9 Novembre 1995 Catania: Ucciso Serafino Famà, avvocato penalista, perché si era rifiutato di assecondare le richieste di un mafioso.
Serafino Famà era un avvocato penalista, che considerava la sua funzione non semplicemente come un lavoro, lui ci credeva, indossava la toga e la onorava ogni giorno.
Serafino Famà credeva nella giustizia, nel diritto di ogni uomo ad essere difeso, nella legalità. “Onestà e coraggio. Se ti comporti con onestà e coraggio non devi avere paura di nulla”. Per quel suo rifiuto ad una richiesta di un mafioso venne condannato a morte da quel boss che oggi collabora con la giustizia. Serafino Famà fu ucciso a Catania il 9 novembre 1995.
Articolo da 19luglio1992.com
Onestà e coraggio: Serafino Famà
di Marco Bruno
9 novembre 2010. Sono trascorsi 15 anni dall’omicidio per mano criminale dell’avvocato Serafino Famà. Egli nacque il 3 aprile del 1938 a Misterbianco in provincia di Catania; era un avvocato penalista, che considerava la sua funzione non semplicemente come un lavoro, lui ci credeva, indossava la toga e la onorava ogni giorno. Credeva nella giustizia, nel diritto di ogni uomo ad essere difeso, nella legalità. “Onestà e coraggio. Se ti comporti con onestà e coraggio non devi avere paura di nulla”. Per quel suo rifiuto ad una richiesta di un mafioso venne condannato a morte da quel boss che oggi collabora con la giustizia.
Sono le 21 del 9 novembre 1995: all’angolo tra viale Raffaello Sanzio e via Oliveto Scammacca vengono esplosi sei colpi di pistola calibro 7,65 che colpiscono e uccidono l’avvocato Serafino Famà. Lui e il collega Michele Ragonese sono appena usciti dallo studio poco distante e stanno raggiungendo la macchina posteggiata in piazzale Sanzio, pronti a tornare a casa. Poi gli spari, Famà si accascia al suolo, è ancora vivo, ma per poco. Alle 21.20, al suo arrivo in ambulanza al Pronto Soccorso dell’ospedale Garibaldi, ha già smesso di respirare.
Per un anno e mezzo le indagini su quel delitto non portano a nessuna soluzione, fino al 6 marzo 1997, data in cui Alfio Giuffrida, affiliato e reggente del clan mafioso Laudani, manifesta la sua intenzione di collaborare con la giustizia.
Secondo i PM Ignazio Fonzo e Agata Santonocito, il mandante, dal carcere, è Giuseppe Di Giacomo (reggente del clan Laudani), gli esecutori materiali sono Salvatore Catti e Salvatore Torrisi, mentre lo stesso Giuffrida e Fulvio Amante osservano la scena da un’automobile. Il 16 marzo del 1998 il GUP del Tribunale di Catania dispone il rinvio a giudizio per loro e per altre quattro persone, accusate di omicidio volontario pluriaggravato, porto e detenzione illegali di arma da fuoco e ricettazione.
Il movente dell’omicidio è semplice: «Gli ha fregato i soldi…», dice il boss Di Giacomo al cognato Matteo Di Mauro, durante uno dei loro colloqui all’interno della casa circondariale di Firenze. Il soggetto, però, non è Serafino Famà, bensì l’avvocato Tommaso Bonfiglio, legale Di Giacomo, dal quale avrebbe ottenuto tra i duecento e i duecentocinquanta milioni di lire con la promessa di immediata scarcerazione, non avvenuta. Ma colpire Bonfiglio sarebbe stato un azzardo, avrebbe aggravato la situazione di Di Giacomo: il contrordine arriva pochi giorni dopo. Di Mauro comunica a Giuffrida «di lasciar perdere l’avvocato Bonfiglio, ma di fare l’avvocato Famà». Perché Famà?
Nella sentenza sull’omicidio Famà, si legge: «Di Giacomo si lamentava dell’arresto subìto, che riteneva ingiusto anche per le modalità con cui era stato eseguito, e contava molto sulle dichiarazioni di Stella Corrado per dimostrare la sua innocenza». E ancora: «La mancata deposizione della Corrado, certamente conseguente all’intervento dell’avvocato Famà, era stata vista dal Di Giacomo come la causa diretta della irrealizzabilità del proprio scopo (cioè la scarcerazione, ndr)».
Cominciano gli appostamenti, vengono coinvolti altri membri del clan. Si trovano in una stalla ad Aci Bonaccorsi quando Gaetano Gangi e Mario Basile comunicano che Famà è chiuso nello studio, e ci rimarrà probabilmente il tempo necessario perché lo raggiungano e gli tendano l’agguato. Nel giro di poche ore, Serafino Famà è una vittima della mafia. I giudici, nelle motivazioni della sentenza di colpevolezza a carico degli imputati, pronunciata il 4 novembre 1999, scrivono: «Le risultanze processuali pertanto, per come sopra evidenziato, hanno dimostrato che il movente dell’omicidio in esame va individuato esclusivamente nel corretto esercizio dell’attività professionale espletata dall’avvocato Famà».
Di Mauro, Di Giacomo, gli esecutori e gli autisti sono stati condannati all’ergastolo. Al collaboratore di giustizia Alfio Giuffrida è stata comminata la pena di diciotto anni di reclusione.
Di seguito è riportato un frammento di lettera di Flavia Famà, figlia di Serafino, scritta il 9 novembre 2009 in suo onore e in sua memoria:
“Sono passati 14 anni da quel 9 novembre del 1995 quando all’uscita dallo studio mio padre fu ucciso. Ucciso per dare l’esempio a chi, come lui, non intendeva ascoltare i “consigli” dei clienti. Nasce il 3 aprile del 1938 a Misterbianco in provincia di Catania. Mio padre era un avvocato penalista, non era solo un lavoro, lui ci credeva. Credeva nella giustizia, nel diritto di ogni uomo ad essere difeso, nella necessarietà di applicare e far rispettare la legge.”Onestà e coraggio”; se ti comporti con onestà e coraggio non devi avere paura di nulla mi diceva. Catania, 1995, una città difficile, intrisa di omertà, paura e accondiscendenza, purtroppo non molto distante dalla Catania di oggi…Il fatto scatenante è stato un processo che indirettamente coinvolgeva un’assistita di mio padre: questa donna era in casa con un uomo quando quest’ultimo viene arrestato, l’avvocato difensore dell’uomo ritiene fondamentale per la scarcerazione del suo cliente la testimonianza della donna, mio padre non lo ritiene opportuno e nonostante le richieste dell’altro avvocato dice alla sua assistita di non essere tenuta a farlo ed anzi pare che glielo sconsigli. L’uomo viene condannato e decide di uccidere il suo avvocato, quest’ultimo si discolpa dicendo che tutto è dipeso dalle scelte di mio padre. Indipendenza e libertà non potevano essere tollerate da loro. Non si è mai capito quale sia stata la reale influenza dell’avvocato sulla decisione di quell’uomo che dal carcere fece partire l’ordine di uccidere. Un omicidio che ha lasciato un testimone oculare incolume, un collega e caro amico di mio padre che quella sera era lì con lui e che è rimasto a lungo sotto choc. Tutti a volto scoperto. Non ho voluto citare i nomi dei soggetti coinvolti soltanto perché non voglio che il ricordo di mio padre venga associato a quello dei suoi carnefici. Mi piacerebbe che venisse ricordato per la sua onestà intellettuale, per il coraggio con cui difendeva ogni giorno le sue idee. Com’è cambiata la mia vita, come ho vissuto e vivo questo legame profondo… è un’altra storia.”
Articolo del Corriere della sera del 10 Novembre 1995
Avvocato dei boss ucciso dalla mafia
di Alfio Sciacca
Saliva in auto, sette colpi da due giovanissimi killer a volto scoperto.
CATANIA . Saltano gli equilibri e la mafia si accanisce anche contro i propri legali. Ieri sera e’ stato ucciso l’ avvocato Serafino Fama’ , 57 anni, uno dei piu’ noti penalisti della Sicilia orientale. Tra gli altri difendeva anche il boss Piddu Madonia, ex numero due di Cosa Nostra, e diversi mafiosi del clan Pulvirenti. Per lungo tempo era stato anche il legale del boss Giuseppe Pulvirenti, “U malpassotu”, prima che questi decidesse di collaborare con la giustizia. Un omicidio eccellente che segue di qualche mese il misterioso assassinio di Carmela Minniti, la moglie del boss detenuto Nitto Santapaola. L’ agguato e’ avvenuto alle 21.30 in viale Raffaello Sanzio in pieno centro cittadino. L’ avvocato era appena uscito dal suo studio con un collega, Michele Ragonese, e stava salendo in auto per fare rientro a casa. A freddarlo sarebbero stati due killer giovanissimi che hanno agito a volto scoperto: “Fama’ , avvocato Fama’ ” hanno gridato e quando il legale ha girato le spalle hanno esploso 7 colpi calibro 7,65 dei quali quattro sono andati a segno. Quindi sono scappati senza preoccuparsi del testimone oculare, segno evidente che la loro era una missione di morte mirata. L’ avvocato Michele Ragonese ha notato che il collega respirava ancora e ha tentato una disperata corsa verso l’ ospedale Garibaldi dove pero’ e’ avvenuto il decesso. L’ allarme e’ scattato immediatamente e la notizia e’ subito rimbalzata dagli schermi della trasmissione di Raitre, “Tempo reale” dove si parlava proprio di mafia alla presenza di alcuni ospiti catanesi. Sul luogo dell’ omicidio si sono recati diversi magistrati della direzione distrettuale antimafia e lo stesso procuratore Gabriele Alicata. “E un fatto gravissimo . ha commentato . perche’ si tratta di un rappresentante della classe forense che si batteva con tenacia, onesta’ e bravura. Ma prima di emettere giudizi dobbiamo andare avanti con le indagini”. E il lavoro degli inquirenti e’ iniziato con un interrogatorio dell’ avvocato che era con Fama’ al momento dell’ agguato. Michele Ragonese e’ apparso comunque sotto choc e solo questa mattina si potra’ procedere a una ricostruzione piu’ precisa della dinamica dei fatti. Sul luogo dell’ omicidio sono accorsi anche molti colleghi della vittima, tra i quali Enzo Guarnera, che assiste diversi pentiti di mafia. “E sconvolgente . ha detto . cio’ dimostra che in questa citta’ sono saltati tutti gli equilibri. Posso comunque dire che mai alcun pentito ha avanzato dubbi sulla dirittura morale di Fama’ e parlato di lui come un consigliori”. Anche il sindaco Enzo Bianco ha definito l’ agguato “un fatto devastante che scuote la citta’ “. Fama’ era padre di due figli ed esercitava da oltre 30 anni.
Nota da Ilforodemocratico.it del 9 Novembre 2007
L’avv. Serafino Famà
di Goffredo D’antona
Sono passati dodici anni dall’omicidio dell’avvocato Famà a Catania.
Ucciso perché non acconsentì ad una richiesta di un capo-mafia.
Ucciso per non voler fare un “piccolo favore “ processuale.
Ucciso perché l’unica cosa cui mirava erano i diritti dei propri assistiti.
Di quei momenti ricordo l’affetto di un intero Palazzo di Giustizia, che vegliò una bara in una notte sgomenta.
Di quei momenti ricordo il titolo del quotidiano di Catania, ed il giudizio, ugualmente sprezzante, che il figlio di un grande scrittore e giornalista siciliano diede della morte di un Uomo Libero.
Ma si sa chi non è libero non può compiutamente capire cosa sia la Libertà, cosa sia la Giustizia.
E oggi come ieri è difficile, per qualcuno comprendere, che la Libertà, la Giustizia, possano essere custodite anche dagli avvocati.
Avvocati che spesso si trovano in prima linea a gestire grandi e piccole tragedie quotidiane. Avvocati che non fanno notizia perché rifuggono i riflettori o perché i riflettori non si occupano delle miserie quotidiane. Senza nessuno che faccia girotondi per loro, senza che vengano chiamati in trasmissioni “ importanti “ a parlare delle pressioni subite.
Uomini e donne che vorrebbero fare semplicemente il loro lavoro, che la sera vogliono solo tornare a casa dai propri cari, e che invece diventano, malgrado loro, degli eroi.
Tre nomi del passato: l’avvocato Croce, l’avvocato Ambrosoli e, consentitemi, l’avvocato Famà.
Oggi pensiamo a Giovanna Fava, avvocato di Reggio Emilia, ferita gravemente, dal marito di una sua assistita, mentre compiva il proprio lavoro.
Pensiamo agli avvocati pakistani che scendono in piazza per protestare contro l’ennesimo golpe di un alleato degli U.S.A.
E’ facile elogiare gli eroi quando sono chiusi in una bara, quando giacciono in un letto di un ospedale, quando sono rinchiusi in un lager.
E’ difficile, per chi non capisce cosa sia la Libertà, cosa sia la Giustizia, apprezzare tanti uomini e donne che indossando una toga cercano semplicemente di fare il proprio lavoro.
Articolo da Virgiliocatania.myblog.it del 10 Novembre 2010
Serafino Famà, un avvocato davanti alla violenza mafiosa
«Catania nel 1995 era una città difficile, intrisa di omertà, paura e accondiscendenza, purtroppo non molto distante dalla Catania di oggi». Così Flavia Famà ricorda quel 9 novembre di 15 anni fa in cui suo padre fu assassinato per ordine della criminalità organizzata.
Un nome, quello dell’avvocato Serafino Famà, che oggi non dice nulla a molti. Un nome che è salito brevemente all’onore delle cronache nel periodo dell’omicidio e che oggi si perde tra quelli delle centinaia di vittime delle mafie. Un nome, ma soprattutto una storia e un esempio, che verranno ricordati domani alle 16 nell’aula A2 del Monastero dei Benedettini, con il convegno Il singolo davanti la violenza mafiosa. Un momento di memoria attiva che riunirà la famiglia, i ragazzi del suo studio, i cittadini. «Perché credo ancora che ci sia una speranza per questa città», spiega Flavia.
Serafino Famà era un noto penalista catanese, difensore di diversi esponenti della criminalità organizzata come Piddu Madonia – ex numero due di Cosa Nostra e boss di Gela – e gran parte della famiglia mafiosa dei Pulvirenti. Un mestiere che svolgeva con passione, convinto che la tutela legale non potesse negarsi a nessuno. Tra i suoi assistiti c’era anche Giuseppe Maria Di Giacomo, boss a capo del clan Laudani, poi diventato collaboratore di giustizia.
Al momento dell’arresto, Di Giacomo era in compagnia della sua amante. Il legale del boss trovava utilissima per la sua scarcerazione una testimonianza della compagna. La donna però era difesa proprio dall’avvocato Famà, che le consigliò di avvalersi della facoltà di non rispondere. Prima di un favore a un collega, prima di piegarsi alla richiesta di un uomo pericoloso, per l’avvocato veniva la sua integrità professionale, che coincideva con l’interesse della sua cliente.
Giuseppe Di Giacomo venne arrestato. Dal carcere ordinò l’uccisione del suo legale che, raggiunto dai sicari, li convinse di come la colpa fosse in realtà dell’avvocato Famà, che non aveva voluto far loro un favore. Così, la sera del 9 novembre 1995, in pieno centro, due giovani killer a volto scoperto avvicinarono l’avvocato Serafino Famà mentre usciva dal suo studio con un collega e spararono sette colpi con una pistola calibro 7,65. Quattro di questi colpirono l’avvocato, morto poco dopo all’ospedale Garibaldi, dove era stato trasportato dal collega.
Articolo da Lo SchiaffoSettimanale di libera informazione
del 20 Novembre 2010
La memoria contro la mafia
di Ornella Balsamo
Ha avuto luogo lo scorso 9 Novembre alla facoltà di Lettere e Lingue di Catania l’incontro-dibattito “Il singolo contro la violenza mafiosa” in occasione dei quindici anni dall’assassinio per mano mafiosa dell’avvocato Serafino Famà, penalista catanese fedele alla toga e al senso della giustizia.
Durante l’incontro, in presenza di una nutrita folla, sono intervenuti Ignazio Fonzo (Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Agrigento), Luciano Granozzi (Università di Catania), Viviana Matrangola (Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie), Rosanna Scopelliti (Presidente Fondazione “Antonio Scopelliti”) e Flavia Famà, figlia dell’avvocato.
Gli interventi più toccanti sono stati proprio quelli delle tre ragazze, le cui storie sono accomunate dalla perdita di un genitore a causa della mafia, dal dolore causato dalla perdita prima e dall’oblio poi, dalla volontà di trasformare la sofferenza in rabbia e la rabbia in impegno concreto.
Così Rosanna, figlia di Antonio Scopelliti, magistrato calabrese ucciso nel ’91, ha raccontato: «Dopo l’omicidio di mio padre mi ero allontanata dalla Calabria, non volevo più sentirne parlare. Quindici anni dopo, durante i funerali del vicepresidente della regione Calabria Francesco Fortugno, ho visto gli striscioni con scritto “Adesso ammazzateci tutti”: lì ho capito che dovevo tornare, per raccontare a tutti le storie delle vittime di mafia, di lupara bianca e dei testimoni di giustizia e da lì è nata la volontà di fondare l’associazione che prende il nome da mio padre».
Anche Flavia ha portato la propria testimonianza: «Anche io credevo che a Catania non ci fosse la mafia, che fosse solo a Palermo. Mi sono dovuta ricredere sulla mia pelle. Dopo essermi trasferita a Roma non volevo più avere a che fare col ricordo dell’omicidio, nessuno dei miei colleghi conosceva la mia storia, finché un 21 Marzo – giorno della commemorazione delle vittime di mafia promosso da Libera – ho sentito Rita Borsellino parlare: lei aveva dato voce al mio dolore». Serafino Famà era un penalista e difendeva i mafiosi, perché, come ci spiega lei stessa «credeva fermamente che il diritto alla difesa dovesse essere garantito a chiunque, a prescindere dal reato commesso; credeva nella correttezza nell’applicazione della legge, nel proprio lavoro, pur non sposando la causa dei propri assistiti, e per il suo senso del dovere è stato ucciso».
Ed il senso profondo di questo incontro è non dimenticare: perché l’oblio uccide una seconda volta e perché con la memoria si può combattere la mafia.
Articolo del 11 Novembre 2010 e foto da: Liberainformazione.org
Quel 9 novembre del 1995
di Flavia Famà
Il ricordo dell’avvocato Serafino Famà nelle parole della figlia Flavia
In questi anni molto è stato detto sulla figura di mio padre come professionista, come irreprensibile avvocato, adesso mi piace ricordarlo prima di tutto come padre, come uomo e poi parlare del suo rigore nello svolgere la sua professione. Mio padre è sempre stato un punto di riferimento certo, attento e presente. Trovava il tempo per ridere con noi, per giocare ma anche per affrontare discorsi più seri. Amava il calcio e giocava ogni settimana con i suoi colleghi ed amici. La sera quando rincasava, magari dopo una giornata pesante trascorsa tra Tribunale, carcere e studio, si dedicava a noi e ci aiutava con i nostri compiti. La domenica mi portava spesso in giro in bici per insegnarmi, o nella nostra casa in campagna dove si dilettava a coltivare la terra e a raccogliere i frutti dagli alberi. La mia era un’infanzia normale di una qualsiasi bimba di tredici anni, ingenua e convinta che la mafia fosse una cosa lontana, che stava a Palermo e che comunque non mi rigurdava, perché, come molti dicono, “si ammazzano tra di loro”.
Quel 9 novembre 1995 era stato un qualsiasi giovedì e al ritorno da scuola alla fermata dell’autobus avevo trovato mio padre ad aspettarmi per portarmi a casa. Poi il pomeriggio a casa a studiare e gli allenamenti di pallavolo, come ogni giovedì. Percorrendo in macchina con mio fratello viale Vittorio Veneto vedemmo la folla e la polizia nel parcheggio adiacente lo studio di nostro padre, tirammo dritto verso casa perché erano da poco passate le 21 e pensammo che i nostri genitori si sarebbero preoccupati non vedendoci arrivare. Fu un susseguirsi di telefonate di parenti ed amici che chiedevano notizie di Serafino ad insospettire mio fratello che uscì all’improvviso per recarsi lì dove avevamo visto la folla di gente. Tutte quelle persone le ritrovai dopo poco all’Ospedale Garibaldi, sapevano cosa era accaduto, i telegiornali regionali ed il programma “Samarcanda” avevano dato la notizia. Ad alcuni potrebbe sembrare strano che la mafia abbia colpito un avvocato, penalista per di più, che tra i suoi clienti aveva anche dei mafiosi di grosso calibro. E’ giunto il momento di capire che la figura dell’avvocato è essenziale per la Giustizia. Mio padre fu colpito perché si batteva con forza per la legalità e perché non volle cedere alle pressioni pervenutegli. Ci volle del tempo per scoprire i colpevoli di quell’omicidio e ce ne volle ancor di più per me per capire che mi sbagliavo: la mafia era anche a Catania ed è un problema che coinvolge tutti noi. Ma ci vollero 10 anni perché io riuscissi a parlarne e a provare a trasformare quella rabbia, quel senso di impotenza e di vuoto in impegno, per cercare di spiegare che mio padre era un uomo normale, che credeva nel suo lavoro, nei valori costituzionali, nella necessarietà del giusto processo come simbolo di civiltà e democrazia. Se adesso sono qui a scrivere è grazie a don Luigi Ciotti, a Libera, che mi ha preso per mano e mi ha fatto vedere che non sono sola; è grazie a dei ragazzi del Liceo Volterra ai quali per la prima volta ho raccontato di mio padre e con i quali ho iniziato il mio percorso di testimonianza.
A 15 anni dal suo assassino, mio padre è stato ricordato e per lui abbiamo pregato, durante tutta la giornata a Catania in tre momenti di raccoglimento. Il primo si è svolto alle 10 davanti alla lapide posta in memoria di mio padre nell’atrio principale del Tribunale di Catania, dove si sono riuniti in toga tanti tra vecchi colleghi, giovani avvocati, magistrati ed amici. Un’emozionante ed intensa Santa Messa di commemorazione è stata celebrata da don Luigi Ciotti nella Chiesa Cuore Immacolato di Maria, dove si svolsero i funerali e alla quale ha preso parte, tra gli altri, il vice Questore di Catania, la dottoressa Maria Lorena Paparo. Nel pomeriggio si è tenuto un incontro patrocinato dall’università, facoltà di Lettere e Filosofia, Lingue e Letterature Straniere, al qule hanno partecipato in tanti, colleghi avvocati, quattro Presidenti della Camera Penale “Serafino Famà”, Giuseppe Passarello, Carmelo Peluso, Carmelo Passanisi, Enzo Trantino, magistrati, tra cui il Presidente facente funzioni del tribunale di Catania, dott. Bruno Di Marco, professori e studenti. Significativa ed importante è stata anche la presenza del Questore, dott. Domenico Pinzello, accompagnato da un funzionario in divisa per dimostrare la vicinanza e l’impegno delle istituzioni.
All’incontro, moderato dal prof. Luciano Granozzi, docente di Storia Contemporanea, sono intervenuti Ignazio Fonzo procuratore della Repubblica aggiunto presso il Tribunale di Agrigento, Viviana Matrangola, responsabile del settore “Memoria internazionale” di Libera. e Rosanna Scopelliti, presidente della Fondazione “Antonino Scopelliti” , tutti con il desiderio di testimoniare che solo con una reciproca collaborazione tra la società civile e le istituzioni si può dare vita al cambiamento. A tutti va un sentito ringraziamento ed un abbraccio.
Articolo dell 11 Novembre 2010 da Step1.it
Famà, un delitto da non dimenticare
di Flavia Musumeci
«Quando non si parla di mafia è il momento in cui questa è più forte. Dicevo spesso che la mafia era solo a Palermo, che a Catania non esisteva e si viveva tranquilli. Mi sono dovuta ricredere sulla mia pelle. Parlare di mafia è la vera rivoluzione». Chi parla è Flavia, figlia di Serafino Famà, avvocato penalista assassinato nel 1995 a Catania per mano di quei mafiosi a cui aveva detto di no. Famà in tribunale mafiosi li difendeva, ma non si piegava al loro codice. Per questo fu freddato in una notte di quindici anni fa, appena uscito dal suo studio legale in viale Raffaele Sanzio.
È la prima volta che in un’aula universitaria entra il ricordo dell’avvocato Famà, perché la memoria delle vittime diventi memoria pubblica da consegnare alle nuove generazioni. È questo il senso dell’incontro tenutosi martedì al Monastero dei Benedettini: “Il singolo davanti alla violenza mafiosa. Ricordo dell’avvocato Serafino Famà a quindici anni dal suo assassinio”, patrocinato dalla Facoltà di Lettere e Filosofia e di Lingue e Letterature straniere dell’Università di Catania. A intervenire sono Ignazio Fonzo, procuratore della Repubblica aggiunto presso il Tribunale di Agrigento, Luciano Granozzi, docente di Storia contemporanea (Università di Catania), Viviana Matrangola, responsabile del settore “Memoria internazionale” di Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie, Rosanna Scopelliti, presidente della Fondazione “Antonino Scopelliti” e Flavia Famà.
La grande scritta “lex” in un’aula di tribunale siamo abituati a vederla alle spalle di un magistrato, di colui che rappresenta l’ago di quella bilancia. Il nostro Paese ne ha visti e ne vede tanti quotidianamente di magistrati coraggiosi, di quelli per cui non trovi più il confine tra l’uomo e la toga. Serafino Famà invece era un avvocato, un penalista, quella categoria che si sa, cura un interesse di parte. Ma Famà nelle aule di tribunale di Catania ci entrava ogni giorno, quella bilancia e quella scritta le aveva di fronte anche lui, e sapeva che “la difesa è un diritto inviolabile e che tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti”, come recita l’art. 24 della nostra Costituzione. Tutti, anche i mafiosi. L’importante è «fare il proprio mestiere con coraggio e onestà», ripeteva l’avvocato alla figlia Flavia. E lui lo faceva, da 30 anni.
«Perché commemorare Famà qui all’università? Per riparare alla smemoratezza della nostra città, e perché il bisogno di ricordare corrisponde a quello di ricostruire e capire». Sono le parole di Luciano Granozzi, docente di Storia contemporanea dell’Università di Catania, che ha introdotto il dibattito ricostruendo il rapporto tra l’opinione pubblica catanese e la mafia: all’ignoranza del fenomeno (perfino dopo l’assassinio di Calderone del 1978 e la guerra di mafia che ne seguì) è seguita una fase di incredulità e scetticismo, anche di fronte alla denuncia pubblica di Giuseppe Fava sul “Giornale del Sud”. «Dopo il delitto Fava – ha continuato Granozzi – l’esistenza della mafia a Catania non può essere più negata in buona fede. Ma si è ben lungi da un atteggiamento di vigilanza etico-politica. Prevarrà piuttosto la rassicurazione». Tra il delitto Fava e l’omicidio Famà passano dodici anni, in mezzo ai quali ci sono le stragi e gli arresti eccellenti, da Riina a Santapaola. E l’omicidio Famà è tra i segni di «una svolta di stampo terroristico che ebbe luogo anche a Catania». Una svolta che ha tra i suoi protagonisti i “mussi di ficurinia” (clan Laudani), dai cui appunto è venuto l’ordine di uccidere Famà. «Cos’è un avvocato? – ha concluso Granozzi, riferendosi al modo in cui Famà intendeva il proprio mestiere – soprattutto quando difende dei boss mafiosi? E’ l’avamposto della legalità in terra straniera».
A ricostruire il processo, carte alla mano, è stato il dott. Ignazio Fonzo, che fu pm nella fase delle indagini, in primo grado e nel processo d’Appello contro Giuseppe di Giacomo, mandante dell’omicidio e oggi collaboratore di giustizia. Ripercorre l’excursus giudiziario spiegando quanto siano tortuose e inconsistenti le logiche del sistema mafioso: Serafino Famà non aveva acconsentito alla deposizione di una sua assistita al processo che vedeva coinvolto Di Giacomo, e per questo fu condannato a morte.
Cambiano i toni quando si abbandona la sfera civile per affidare ai ricordi dei familiari delle vittime il ritratto della persona, non più del professionista, ma del padre. E di altri uomini e donne uccisi dalla mafia. A ricordare sono Rosanna Scopelliti, Viviana Matrangola e Flavia Famà.
«Non è possibile dopo vent’anni stare a pietire giustizia per un servitore dello Stato» dice Rosanna, figlia di Antonino Scopelliti. Il magistrato, ucciso in Calabria nel ’91, si preparava a rigettare i ricorsi per Cassazione presentati dalle difese dei più pericolosi esponenti mafiosi condannati nel primo Maxiprocesso a Cosa Nostra. «Non è ancora stato riconosciuto vittima di mafia, ricorda, e questo silenzio mi ha fatto scappare dalla Calabria perché ritenevo che quella terra non meritasse il sacrificio di mio padre». Solo quando Rosanna si rende conto che la Calabria è ancora diposta a lottare, decide di tornare. “Adesso ammazzateci tutti” scrivono su uno striscione i ragazzi presenti ai funerali di Francesco Fortugno, vicepresidente della Regione Calabria, ucciso dalla ‘Ndrangheta nel 2005. «Se non avessi lottato con quei ragazzi, mio padre sarebbe morto di nuovo» ricorda con lo sguardo opaco di chi trattiene le lacrime.
Viviana Matrangola è la responsabile del settore “Memoria internazionale” di Libera, associazioni, nomi e numeri contro le mafie. La madre Renata Fonte, assessore al Comune di Nardò (Lecce), si era opposta con forza alla speculazione edilizia che minacciava la terra che amava, la Puglia, e non fece ritorno a casa dopo un consiglio comunale dell’84, quando fu assassinata per mano mafiosa. «Mia madre non mi ha lasciato un’eredità di paura, ma la voglia di cambiare le cose, dobbiamo solo avere più coraggio».
A intrecciare i percorsi di queste ragazze è stato un esempio pagato con la vita, una testimonianza di coraggio e onestà che adesso i figli vogliono solo proteggere per impedire che il tempo possa sbiadirle, e che costituiscono un’eredità per la società intera. «Ci siamo trovate unite nella rabbia per l’indifferenza, per quel silenzio che dilaga quando tornati a casa si è lasciati soli», dice Rosanna Scopelliti.
“Libera” è l’associazione fondata nel ’95 da don Luigi Ciotti per promuovere legalità e giustizia e oggi riunisce oltre 500 famiglie: «Ogni anno, il 21 marzo, sfiliamo a Roma in silenzio, ascoltando i nomi delle vittime della mafia che sono più di 900», raccontano.
Non voleva avere nulla a che fare con la memoria neanche Flavia Famà: «Non ero ancora pronta dopo la morte di mio padre. Sono state le parole di Rita Borsellino che a Roma ricordava il fratello proprio per “Libera”, a farmi cambiare idea. Il nostro è un percorso doloroso, ma solo la cultura può salvarci. Quando i giovani le negheranno il consenso, la mafia cesserà di esistere» dice con forza. Ringrazia inoltre il questore di Catania, Domenico Pinzello, perché «la presenza delle istituzioni in momenti come questo e non solo quando l’emozione ci sovrasta, è fondamentale per una politica sana e trasparente» aggiunge Flavia.
Il dibattito ha visto poi diversi interventi: dagli avvocati Enzo Trantino e Carmelo Passanisi a Elena Fava, da Nadia Furnari dell’associazione Rita Atria a Aldo Pecora di “Ammazzateci tutti”.
INAUGURATO A BORGO SABOTINO IL VILLAGGIO DELLA LEGALITA’
di Alessandra Valentini – dirittidistorti.itL come legalità e libertà, A come àncora (e la nostra àncora è la Costituzione), T come testimonianza, I come informazione, N come i no che dobbiamo dire. Con queste significative e suggestive parole Don Ciotti ha ricostruito, come in un acronimo, il nome Latina, Comune dove, nella località di Borgo Sabotino, è stato inaugurato ieri il Villaggio della Legalità su un terreno ed una struttura confiscati alla criminalità.Il bene era stato confiscato per abusivismo edilizio e ad aprile 2011 il Commissario Prefettizio Guido Nardone lo ha affidato a Libera. Il Villaggio, coordinato da Libera e nato con il concorso di tutte le associazioni del territorio, è stato intitolato a Serafino Famà, avvocato siciliano, ucciso nel 1995 dalla mafia per il suo no ad un boss. Ieri era presente anche la figlia di Serafino, Flavia Famà, che ha portato la sua testimonianza, che non è solo ricordo ma testimonianza militante “nella speranza che quello che è successo a mio padre non succeda più”.Dalle parole di Don Ciotti è emersa la sintesi dell’impegno di Libera e di quanti in vari settori si dedicano al bene comune e alla legalità, portando avanti quel ruolo che la vita assegna a ciascuno di noi: “impegnare la nostra libertà per liberare chi libero non è. E la legalità non è l’obiettivo ma lo strumento per raggiungere la giustizia, ad iniziare da quella sociale”. Insieme a Don Ciotti tanti i contributi per inaugurare e far partire questa importante struttura di alto valore simbolico e materiale per un territorio, come quello pontino, “tra i più belli d’Italia – come ha ricordato Lello Turri, coordinatore provinciale di Libera – ma anche un territorio colpito dalla criminalità organizzata. Purtroppo, in questo contesto incantevole, le mafie hanno aggredito il territorio. A dieci chilometri dal bene si trova, infatti, Borgo Montello dove le ecomafie hanno fatto per anni affari con il ciclo dei rifiuti tossici”. Alberto Spampinato direttore di Ossigeno per l’informazione, ha sottolineato i problemi e le minacce, anche quelle apparentemente “legali”, come l’abuso della querela per diffamazione, che colpiscono i giornalisti che sui territori parlano di mafia e criminalità. A dare il suo contributo anche il musicista Antonio Sparagna, con la musica popolare che può gettare ponti tra le persone e creare un nuovo senso di comunità.Ora dopo la bella inaugurazione inizierà il vero lavoro sull’area, che da subito sarà attiva per organizzare campi di studio e di lavoro volontario che dureranno tutta l’estate, facendo partire da Borgo Sabotino una ventata di libertà e partecipazione.
La vita in diretta 21 marzo 2018
Parla Flavia Famà, figlia di Serafino, il magistrato vittima della mafia
Oggi è la XXIII Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie promossa da Libera. Per ricordare quanti hanno perso la vita per mano della mafia, oggi abbiamo qui con noi Flavia Famà, figlia dell’avvocato Serafino Famà, ucciso il 9 Novembre 1995 a Catania su ordine del boss Giuseppe Di Giacomo.
Fonte: retidigiustizia.it
Articolo del 10 novembre 2019
“Comportati con onestà e nulla temerai”. L’esempio dell’Avvocato Serafino Famà, lo uccisero il 9 novembre 1995
“Se ti comporti con onestà e coraggio, non devi aver paura di nulla”.
Parole di Serafino Famà, avvocato penalista, ucciso il 9 novembre 1995 all’età di 57 anni nella città di Catania.
Ripercorriamo quei tragici momenti.
La sera del 9 novembre 1995, alle 21 circa, Serafino Famà e il collega Michele Ragonese escono dallo studio e, all’angolo tra viale Raffaello Sanzio e via Oliveto Scammacca, vengono esplosi sei colpi di pistola calibro 7,65 che colpiscono l’avvocato Famà. La vittima dell’agguato si accascia al suolo e muore alle 21.20 circa, dopo una inutile corsa in ambulanza al Pronto Soccorso dell’ospedale Garibaldi.
È stato un suggerimento legale dato ad una cliente in una terra di mafia e di boss a costare la vita all’avvocato Serafino Famà. Nella sentenza che ha definito il giudizio contro mandanti ed esecutori si legge: «La mancata deposizione della Corrado, certamente conseguente all’intervento dell’avvocato Famà, era stata vista dal Di Giacomo come la causa diretta della irrealizzabilità del proprio scopo, ovvero la scarcerazione».
I giudici, nelle motivazioni della sentenza di colpevolezza a carico degli imputati, pronunciata il 4 novembre 1999, scrivono: «Le risultanze processuali pertanto, per come sopra evidenziato, hanno dimostrato che il movente dell’omicidio in esame va individuato esclusivamente nel corretto esercizio dell’attività professionale espletata dall’avvocato Famà».
Catti, Amante, Di Mauro, Di Giacomo, Fichera, Gangi e Torrisi gli esecutori e gli autisti sono stati condannati all’ergastolo. Al collaboratore di giustizia Alfio Giuffrida e a Giuffrida Alfio Lucio è stata comminata la pena di diciotto anni di reclusione.
Ed anche ieri Serafino Famà è stato ricordato dagli avvocati etnei con un convegno organizzato dalla camera penale di Catania che ha avuto una significativa appendice in un momento di raccoglimento al quale hanno partecipato gli avvocati, in toga, portandosi da luogo del convegno all’atrio del tribunale.
Una figura straordinaria, quella del penalista catanese, che ricordiamo con due testimonianze, quelle di un magistrato e di un avvocato che fu anche suo allievo. Di seguito gli interventi di Sebastiano Ardita e di Goffredo D’Antona.
Il mio ricordo dell’avvocato Serafino Fama’, un Uomo vero (di Sebastiano Ardita)
Ho in mente questa scena come se fosse accaduta ieri: davanti al bar del Tribunale, l’avvocato Serafino Famà che si allontanava tirando a sé sottobraccio un collega. Era sempre energico, imprevedibile e ironico. Accettava la battuta anche sul suo look un po’ eccentrico, con la barba e i ca-pelli folti e ricci che incorniciavano i lineamenti marcati e lo rendevano inconfondibile. Arrivava in Tribunale con la giacca di velluto sopra il maglione a collo alto. Abiti comodi che gli consentivano di muoversi con l’agilità di un felino. Nel suo ruolo di professionista era sagace e determinato. Non ti lasciava uno spazio libero, come nel calcio un mastino di difesa abituato a marcare a uomo e a renderti impossibile il controllo di palla. Non gli sfuggiva nulla. Se rilevava una minima contraddizione, te la sbatteva in faccia per farti crollare l’impianto accusatorio.Non faceva sconti sul campo, l’avvocato Famà. Era orgoglioso e fedele al suo mandato difensivo. La difesa come diritto inviolabile dell’imputato te la faceva sentire addosso tutta intera. Durante il controesame non gradiva essere interrotto. Se doveva mandare al diavolo un pubblico ministero lo faceva volentieri, e ogni tanto volavano in aula parole grosse. Una volta dovette abbandonare il campo, espulso dall’«arbitro». Cose che capitano a quegli allenatori sanguigni che seguono la partita in piedi e non si lasciano sfuggire un’azione. Era così, tutto d’un pezzo. Non conosceva le mezze misure, e dentro lo spazio che gli era assegnato voleva essere rispettato. Non era un avvocato di corridoio, era un legale da campo aperto di battaglia. E in questo suo atteggiamento non conosceva riverenze, né sottomissioni nei confronti di chicchessia.Un giorno, mentre sostenevo l’accusa in un processo alla mia solita udienza del martedì, dinanzi alla sezione che curava i reati tributari, un giovane avvocato del suo studio ebbe un battibecco con l’anziano presidente. Il legale chiedeva che il Tribunale ammettesse una prova e voleva versare alcuni atti che appartenevano a un altro procedimento. Ma il Tribunale rigettò la richiesta – che non era affatto pretestuosa – e quando il giovane insistette il presidente lo interruppe. Nacque una piccola discussione, finché l’anziano magistrato alzando la voce non gli tolse la parola in malo modo e rinviò il processo di una settimana esatta. La settimana dopo, quando fu riaperto il dibattimento, improvvisamente si materializzò una sagoma appoggiata alla balaustra dell’aula che segna il perimetro della zona riservata agli addetti ai lavori. Era l’avvocato Famà, che stava tre metri più indietro del suo giovane collega. La sua presenza era un messaggio piuttosto chiaro indirizzato a chi presiedeva quel collegio: se vuoi maltrattare un giovane avvocato che sta facendo il suo lavoro devi avere il coraggio di farlo davanti a me. Il presidente notò Famà e – quando il giovane ribadì la richiesta – fu molto più garbato nell’articolare il suo diniego. La decisione rimase uguale nel merito, ma questa volta venne esposta con molta calma e garbo. Talora alcuni magistrati, abituati a non essere mai contraddetti, rischiano di essere troppo sbrigativi anche nei modi. Ma per un avvocato con la schiena dritta conta anche questo: essere rispettato dai giudici. Del resto chi non ha nulla da temere e svolge il proprio ruolo con determinazione acquista credito nell’ambiente giudiziario. E ai miei occhi quella scena apparve come un gesto di coraggio e di solidarietà che incrementò la mia stima in lui. Con la sua tenacia e la sua combattività Famà si era ritagliato uno spazio importante. Difendeva una clientela composta di varia umanità, fatta anche di imputati che appartenevano a cosche mafiose. Ma lui metteva un’ampia scrivania tra sé e i clienti. Ascoltava quel che avevano da dire, raccoglieva gli elementi, ma poi la linea difensiva la elaborava lui. Non poteva tollerare che qualcuno suggerisse le sue mosse: le prove da fornire, gli argomenti da usare, le iniziative da prendere dovevano essere affar suo, e basta. Insomma, era sempre corretto e cortese, ma sapeva essere un duro se necessario. Ed è per questo che la notizia del suo omicidio, la sera del 9 novembre 1995, ci scosse davvero tutti. Mentre usciva dallo studio in compagnia di un collega, per recarsi a casa, come sempre, un commando lo assalì alle spalle. Uno dei sicari lo chiamò per nome e quando lui si girò gli esplose contro diversi colpi di pistola al petto e al volto. Quella morte fece piombare il mondo giudiziario in un’angoscia profonda e ci poneva innanzi a un indecifrabile rebus. Perché un avvocato e perché proprio Famà? Era difficile capire cosa potesse esserci dietro…
Questo il ricordo che ne ha tracciato l’avvocato Goffredo D’antona, del foro di Catania, suo amico ed allievo.
“È una sera come tante di un primo autunno. È arrivato il primo freddo. Sono a casa di un amico. Anzi a casa dei genitori di un amico (a quel tempo quasi nessuno era spostato e si viveva ancora a casa di mamma e papà). Guardiamo in tv la trasmissione di Santoro, non ricordo come si chiamasse all’ora. Si parla di mafia e di pentiti. È il 9 novembre del 1995. Santoro interrompe i dialoganduellanti. Per dare una notizia da Catania: lavvocato Serafino Famà difensore di Piddu Madonia, del Malpassotu…
A questo punto dilato il tempo. Mi immagino che l’Avvocato abbia chiamato in trasmissione per dire la sua. È sempre il solito. Ora mi immagino di sentire la sua voce litigare con tutti i presenti, Santoro, Claudio Fava, i cameramen. Ma il tempo si può dilatare quanto si quanto si vuole ma poi si arriva sempre a un punto. E il punto è che… è stato ucciso pochi minuti fa, in un agguato, a colpi di pistola. Guardo l’orologio l’ho lasciato in studio con un altro avvocato 15 minuti prima. Non è possibile. E invece. No.
Quando è stato ucciso era nella piena maturità professionale. Eravamo dieci in studio. E non avevamo tempo per annoiarci. Provo tristezza a cercar di parlar dell’Avvocato con chi non l’ha mai conosciuto. A volte mi sembra impossibile che il Palazzo non abbia memoria di una persona così. Gli è stata dedicata un’aula di corte di assise. Ma oggi tutti la chiamano aula Famà. Senza premettere quelle tre lettere di avv. Molti oggi parlano di quell’aula senza neanche sapere chi fosse l’avvocato Famà. Come quell’aula (Condorelli) di Villa Cerami. Un conto è dire piazza Falcone e Borsellino altro e parlare di un’aula Famà. C’è pure una lapide ricordo in Tribunale. E la memoria si perde.
In questo sfogo è impossibile descrivere l’Avvocato. Alcuni tratti però possono essere detti. Ogni sei mesi comprava un codice nuovo. Sulla sua scrivania, c’era sempre un libro che tutti gli avvocati dovrebbero leggere, Elogio dei Giudici. Il processo lo studiava dalla relata di notifica al timbro del cancelliere. Quando aveva finito le sue udienza camminava nel corridoio del Tribunale si sceglieva un aula e si metteva seduto ad ascoltare gli altri, perché c’è sempre da imparare nell’ascolto.
A volte si incazzava. Quando vedeva avvocati maleducati ed impreparati. Quando vedeva un ragazzino seduto in prima fila ed un avvocato anziano in piedi. Sto parlando di una persona normale. Ma oggi forse la normalità è merce rara.
P.S. Era juventino. Nessuno è perfetto”.
Leggere anche: vivi.libera.it
Articolo del 9 novembre 2020
Serafino Famà, 25 anni dopo la figlia lo ricorda
di Flavia Famà