitti che negli ultimi due anni ha insanguinato la città e l’hinterland viene aperta il 29 febbraio ’88 con l’omicidio di Giuseppe Papaleo, personaggio di secondo piano della mala, scoperto il 29 febbraio a Castiglione con 4 proiettili calibro 38 in corpo. Ucciso altrove e poi abbandonato in una zona che presto verrà ribattezzata «discarica dei morti». Una pausa e si arriva a sabato sera 11 giugno: fuori dal pub Danton di corso Umbria si scatena l’inferno. Muoiono i fratelli Maurizio e Roberto Caserta assieme a Michela Ansaldi, 16 anni, che aveva accettato di uscire insieme con l’amica, Angela Migliore, 17 anni, scampata per buona sorte alla stessa fine. Mesi dopo le indagini stabiliscono che i due fratelli hanno litigato all’interno del locale con i proprietari, ma sono stati crivellati di colpi da altre persone, estranee alla prima lite, che li hanno attesi all’esterno.
L’11 luglio è la volta di Luigi Pacella, gestore della discoteca Ypnos, di via Carelli, a cadere sotto i colpi di lupara in un agguato tesogli sotto casa, in via Stradella 30. La «firma» della lupara — che porta insieme sfregio e morte — ha precisi riscontri: nei due anni precedenti nel Torinese ha ucciso soltanto tre volte. Prima di Pacella ha stroncato le vite di Francesco Rinella, un palermitano considerato potente boss mafioso, e di Santo Miano, fratello di Ciccio e Roberto Miano, ritenuti i capi del clan dei catanesi. Tutte esecuzioni con precisi riferimenti agli strati più profondi della malavita torinese, con strettissimi legami con potenti organizzazioni del Sud. Tutti delitti ancora impuniti.
Non passa una settimana dall’agguato a Pacella e il 16 luglio si registra un nuovo regolamento di conti. Stavolta ci lascia la pelle Roberto Bongiorno, 38 anni, pregiudicato, in libertà provvisoria, ucciso con un pallettone calibro 12 a casa sua in via Millefonti 20. Nel soggiorno c’erano anche la moglie della vittima e i due figli, di 10 e 6 anni. Lui ha aperto senza sospetti né esitazioni, il killer gli ha messo la canna alla fronte. Bongiorno era l’uomo cui la notte fra sabato e domenica 11 giugno, i fratelli Caserta telefonarono prima di essere massacrati a rivoltellate.
Il 23 agosto c’è una nuova vittima designata: Francesco Di Gennaro, 43 anni, «Franco il Rosso» per gli amici, già bersaglio l’anno prima di un agguato da parte di uno sconosciuto che gli aveva sparato due colpi alla testa mentre saliva in auto. Per non sbagliare stavolta sono due i killer; incappucciati entrano nel bar di via Pollenzo 37: uno tiene a bada i clienti, l’altro esplode tre colpi a pallettoni.
E si arriva all’«ottobre di fuoco». Il giorno 4, verso le 22, davanti ad un bar di via Don Monaldo viene ucciso a colpi di lupara Michele Mosto, 50 anni, già noto a polizia e carabinieri per un lungo curriculum di reati. Nella stessa mattinata è stato registrato un altro misterioso delitto, nel deposito di un demolitore in lungo Dora Colletta 179. Un uomo viene trovato cadavere all’interno di una vettura distrutta dal fuoco. Chi era? Perché il delitto? Interrogativi tuttora senza risposta. Dodici anni prima, il 24 settembre ’76, in quello stesso spiazzo di auto accatastate due killers avevano esploso una ventina di colpi con pistole e fucile a canne mozze, uccidendo Carmelo Fogliano, 43 anni, catanese, pendolare del carcere, ricercato da mesi. In seguito si scoprì che l’obiettivo erano i fratelli Francesco e Giovanni Camazza. Dietro Quell’agguato sempre il traffico ella droga. Il 25 ottobre, in via Asiago, alle 7 di mattina, Giuseppe Valentino, 52 anni, operaio calabrese, viene ucciso in strada a colpi di lupara. Due killers in auto l’affiancano mentre va al lavoro in bici. Oscuro il movente: uno sgarro, un «rifiuto» inatteso, un tassello della guerra in atto fra cosche?
Finisce invece in una cava di Moncalieri, con due proiettili nella testa, la «fuga» di un pregiudicato di 22 anni, Fortunato Marselli, residente a Sinopoli, Reggio Calabria. Sulle prime si era pensato scappasse da un «doppio fidanzamento», ma quando il 3 dicembre, in via San Secondo, viene freddato sotto casa Ottavio Napoli, uno dei proprietari della cava in cui il Marsetti aveva trovato ospitalità e rifugio, dai carabinieri del Nucleo operativo e dalla Mobile torinese arriva la conferma che «c’è odore di droga dietro i due omicidi».
La stessa aria che si respira il 14 dicembre per lo «spietato regolamento di conti» in un’agenzia di assicurazioni, la Ticino, di via Brandizzo. I sicari arrivano incappucciati su un’auto, spalancano la porta e fanno fuoco con grosse pistole automatiche sul titolare e un amico: Francesco «Franco» Costanzo, 37 anni, originario di Siderno Marina, sposato con tre figli, già implicato negli anni precedenti in storie di armi e droga, e Vincenzo Caccamo, 35 anni, originario di Locri, titolare di una piccola impresa edile.
Quest’anno invece i delitti di mafia iniziano con l’uccisione di Urbano Curinga, un calabrese ucciso il 27 maggio a Castellamonte. Il 23 marzo è la volta di Giulio Perona, freddato a Pianezza a colpi di pistola. Il 10 aprile a Castiglione Torinese viene trovato carbonizzato Antonio Reale, calabrese. Undici giorni dopo, a Grugliasco, si scopre il cadavere bruciato di Santo Priolo. Il 2 maggio tocca a Massimo Gatto, ucciso a colpi di pistola a Volpiano. Sei giorni dopo è la volta di Domenico Minervino, gettato in una roggia a Pancalieri, con cinque pallottole nella schiena. Il 30 maggio a Gassino viene trovato cadavere Vincenzo Lucente. Il 21 giugno un altro cadavere carbonizzato, quello di Pasquale Franzè, scoperto a Rivoli, e otto giorni dopo, l’uccisione di Francesco Barba a Rivalla. L’altro ieri l’omicidio di Pino Torinese: Valentino Giordano, 39 anni, giustiziato e gettato giù dall’auto, la decima vittima di quest’anno. Tanti nomi, altrettante «croci» in una «città parallela» alla Torino che cerca di crescere.
23-12-1992 – Cronaca di Torino
Fonte: archivionews.it
Giuseppe Altomare, latitante, imputato di concorso nel sequestro di Francesco Stola, il contitolare di un’impresa di modelli in legno per l’industria scomparso il 7 febbraio del 1978, è stato condannato ieri dai giudici della prima sezione penale (presidente Ambrosini) a sette anni di reclusione, di cui cinque condonati, ma per tentata estorsione. Secondo i giudici, Altomare sarebbe stato in possesso di informazioni sui rapitori di Francesco Stola e avrebbe cercato di approfittare della situazione spillando denaro alla famiglia.
In aula è venuto a testimoniare il fratello del rapito, Roberto Stola: «A due mesi di distanza dal sequestro le trattative improvvisamente si interruppero. Due miei dipendenti, Valentino e Trichilo, mi avevano portato un orologio che io avevo riconosciuto essere di mio fratello, e mi avevano detto che Altomare poteva sapere qualcosa. La stessa cosa mi ripetè il commendator Orfeo Pianelli, che io ero andato a trovare per farmi dare dei consigli da una persona che si era trovata in una analoga situazione. Pianelli parlò di Altomare come di persona che di rapimenti se ne intendeva». Non essendo state raccolte prove di una effettiva partecipazione di Altomare al sequestro, i giudici hanno derubricato l’imputazione originaria in tentata estorsione.