“Casamonica, il clan scardinato grazie al coraggio delle donne” di Floriana Bulfon
Casamonica. Sono state due mogli e madri a minare il gruppo mafioso. Dicendo di no a un codice a cui erano state asservite
Fonte: espresso.repubblica.it
Articolo del 5 dicembre 2018
I sogni son desideri e Simona voleva diventare una principessa. Quell’uomo, apparso all’improvviso a Žilina in Slovacchia, con in tasca rotoli di banconote, la copriva di rose e regali. A lei, che aveva solo 17 anni e andava ancora a scuola, diceva d’essere un commerciante e per risaltare la sua romanità si faceva chiamare Massimo Decimo Meridio, come il protagonista del film “Il gladiatore”. In realtà era Raffaele Casamonica, principe solo negli archivi criminali: era arrivato laggiù per sfuggire a un ordine d’arresto.
Un giorno decide di portarsela a Roma. Le trova una casa in una borgata vicino alla sua roccaforte: il clan non vuole che sposi una donna “gagé”, estranea al mondo sinti. Solo dopo la nascita della prima figlia viene permesso il matrimonio, che sancisce l’ingresso della straniera nella famiglia. Ma le nozze non bastano, per diventare una Casamonica bisogna fare di più. La obbligano a vestire solo con gonne lunghe e a non tagliarsi mai i capelli. Guai a non saper cucinare ed è obbligatorio tenere in ordine la “grascina” (la villa), altrimenti sono botte e pugni. L’obbedienza deve essere assoluta: lei e le sue figlie ormai appartengono al clan. «Siamo così e ti devi comportare in questa maniera», le ripetevano. La tradizione sinti è legge, l’identità della famiglia. Che viene imposta proprio dalle donne.
Matrone che urlano in ciabatte contro i vigili, pronte a difendere i loro castelli abusivi dagli sgomberi e dalle demolizioni. Sono le regine di dimore che hanno ingoiato marciapiedi e monumenti millenari, arredate da cavalli rampanti d’argento con occhi di cristallo Swarovski, tigri e pantere ruggenti ad altezza reale, dispense di Veuve Clicquot ricavate negli archi dell’acquedotto antico insieme a botole segrete per sfuggire alle perquisizioni. Acquistano wc e culle d’oro per i futuri re; in cucina sfornano pasta e polpette tra archi e capitelli di marmo.
In queste regge la favola di Simona si trasforma in incubo. Una clausura segnata dalla violenza, per lei e per le sue figlie: «Volevano impedirmi di mandarle a scuola perché le bambine devono stare a casa». Troppo. Così «per non accettare che le mie figlie potessero subire una vita decisa da altri» Simona denuncia Raffaele Casamonica e rompe le regole del clan. La stessa motivazione che ha spinto un’altra moglie, Debora Cerreoni a collaborare con la procura di Roma e scoperchiare l’ultimo sistema mafioso della capitale.
Quelle di Debora sono state le prime accuse dall’interno della famiglia, dove l’omertà non era mai stata intaccata: l’inizio della fine del loro potere. «Ho perso la dignità di essere mamma, di essere una persona onesta», racconta ai pm. Lei, come Simona è una “gagé”. Romana, rimasta orfana della madre da piccola, ha convissuto per dodici anni con Massimiliano Casamonica, fratello del grande capo Giuseppe. Ma è stata sempre considerata “una straniera”, da punire e tenere segregata: «Non potevo fiatare, le poche volte che ho fatto di testa mia, sono stata minacciata e picchiata». Descrive un’esistenza di miseria e nobiltà. Con gli uomini che tutto possono, soprattutto nei confronti delle donne: «Giuseppe Casamonica è il più ricco tra i fratelli. Dicono avesse 10 milioni murati in casa, ma si è fatto pagare 10 mila euro di avvocato dalla sua amante Pina. Se non sbaglio si trattava di un avvocato importante».
Dieci milioni nelle pareti, quella che sembra la cassa in contanti dell’usura e dello spaccio. Incredibile, forse. Anche se in altre indagini sono stati scoperti soldi dietro i mattoni. Debora dettaglia le sue deposizioni: racconta che una volta Liliana, sorella e plenipotenziario del padrino, aveva notato una macchia di umidità nell’intonaco, obbligandola a togliere le banconote dal nascondiglio e pulirle una a una.
Dall’interno illumina la mentalità dei Casamonica «malati di potere»: che il funerale di zio Vittorio, con i petali, la carrozza, l’elicottero spargi-petali e la banda costretta a suonare le note de “Il Padrino” «è stato un motivo di vanto». La parrocchia di Don Bosco dista solo qualche chilometro dalla roccaforte ed «è un punto di riferimento. Sono stati battezzati i figli di Giuseppe lì. Avevano rapporti stretti con alcuni preti. Uno parlava in rom-gitano», chiarisce. Ma il parroco don Giancarlo ridimensiona: «È stato un caso… sono venuti solo perché la chiesa era grande. Io da quel giorno non li ho visti più».
Non hanno limiti neanche in carcere: «Hanno un rapporto confidenziale con alcuni agenti della Penitenziaria e riescono ad allungare i tempi dei colloqui». Racconta di quando, durante un colloquio con Massimiliano, conosce il boss della camorra e re della droga Michele Senese. Rivela le modalità per portare la droga dietro alle sbarre. A farlo sono le donne: cocaina e hashish da consumare e vendere in prigione «nascosta nelle feritoie di un accappatoio, poi cucite». Anche quello segno del potere: «A Roma semo i più forti», amavano ricordare.
Le parole di Simona e Debora sono devastanti sul piano processuale. Nessuno aveva mai rotto il castello di omertà. Persino le vittime dell’usura e dei pestaggi, figure note o piccoli commercianti, vessate o solo tartassate, davanti agli investigatori avevano sempre taciuto o divagato. C’è stato addirittura chi dopo l’interrogatorio è corso ad informare il clan delle indagini in corso.
Invece Simona e Debora, due straniere entrate nella vita della famiglia, hanno detto tutto. Per ironia della sorte, i Casamonica non hanno prestato attenzione alla più antica leggenda sinti, quella che narra l’origine del popolo. Racconta che il re Sin prese in moglie una fanciulla straniera e la condusse nel suo regno, ma prima di partire il re del fuoco lo mise in guardia e gli disse: “questa donna sarà causa di sventura per te e per la tua gente!”.
Per i traffici del clan è accaduto lo stesso. Le due testimoni hanno completato il mosaico degli inquirenti fornendo tessere chiave. Hanno accusato gli uomini. E svelato il peso delle donne, custodi della casa e degli affari. Sono abituate a muoversi nei negozi come in un self service, senza passare dalla cassa: in un mobilificio di tre piani vista Grande Raccordo Anulare pretendono la consegna di intere camere da letto, senza pagare. Il proprietario del resto è indebitato con loro e non può opporsi. Come molti ristoratori, obbligati a organizzare feste gratuite per consacrare quei battesimi e quelle nozze che scandiscono le dinamiche del clan. Perché sono le donne a mantenere compatta la famiglia, a gestire i conti e le manovre criminali.
Custodiscono la droga, ficcata dentro al comò, ma solo di giorno, quando le vedette avvisano dell’arrivo di qualche faccia sconosciuta e non autorizzata ad entrare nei loro fortini. Alla sera hanno il compito di sotterrarla nel terreno dietro a casa per timore delle perquisizioni. Confezionano anche le dosi, da nascondere nei fazzoletti, ma a farlo sono solo quelle più intelligenti. Un compito delicato su cui non è concesso sbagliare. E si fanno boss. Come Liliana, la sorella maggiore di Giuseppe, il padrino di Porta Furba. Quando lui è in carcere è lei a sostituirlo e a diventare capo “famiglia”. O come la suocera di Simona che si è separata dal marito e comanda le estorsioni nella periferia estrema, accanto alle catacombe di San Zotico.
Donne baluardo di un clan di mille affiliati imparentati tra loro con un impero da quasi 100 milioni di euro. Una mafia in grado di trattare con le altre organizzazioni criminali che le riconoscono prestigio perché è capace di dominare. E anche dopo gli arresti, sono sempre loro a prodigarsi nel cercare “pezze giustificative” per le migliaia di euro trovate in casa e a contattare i debitori perché gli avvocati hanno bisogno di essere pagati. Il loro è un cappio che zittisce, tanto che un usurato confida alla compagna di non avere scampo: «Li hanno carcerati, ma ci sono ancora le mogli». Lo fanno anche con gli amici, come il pasticcere di fronte al fortino, a cui hanno tolto anche la casa. Difendono il territorio e mostrano di avere i muscoli, pronte ad aggredire con i bastoni e le scope anche i cronisti in una via pubblica della Capitale, protette dai loro figli a cui hanno insegnato a urlare contro “gli infami” che «noi siamo tutti innocenti». Unite in manipolo, ognuno con i suoi compiti, perché «anche noi zingari c’abbiamo delle regole. Funziona come in Calabria, abbiamo una gerarchia» spiega Liliana pronta a sfregiare la nipote che ha sposato un morto di fame. Non ci si può opporre ai riti di una famiglia unita.
Soltanto il coraggio delle donne, come è accaduto in alcune cosche della ’ndrangheta, fa crollare un sistema criminale che pareva intoccabile. I muri, non solo fisici, costruiti attorno al perimetro di pretesa intoccabilità iniziano a cadere. Finisce la favola dei Casamonica, perché come narra la leggenda sinti: «Le fate del destino vengono accolte con tutti gli onori e con una tavola imbandita con tre bicchieri, dolci e vino, quest’ultimo sostituito all’occorrenza dall’acqua. Molto spesso la loro natura non viene specificata e vengono definite “donne del destino”, alle quali lo stesso Dio ha affidato il compito di fissare, immutabilmente, il destino degli uomini».