Qualcuno ha ucciso il generale di Matteo Collura
Al centro della vicenda c’è un personaggio controverso e affascinante: Giovanni Corrao, sbarcato a Messina per organizzare la rivolta dei Siciliani e ottenere il sostegno dei potentati locali alla spedizione dei Mille. Sullo sfondo di uno scenario ricco di feste popolari, congiure, sospetti e trame segrete, l’ardimentoso siciliano, passato alla Storia come il “Generale dei picciotti”, si muove veloce tra personaggi storici come Crispi, Bixio, Garibaldi e Rosolino Pilo, morto in oscure circostanze. Istigato da due luoghi emblematici (le catacombe dei Cappuccini e il monumento di Villa Garibaldi a Palermo), l’autore si chiede dunque da chi e perché fu ucciso a soli 41 anni Giovanni Corrao, capo-popolo capace di mobilitare migliaia di uomini.
Longanesi Editore, 2006
Recensione da graziagiordani.it
Qualcuno ha ucciso il generale di Matteo Collura, Longanesi
di Grazia Giordani
L’antiGattopardo – Giovanni Corrao nella Sicilia garibaldina
Certi scrittori sembrano essere rincorsi dalle trame da narrare, in un inevitabile inseguimento che non offre loro scampo. Questa è l’immediata sensazione che proviamo leggendo il nuovo romanzo di Matteo Collura Qualcuno ha ucciso il generale, in libreria dal prossimo 3 marzo. Ci sembra che l’autore – giornalista culturale del Corriere della Sera – di cui abbiamo da tempo apprezzato la folta produzione di romanzi e saggi, tra i quali: Associazione indigenti, Il Maestro di Regalpetra, Eventi, In Sicilia e Alfabeto eretico, non abbia potuto sottrarsi all’invito di quanti lo sollecitavano a mettere nero su bianco l’insabbiata vicenda dell’affascinante e controversa figura di Giovanni Corrao, il generale, caro al cuore di Garibaldi, “precursore dei Mille”, un eroe avvolto in vita e in morte, dentro aloni di irrisolto mistero. L’ispiratrice più forte di questa sua biografia romanzata – che finisce piuttosto con l’essere un affresco di Sicilia garibaldina come in nessun testo accreditato avremmo mai potuto leggere – è stata certamente un’agghiacciante fotografia.
Per cui leggiamo: “Una fotografia lo ritrae, cadavere mummificato, novantasette anni dopo la morte. Il generale è tra due uomini, impettiti e seri, consapevoli, nell’espressione grave, di essere immortalati in compagnia di un eroe cui la Storia finalmente si è degnata di riconoscere la legittima gloria. Ho sotto gli occhi la foto e continuo a ripetermi che non ho mai visto nulla di più assurdo, di più macabro; nulla di più grottesco e nello stesso tempo di più ingenua e caricaturale messa in scena”. Va da sé che la mummia del generale, ritratta tra due parenti, dopo il ritrovamento nelle catacombe dei Cappuccini di Palermo, abbia tanto impressionato lo scrittore da indurlo a minuziose ricerche e ricostruzioni di misconosciuti avvenimenti, contagiando anche noi lettori di una curiosità sempre più viva, man mano che si procede nella lettura di pagine abitate da sospetti, congiure, folklore popolare; l’udito scosso dal fragore di cruente battaglie, l’olfatto carezzato dal profumo dei giardini d’arance, lo sguardo ammaliato dal fascino voluttuoso di un Meridione di allora e di adesso, espresso dall’autore con grazia musicale.
Il profilo di questo “Generale dei picciotti”, in gioventù saldatore di scafi, abile calafatato che “aveva buttato via quel mestiere d’oro per correre dietro all’ingannevole sirena della rivoluzione”, sbarcando a Messina per organizzare la rivolta dei Siciliani, ottenendo il sostegno dei potentati locali alla spedizione dei Mille, esce a tutto tondo, possente nella figura fisica di tenebroso gigante innamorato del rischio e dell’avventura, calunniato ingiustamente dell’assassinio – per invidia – dell’amico Rosolino Pilo, “cagliostresco” in alcune sue consuetudini di vita esoteriche, sprezzante del pericolo, assai stimato e amato dall’eroe dei due mondi. Per alcuni versi anche contraddittorio questo garibaldino sui generis che – quando l’esercito governativo gli propose di arruolarsi col grado di colonnello, accettò la nomina diminuita, rispetto a quella rimasta integra di Bixio ed altri che entrarono nell’Arma col titolo di generale – dimostrando una certa confusione d’idee, poca coerenza con la sua statura naturale di spirito libero, non irreggimentato. Ma la divisa regolare andava stretta al nostro indisciplinato condottiero che non tardò a spogliarsene con rinuncia dei vantaggi annessi.
Fin dalle prime righe della narrazione colluriana, dentro cui trovano posto suggestivi cammei di Crispi, Bixio, Garibaldi, Mazzini e Rosolino Pilo, rivisitati in chiave umana, lontana dalla visione dei testi scolastici, sentiamo vibrare l’interrogativo rimasto irrisolto sulla morte dell’ “antiGattopardo siciliano”.
Chi era veramente quel Giovanni Corrao? Si era proprio rassegnato alla vita di placido agricoltore, succeduta a quella di condottiero o covava ancora propositi di rivolta contro l’ingratitudine istituzionale di promesse non mantenute nei confronti della Sicilia? Sarebbe stato un riconosciuto eroe risorgimentale questo “indomabile garibaldino cui le sconfitte non avevano scalfito i battaglieri propositi” se un pretestuoso silenzio non l’avesse cancellato dai libri della Storia? Chi gli ha tolto la vita con due colpi di lupara, proprio in prossimità dell’anniversario della battaglia abortita in Aspromonte?
Collura ci induce ad uniformarci alla sua persuasione di un delitto di mafia, su commissione dello Stato. Perché Corrao era diventato scomodo. Perché Corrao era un capopopolo pericoloso a cui furono tributati funerali esageratamente solenni e poi l’imbalsamazione nel convento dei Cappuccini, murato in una nicchia, “affinché riposasse al riparo da possibili profanazioni”.
A ricordarlo ai posteri ora c’è il monumento di Villa Garibaldi a Palermo, ma soprattutto c’è la riabilitazione nelle appassionate pagine dello scrittore suo conterraneo che qui ha saputo rinverdire la curiosità, restituendogli l’usurpata fama.