6 Agosto 1980 Palermo. Assassinato Gaetano Costa, magistrato Procuratore capo di Palermo

 

Foto da Wikipedia

Gaetano Costa (Caltanissetta, 1916 – Palermo, 6 agosto 1980) è stato un magistrato italiano ucciso dalla mafia.
Procuratore Capo di Palermo all’inizio degli anni ottanta. Fu assassinato dalla mafia il 6 agosto 1980, mentre sfogliava dei libri su una bancarella, sita in un marciapiede di via Cavour a Palermo, a due passi da casa sua, freddato da tre colpi di pistola sparatigli alle spalle da due killer in moto. Causa di quella spietata esecuzione, il fatto che egli avesse firmato personalmente dei mandati di cattura nei confronti del boss Rosario Spatola ed alcuni dei suoi uomini che altri suoi colleghi si erano rifiutato di firmare.
Di lui scrisse un suo sostituto che era un uomo “di cui si poteva comperare solo la morte”. Al funerale parteciparono poche persone soprattutto pochi magistrati.
Non va dimenticato che, pur essendo l’unico magistrato a Palermo al quale, in quel momento, erano state assegnate un’auto blindata ed una scorta, non ne usufruiva ritenendo che la sua protezione avrebbe messo in pericolo altri e che lui era uno di quelli che “aveva il dovere di avere coraggio”.
Nessuno è stato condannato per la sua morte ancorché la Corte di assise di Catania ne abbia accertato il contesto individuandolo nella zona grigia tra affari, politica e crimine organizzato.
Da molti settori, compresa la Magistratura, si è cercato di farlo dimenticare anche, forse, per nascondere le colpe di coloro che lo lasciarono solo e, come disse Sciascia, lo additarono alla vendetta mafiosa.
Il suo impegno fu continuato da Rocco Chinnici, allora tra i pochi che lo capirono e ne condivisero gli intenti e l’azione. E a cui, per questo, toccò la stessa la sorte.

Nota tratta da Wikipedia

 

 

 

 

Articolo di La Stampa del 7 Agosto 1980   
Il procuratore ucciso a Palermo era un «ostacolo» per la mafia
di Antonio Ravidà
Aveva appena fatto arrestare 56 trafficanti di droga Il procuratore ucciso a Palermo era un «ostacolo» per la mafia

PALERMO — Mafia e droga. In questa direzione puntano le indagini sull’assassinio di Gaetano Costa, il procuratore capo della Repubblica di Palermo ucciso ieri sera poco dopo le 19.30. Al traffico internazionale degli stupefacenti, alimentato dalla mafia siciliana e dalle «famiglie» americane di Cosa Nostra, la Procura di Palermo negli ultimi mesi aveva dato un giro di vite:, ben 56 persone sono finite in prigione. Il dottor Costa, che aveva 64 anni e lascia la moglie e due figli, era stato fautore della «linea dura» e si era opposto alla libertà provvisoria per numerosi indiziati, che pure era stata sollecitata da alcuni suoi sostituti. Sul delitto nella centrale via Cavour, mentre il procuratore era senza scorta (non credeva nell’efficacia della protezione anche se gli avevano dato una «Alfetta» blindata) e stava guardando i titoli di alcuni libri in un’edicola, vi sono ancora versioni in parte contrastanti. E’ confermato che i killer sono due, ma che uno solo — sui trenta anni, con un copricapo di tela — ha sparato cinque colpi di pistola calibro 38 quasi a bruciapelo, lasciando quindi in una pozza di sangue l’alto magistrato e prendendo posto, cinque o sei passi più in là. su una «A-112» guidata da un complice che si è quindi allontanato a forte velocità. La vettura era stata rubata in città lunedì scorso ed è stata abbandonata a un chilometro dal luogo dell’agguato, in via Materassai, stradina del popolare rione San Pietro a poca distanza dal porticciolo Cala. E’ stata incendiata. Ma sul posto, quando sono giunti i carabinieri, è stato trovato soltanto un bambino di otto anni. Degli adulti, come al solito, secondo la ferrea legge dell’omertà, nessuno «ha visto niente», nessuno «ha sentito niente». Poco prima di entrare giovanissimo in magistratura, il procuratore Costa era stato tra i più impegnati intellettuali dell’antifascismo. La sua matrice antifascista, nel tempo era valsa al dottor Costa l’etichetta di magistrato di «sinistra». Ma chi lo conosceva bene e quanti ne seguivano l’attività sempre coerente e rigorosa, oggi sono in grado di testimoniare che Gaetano Costa era al di sopra delle parti e non era certo impegnato in prima persona in politica. Dopo l’arrivo di Costa a Palermo la scia di sangue e violenza in coincidenza con le inchieste su mafia e droga si allungò di colpo con i delitti del vicequestore Boris Giuliano, dell’on. Cesare Terranova che non più deputato della sinistra indipendente eletto nel pci, da pochi giorni era tornato a fare il magistrato, del presidente della Regione on. Piersanti Mattarella. Più di recente, appena la notte del 5 maggio, la soppressione del capitano dei carabinieri Emanuele Basile aveva impegnato severamente la Procura di Palermo dove, d’altronde, Gaetano Costa aveva raccolto la pesante eredità di Pietro Scaglione, il primo giudice italiano ad essere assassinato in un agguato, la mattina del 5 maggio del 1971. Sconsolate sono le dichiarazioni degli investigatori che nelle mani si son trovati ben poco. Soltanto un meccanico ventenne su di una Honda 750, che è stato inseguito e quindi bloccato da un’autopattuglia e che è caduto dalle nuvole. Può essere uno dei due killers? Gli stessi inquirenti sono perplessi. Oggi intanto, mentre la città è piena di manifesti listati a lutto, nell’istituto di medicina legale verrà esegita l’autopsia.

 

 

 

Articolo di  La Stampa dell’8 Agosto 1980
Il procuratore ucciso denunciò: «La mafia è nella cosa pubblica»
di Antonio Ravidà
La polizia sta interrogando nove fermati «per accertamenti» Il procuratore ucciso denunciò: «La mafia è nella cosa pubblica»

PALERMO—Un altro funerale nella cattedrale di Palermo, questa volta per l’estremo saluto al procuratore capo della Repubblica Gaetano Costa, ucciso da due killers alle 19,30 di mercoledì in via Cavour, nel centro di Palermo. Tanta folla. Le autorità, «come al solito», accanto ai semplici cittadini, i parenti straziati dal dolore, lo stesso rituale che si ripete già da troppe volte. Le indagini non segnano punti all’attivo. Si vaga incerti e nel buio più fitto, ma pur sempre in direzione della pista che porta direttamente alle più clamorose tra le recenti inchieste coordinate dal magistrato assassinato. L’ipotesi preminente sulle altre è quella di una vendetta mafiosa, di una criminale volontà di intimorire gli alti magistrati, i carabinieri, i poliziotti, le guardie di finanza che negli ultimi due anni hanno cercato di aprire il velo di omertà che protegge il traffico internazionale di stupefacenti. Nove persone sono intanto trattenute dagli investigatori per accertamenti. Ieri ne erano state fermate una trentina, sei delle quali ancora in mattinata non erano state rilasciate, dopo lunghi interrogatori e dopo una elaborata serie di riscontri circa loro eventuali alibi per l’ora del delitto. Quindi, nella notte, gli investigatori hanno fermato altre tre persone. «Afio marito era un uomo buono e giusto, la sua uccisione è un’ultima vergogna per questa città», ha ripetuto sconsolata la vedova di Gaetano Costa. Dopo i numerosi delitti che hanno striato di sangue le vie di Palermo, seminando terrore per l’efferatezza e per l’importanza delle vittime (persino, il giorno dell’Epifania il presidente della Regione Santi Mattarella, membro della direzione dc), adesso Palermo vive giorni d’angoscia per l’assassinio del procuratore capo della Repubblica. Coraggiosamente, il 28 marzo 1969 interrogato dalla commissione parlamentare antimafia Gaetano Costa denunciò: «la mafia sta entrando nella pubblica amministrazione». Ed aggiunse con lucida analisi: «c’è chi nella gestione della cosa pubblica non agisce nell’interesse della collettività’ c’è chi si serve del potere per favorire o per danneggiare ».

 

 

 

 

Articolo di La Stampa dell’8 Agosto 1980
Ucciso perché era giunto vicino al cuore della mafia
di Remo Lugli
Il magistrato siciliano fulminato dai killer Ucciso perché era giunto vicino al cuore della mafia Aveva negato la libertà a 33 boss arrestati e adesso li avrebbe trascinati in giudizio – La sua inchiesta, partita dal sequestro di 41 chili di eroina a Milano, era giunta ai legami internazionali e alle altre illecite attività, dal riciclaggio del denaro sporco all’impiego in gigantesche attività edilizie – Oggi solenni funerali al Procuratore della Repubblica

PALERMO — La sentenza della sua morte, il procuratore capo della Repubblica di Palermo Gaetano Costa l’aveva firmata lui stesso, inconsapevolmente, la mattina dell’8 maggio scorso, a conclusione di una riunione di «vertice» di magistrati in procura. Erano ore calde, scadevano i termini del fermo di polizia per i 33 che erano finiti nelle celle dell’Ucciardone sotto l’accusa di avere promosso un’associazione a delinquere che. in collegamento con le «famiglie» di «Cosa Nostra», gestiva il traffico della droga ed il riciclaggio – di denaro sporco. L’operazione era scattata il giorno dopo l’uccisione del capitano dei carabinieri Emanuele Basile avvenuta nella notte del 3 maggio. Polizia e carabinieri avevano tirato nella rete 55 persone e, appunto, 33 erano state arrestate, mentre 22 erano sfuggite. Nei corridoi della procura c’era una folla di avvocati e cronisti. Intensa l’aspettativa. I legali erano fiduciosi, molti di loro giudicavano fragile il rapporto presentato dagli inquirenti, accuse vaghe, giudizi inconsistenti. La riunione si protraeva e dal chiuso della stanza via via arrivavano voci di discussione animata, di magistrati divisi. „ E poi la notizia che aveva suscitato sorpresa e stupore: Gaetano.Costa aveva deciso di convalidare tutti gli arresti assumendosene ogni responsabilità perché ogni posizione doveva essere approfondita e chiarita nel proseguimento dell’inchiesta. Una’decisione tragica per lui ma, ora è più che mai chiaro, anche esatta. Le indagini, passate poi all’ufficio istruzione e condotte dal giudice dott. Giovanni Falcone, hanno finito col coinvolgere 77 persone con mandati di cattura, cui vanno aggiunti altri 13 indiziati, questi ultimi tutti imprenditóri edili. Ormai è evidente che tutti gli omicidi di questi ultimi tempi, da quello del capo della squdra mobile Boris Giuliano, 21 luglio ’79, a quello del magistrato Cesare Terranova, 25 settembre ’79, che stava per occupare il posto di capo dell’ufficio istruzione dopo una parentesi politica, a quello di Pier Santi Mattarella (6 gennaio ’80), presidente della Regione Sicilia che. stava cercando di approfondire il controllo sulle banche relativamente agli investimenti di certe imprese, sono tutti legati ad un unico filo. Una trama che unisce il traffico della droga e il giro finanziarlo edilizio. Che la Sicilia sia un passaggio obbligato della droga dal Medio Oriente agli Stati Uniti non vi sono dubbi, esistono prove ripetute, dalle arance che venivano spedite in America piene dì stupefacente ai contenitori attaccati dai sommozzatori sotto le chiglie delle navi. I dollari del pagamento di quella droga arrivavano in Sicilia, finivano in certe banche come rimesse degli emigranti o sotto altra veste e venivano «ripuliti». Boris Giuliano aveva scoperto nel covo di Leoluca Bagarella, ex braccio destro di Liggio, quattro chili di eroina e successivamente aveva sequestrato, all’aeroporto di Punta Raisi, due «24 ore» contenenti 600 mila dollari in contanti, spediti appunto dagli Stati Uniti e destinati alla cosca di Cinisi, capeggiata da Gaetano Badalamenti, oggi latitante. Di li le indagini s’erano addentrate nelle banche per cercarvi il giro proveniente dalla droga e il capitano dei carabinieri Basile, comandante della compagnia di Monreale che stava facendo preziose scoperte, aveva fatto la fine del dott. Giuliano. Tra gli incriminati della prima ondata, per i quali il dott. Costa aveva firmato il mandato di cattura, c’erano i costrutyn edili Spatola, uno dei quau «postino» di Michele Sindona, i loro parenti e soci in affari Inzerillo, Gambino, Di Maggio, tutte famiglie che nell’area di New York hanno parentele con personaggi indicati in rapporti federali come esponenti di primo piano di «CosaNostra». Al primo posto in questo elenco c’è John Gambino, che era venuto a Palermo alla fine del *I9 e si era incontrato con i principali esponenti mafiósi della Sicilia occidentale per appianare certe divergene incrementare con nuovi accordi il traffico della droga. Nell’elenco di coloro che avevano ricevuto il mandato di cattura del procuratore Costa erano anche Pier Sandro Maglioni e Giuseppe Miceli Orimi, rispettivamente genero e medico di Sindona. Il giudice Giovanni Falcone, ricevuti gli atti dell’inchiesta dopo la formalizzazione delle indagini da parte del dott. Costa, aveva approfon’dito le ricerche basando il proprio lavoro anche su documenti di una commissione d’inchiesta governativa degli Stati Uniti e ha ricostruito il traffico di droga delle varie «famiglie». Questo magistrato ha ipotizzato vari livelli di attività. Quello strettamente illegale consistente nel trasferimento dell’eroina, quello semi-illegale del riciclaggio del denaro in banca, infine.il reinvestimento degli utili in attività lecite. Ipotesi che stanno ottenendo delle conferme: All’agenzia numero 14 della Cassa di Risparmio di Palermo, ad esèmpio, è stato trovato un conto di 200 milioni intestato ad un fantomatico cliente – italo-americano che, secondo il vicedirettore di quella sede, si sarebbe volatilizzato. Il funzionario, Francesco Lo Co co, è stato arrestato. E’ risultato essere padrino di un figlio del boss Bagarella ed aveva aperto il conto riciclando.dollari. Il dottor Falcone, sulla base delle informazioni trasmesse gli da oltre oceano, ha potuto sequestrare più di un chilogrammo di assegni e distinte bancarie. In questo modo la Guardia di Finanza, è ih grado, .per la prima volta nella storia delle indagini su mafia droga, di indagare su una singola operazione compiuta in un determinato giorno e non genericamente ispezionare su un certo lasso di tempo. Continuando nella sua inchiesta il giudice Falcone ha collegato i fatti avvenuti in Sicilia con altri scoperti ad esempio a Milano dovè, sei mesi fa, ai fratelli siciliani Adamita vennero sequestrati quarantun chili di eroina che erano in partenza per gli Usa in contenitori di piombo. Assieme al mosaico del movimento della droga si sta componendo anche quello del riciclaggio degli utili. I costruttori Spatola, ad esempio, avevano potuto far fronte a grossi appalti di case popolari r a Palermo senza ricorrere al credito bancario e stavano liei* dare la scalata alla quota azionaria di controllo di una grande impresa di costruzioni, la Vianini. Tutti questi successi e questo ampio squarcio che si apre sulle attività criminose del mondo mafioso sono la conseguenza diretta del fiuto che aveva avuto a suo tempro Gaetano Costa e della decisione che aveva saputo prendere firmando quegli ordini di cattura. I killers lo hanno ucciso certamente non solo per vendetta, ma anche perché gli atti, al momento del rinvio a giudizio, sarebbero dovuti, tornare a lui perché sostenesse l’accusa al processo. E non v’è dubbio che il nuovo assassinio vuole anche essere una incalzante intimidazione per chi ancora sta scavando su questo tema.’ Polizia e carabinieri nelle prime ventiquattr’ore di indagini hanno proceduto a una quarantina di fermi e ad altrettante perquisizioni, ma sembra per ora senza esito. Sulla salma del procuratore è stata eseguita l’autopsia: il dottor Costa è stato colpito da tre proiettili calibro 38, due alla schiena, uno alla testa. Il gruppo dei killer era composto da cinque uomini, due era no su una A112, uno è sceso, ha sparato ed è fuggito bai zando su una Honda 750 guidata da un terzo. La A112 è stata condotta da colui che era al volante in una stradina dietro la piazza S. Domenico dove erano in attesa altri due complici che l’hanno subito incendiata. La salma del dottor Costa è stata composta in un corridoio del Palazzo di Giustizia, tramutato in camera ardente. Questa mattina alle 11, in cattedrale, saranno celebrati funerali di Stato.

 

 

 

Articolo di La Stampa del 9 Agosto 1980
Palermo: il magistrato ucciso indagava sulle banche siciliane
Lunedì si era rivolto «formalmente» alla Bankitalia Palermo: il magistrato ucciso indagava sulle banche siciliane La proliferazione degli sportelli bancari in Sicilia

PALERMO — Quarantotto ore prima di essere assassinato, il procuratore capo della Repubblica, Gaetano Costa, aveva trasmesso alla Banca d’Italia una richiesta, formale d’indagine ispettiva sulle banche siciliane sospettate di svolgere operazioni di riciclaggio del denaro «sporco» proveniente dal traffico della droga. E’ stata un’iniziativa senza precedenti della magistratura siciliana: secondo gli investigatori, è la molla che ha fatto scattare la «condanna a morte» di Costa. Per la Banca d’Italia non c’è segreto bancario che tenga: i suoi ispettori hanno il potere di verificare tutte le operazioni e l’obbligo di riferire alla magistratura se c’è qualcosa di sospetto, il momento delle verità imbarazzanti per «gente di rispetto» era vicino? (negli ultimi cinque anni l’incremento è stato del 5 per cento per le grandi banche, e del 400 per cento per quelle piccole, di interesse locale) aveva attirato i sospetti della magistratura palermitana, in possesso di una mappa molto dettagliata delle infiltrazioni mafiose in grandi e piccole agenzie. Tra l’altro, fra i settantasette imputati dell’inchiesta sulla mafia e sul traffico di  droga c’è anche un funzionario del Banco di Sicilia, Francesco Lo Coca. II capo della squadra mobile Boris Giuliano, assassinato un anno fa, nel corso delle indagini su un versamento in dollari di 250 milioni di lire, scoprì che Lo Coco era uno dei «cassieri» della mafia. Costa aveva battuto anche la strada degli appalti  nelle indagini sull’uccisione del colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, del segretario provinciale della dc Michele Reina, e del presidente della Regione Piersanti Mattarella. Il magistrato, parlando con i collaboratori, aveva più volte manifestato un’opinione «da verificare»; e, cioè, che fossero proprio gli appalti l’elemento per fare luce su una serie di delitti. . . Droga, appalti, riciclaggio di «denaro sporco»: giri di miliardi in mano alle «cosche» mafiose e su cui sono in corso quattro indagini a carico di 77 persone, più 13 imprenditori. Quattro indagini giunte a una fase cruciale. E Costa, forse, ha pagato per essere giunto al cuore del problema. Il compito di proseguire il compito del procuratore assassinato tocca ora al giudice istruttore Giovanni Falcone: «un’inchiesta delicata, ci vuole molta pazienza. Ma andremo fino in fondo», ha assicurato.

 

 

 

Articolo di La Stampa del 10 Agosto 1980
Delitto Costa: chiesta agli Usa l’estradizione di dodici mafiosi
di Antonio Ravidà
Il giudice ucciso a Palermo perché sapeva troppo Delitto Costa: chiesta agli Usa l’estradizione di dodici mafiosi Sono tutti italo-americani – Il magistrato assassinato indagava anche su una oscura e complessa vicenda di appalti edilizi per la costruzione di scuole, che risale al 1978

PALERMO — E’ in pieno svolgimento l’inchiesta sull’uccisione del Procuratore capo della Repubblica di Palermo. Gaetano Costa, fulminato dai killer in via Cavour: anche se a Palazzo di Giustizia, gli uffici sono semivuoti e l’atmosfera è (non solo per il caldo) pesantissima le indagini vanno avanti, avvolte dal riserbo e coordinate dai magistrati locali, nell’attesa che — come vuole la procedura— l’Istruttoria, sul delitto sia trasferita ad altro tribunale. Andiamo a colloquio col dottor Giovanni Falcone, il giudice che più degli altri — negli ultimi tempi — era stato a contatto col dottor Costa perché proprio a lui il Procuratore capo aveva passato il processo su mafia e droga. Premesso di «non poter dire niente perché vincolato dal segreto istruttorio». Falcone conferma: « Non ci intimoriscono. Non arretriamo. Continuiamo a fare il nostro dovere: E’ in perfetta sintonia con quanto dichiarato da tutti i suoi colleghi del tribunale di Palermo, dopo i funerali di Costa, e con il senso della nota diffusa, venerdì pomeriggio, dalla corrente «Unità per la Costituzione». A proposito delle notizie circolate su una autentica (o presunta) richiesta di intervento della Banca d’Italia fatta 48 ore prima del delitto da Costa e Falcone perché venissero messe sotto inchiesta le banche siciliane sospettate di riciclare denari sporchi provenienti dal traffico internazionale di droga, Falcone non conferma né smentisce. «Non dico niente. Non posso. C’è il segreto istruttorio, non intendo violarlo: Però, poco dopo, il giudice — incalzato dalle domande circa  i poteri inquisitori dell’autorità giudiziaria sulle attività delle aziende bancarie — aggiunge testualmente: «Non abbiamo bisogno di’ chiedere nulla alla Banca d’Italia. Semmai, se noi disponiamo qualcosa, è la Banca d’Italia che deve uniformarsi’. E. su altra domanda dei giornalisti, soppesando le parole. Falcone ricorda che tuttora sono in carcere accusati di associazione a delinquere finalizzata al traffico degli stupefacenti tra l’Estremo Oriente e gli Stati Uniti — attraverso la Sicilia — Francesco Lo Coco, vicedirettore dell’agenzìa 14 della Cassa di Risparmio di Palermo e Giovanni Gaudesi. impiegato della Cassa Rurale ed Artigiana di Monreale, cittadina alla periferia sud-orientale di Palermo. «Quando i soldi arrivano nelle banche, in pratica sona già puliti dice il giudice e aggiunge altre notizie come quella che tutti i mandati di cattura e le scarcerazioni degli indiziati di appartenere all’associazione a delinquere legata alla droga sono stati decisi nel corso dell’istruttoria in perfetta unità d’intenti tra la Procura della Repubblica e l’ufficio istruzionet del tribunale. «L’istruttoria, insomma, non presentava alcuna anomalia» conclude Falcone che adesso conta di chiedere l’estradizione «di almeno dodici persone» (tutti italo-americani) dagli Stati Uniti in Italia. Polizia, carabinieri e Guar.dia di Finanza continuano a cercare un parente di alcuni imputati del processo mafia e droga che fu notato dagli uomini della scorta del dottor Costa nei pressi dell’abitazione del Procuratore capo. Costui (la cui identità viene tenuta segreta) avvicinato dagli agenti spiegò che aspettava la moglie. Fu lasciato andar via. Dopo l’omicidio, l’hanno cercato senza trovarlo: è sparito. Mafia e droga, in ogni modo, non era l’unica indagine che Gaetano Costa, prima di andare in ferie, seguiva molto da vicino. Ad esempio: qualche giorno fa aveva chiesto al nucleo di polizia tributaria, della Guardia di Finanza di accertare particolari (ma quali?) su una complicata vicenda che l’altr’anno mise a rumore l’assessorato Lavori Pubblici del Comune quando i prestanome di sei imprese edili si contesero un appalto pubblico per la costruzione di alcune scuole elementari. Parecchi retroscena finora non chiariti a-sufficienza insospettirono anche l’on. Santi Mattarella, il presidente della Regione che la mattina dell’Epifania fu assassinato in un agguato sotto casa sua in viale della Libertà. Mattarella aveva disposto un’indagine amministrativa, ordinando a un commissario «ad acta» di stabilire con precisione se nell’appalto vi fossero state mediazioni di carattere mafióso. Un’inchiesta, la sua. con pochi precedenti perché normalmente, in casi analoghi, interviene l’assemblea regionale agli Enti Locali. Invece quella volta l’iniziativa fu del presidente, in prima persona. Allora, non soltanto mafia e droga. Si fa strada, illuminata da squàrci di luce gettati sugli appalti di opere pubbliche a Palermo, anche l’ipotesi inquietante di un’edilizia corrotta e probabilmente utilizzata per riciclare i soldi sporchi provenienti dal traffico di droga.

 

 

 

Articolo di La Stampa del 12 Agosto 1980
Forse in un documento segreto Usa i nomi dei «killers» del magistrato
di Antonio Ravidà 

L’inchiesta a Palermo sull’uccisione del giudice Costa Forse in un documento segreto Usa i nomi dei «killers» del magistrato Il rapporto riguarda i mafiosi residenti nel New Jersey e che hanno contatti stabili con la Sicilia – Interrogata nel carcere di Roma la cantante Ferrara che sarebbe amica di uno degli italo-americani di cui è stata richiesta l’estradizione

PALERMO — Lasciando Palermo, Camillo Rocco, vice capo della polizia, ha ammesso con franchezza che «Le prospettive non sono rosee” Rocco, responsabile della Criminalpol italiana, ha coordinato le indagini sull’uccisione del Procuratore capo della Repubblica, Gaetano Costa. A Roma—ha detto — riferirà gli sviluppi della situazione al ministro dell’Interno Virginio Rogoni. Lo stesso ministro, d’altronde, venuto venerdì a Palermo per i funerali di Stato in cattedrale, si. era reso conto di quanto difficili-siano le indagini. Si gira a vuoto e si smorza il ritmo dell’inchiesta. Prende piede — non diversamente da quanto accadde subito dopo gli altri delitti di persone note e importanti — la sensazione che anche stavolta mandanti ed esecutori rimarranno ignoti. Soltanto i quattro presunti killers del capitano dei carabinieri Emanuele Basile (l’ultima vittima prima di Costa, ucciso a Monreale, alle porte della città, la notte del 4 maggio) sono in carcere: due, in passato, furono anche indiziati per altri omicidi ma andrà a finire che riusciranno a dimostrare d’essere innocenti? Il più probabile nel  caso Costa è sempre il filone che porta direttamente negli Stati Uniti e in Canada con i rapporti tra mafiosi e trafficanti internazionali di stupefacenti. A suo tempo, dopo l’uccisione del vicequestore Boris Giuliano, dirigente della Squadra Mobile che aveva cominciato ad indagare con successo sui mafiosi implicati nel traffico, il raggio dell’inchiesta fu ristretto a questo ambiente che vanta altissimi appoggi da parte delle «famiglie» statunitensi di «Cosa nostra» e può contare su un enorme fiume di dollari. «Abbiamo messo le mani su un bubbone malefico», disse tempo fa il successore di Boris Giuliano, Giuseppe Impallomenì, riferendosi alle decine di arrestati (gli accusati in tutto sono 77, per 12 dei quali sta per essere avviata la pratica per l’estradizione dagli Stati Uniti in Italia) nell’inchiesta su mafia e droga. Proprio ieri Giovanni Falcone, il giudice istruttore che la segue da vicino, è andato a Roma a interrogare in carcere la cantante di musica leggera Esmeralda Ferrara, sospettata di essere un «corriere» della droga. Incinta al sesto mese la giovane sarebbe l’amica di uno dei siculo-americani da qualche tempo tenuto d’occhio a Brooklyn anche dalla «Dea», l’ente governativo statunitense preposto alla lotta ai trafficanti di droga. La Ferrara (anche il suo patrigno è finito in carcere) è stata arrestata il mese scorso a Roma alla stazione Termini. I militari della Finanza la bloccarono mentre scendeva dal treno proveniente da Firenze. La cantante saprebbe molte cose sul «giro» della droga che a Palermo aveva destato l’interesse del procuratore Costa soprattutto in relazione al ricicaggio dei dollari provenienti dal traffico. In particolare il magistrato ucciso aveva preso visione di un rapporto inviato all’autorità giudiziaria italiana dal «Dea», dal Fbi e da una commissione d’inchiesta sulle attività di presunti mafiosi residenti nel New Jersey. La presidenza della Regione Siciliana ha diffuso ieri il seguente comunicato: «Numerosi organi di stampa hanno pubblicato in questi giorni che negli ultimi anni si sarebbe avuta in Sicilia una proliferazione incontrollata degli istituti di credito e dei loro sportelli. Appare doveroso precisare, invece, che proprio negli ultimi anni, e cioè dal giungo 1976 in poi ad oggi, e quindi durante la presente legislatura, non è stata concessa alcuna autorizzazione al. credito a nessuna banca, comunque configurata, e non è stata consentita l’apertura di alcun nuovo sportello nel quadro delle banche esistenti”. «E’ vero, al contrario — conclude il comunicato — che dal 1976 ad oggi è stata autorissata la chiusura di undici sportelli tra quelli già operanti».

 

 

 

Articolo da L’Unità del 3 Aprile 1991
«Fu ucciso per ripicca? No, lui stava entrando dentro i santuari mafiosi»
di Ninni Andriolo
Il processo per l’omicidio del procuratore di Palermo Gaetano Costa, è entrato nella sua fase finale.
Ieri, l’avvocato di parte civile Giuseppe Zupo ha pronunciato la sua arringa e ha disegnato uno scenario che collega  il delitto del 6 agosto 1980 alle indagini sulla morte di Piersanti Mattarella e alle trame dove si intrecciano politica-mafia-finanza-P2. Oggi parlerà il pubblico ministero Mario Amato.

CATANIA. Una ripicca? Un atto di sfida nei confronti dei corleonesi? «Ma non scherziamo, non si uccide per motivi come questi il procuratore della Repubblica di Palermo». E le confessioni di Buscetta? «Don Masino mescola sapientemente verità e menzogna, dice e non dice, non intacca i santuari, tace sui rapporti tra mafia, politica e finanza». Per Giuseppe Zupo, difensore di parte civile nel processo che si sta svolgendo davanti alla prima sezione delle assise di Catania, é invece a quel livello che va ricercato il vero movente dell’omicidio di Gaetano Costa.
Un’arringa di quattro ore per riannodare tra loro gli elementi emersi nel corso delle udienze di questi mesi e per individuare un disegno unitario che vada oltre le risultanze dell’istruttoria. Un processo per un solo imputato, dieci anni di indagini per un unico rinvio a giudizio: quello di Salvatore Inzerillo, classe 1953, imparentato con Totuccio ontorno, il boss ucciso a Palermo nei primi anni ’80. Secondo l’accusa è stato solo il «palo» del commando che il 6 agosto del 1980 feri a morte il procuratore capo di Palermo. La parte civile oggi ne chiede la condanna, ma non si accontenta. Alla Corte, che entro la settimana si chiuderà in camera di consiglio per decidere, l’avvocato di parte civile domanda una sentenza che non chiuda le porte alla ricerca della verità, che riapra il processo e che consenta ulteriori indagini per scoprire mandanti e registi occulti.
Zupo, ieri mattina, ha ripreso nelle mani la trama che collega direttamente l’omicidio del procuratore di Palermo a quello di Piersanti Mattarella.
Costa, prima di essere a sua volta ucciso, aveva ordinato alla guardia di Finanza indagini approfondite sui soci palesi e non delle 6 ditte che si erano aggiudicate le gare per la costruzione delle scuole di Palermo. Attorno a quegli appalti comunali, il presidente della Regione siciliana aveva deciso di vederci più chiaro. Cosi, nell’ottobre del 1979. aveva disposto un’ispezione regionale. Non passarono tre mesi: il 6 gennaio del 1980, Mattarella venne ucciso. Costa cercò subilo la verità su quel delitto, indagò su quelle società, sui loro soci. Era convinto di sfondare un muro dietro il quale si nascondevano intrecci politici, interessi finanziari, personaggi potenti quanto insospettabili. Dispose indagini bancarie e finanziarie e le ordinò direttamente al comandante della Guardia di Finanza, colonnello Pascucci. Quelle 6 ditte facevano capo a famiglie mafiose del calibro degli Spatola, dei Gambino, degli Inzerillo. Erano quelli i clan che allora comandavano a Palermo e che gestivano il commercio della droga, il riciclaggio del denaro sporco, i traffici sulla direttrice Sicilia-MIlano.New York, i rapporti tra mafia e politica e tra mafia e P2. Erano quelle le famiglie che gestirono il finto rapimento di Michele Sindona e la permanenza in Sicilia del finanziere italo-americano. Tra l’agosto e l’ottobre del 79, alla vigilia dei grandi delitti eccellenti di Palermo, Sindona soggiornò in Sicilia. Pochi mesi opo venne ucciso Mattarella.
Un anno dopo venne ucciso il procuratore capo di Palermo.
Ieri mattina, quattro ore di arringa. E Zupo ha teso a smontare «tesi di comodo», a mettere in guardia da una lettura del delitto Costa che «qualcuno vuole che la Corte affermi per sentenza». Altro che «ripicche di bambocci», altro che un «delitto ordinato dal boss Totuccio Inzerillo soltanto per dimostrare a Luciano Liggio e ai corleonesi la sua potenza», altro che «ostentazioni di forza da parte di chi si sentiva ormai emarginato dal potere delle famiglie vincenti».
Sono queste le affermazioni fatte da Buscetta, «il cui teorema – secondo Zupo – non regge alla prova dei fatti e della logica». Il rapporto sui «55»? Quello inviato in procura nel maggio del 1980 e che portò all’arresto di capi e gregari delle famiglie Spatola e Inzerillo, accusati di associazione a delinquere di stampo mafioso?
Costa convalidò gli arresti anche contro il parere di alcuni sostituti. Per luì era importante non sminuire il lavoro di polizia e carabinieri: firmò da solo e per la mafia quella firma solitaria fu la dimostrazione che «il procuratore era un bersaglio da colpire». Ma non fu quel tratto di penna a determinare, da solo, la condanna a morte del magistrato. Per la parte civile il motivo vero dell’omicidio é contenuto dentro quelle indagini ordinate alla guardia di Finanza dopo il delitto Mattarella. Nel pericolo dei’rapporti tra mafia e politica che quelle ricerche approfondite potevano svelare. A Palermo arrivarono «montagne di carte», cosi le definì il consigliere istruttore Rocco Chinnici? Costa non ebbe il tempo di esaminarle, fu ucciso prima. Pile di documenti, di conti correnti, di assegni bancari. E quando Chinnici decise di indagare venne ucciso. Coincidenze?
Sarebbero davvero strane. «Quelle carte non si sa che fine abbiano fatto e non ce n’é traccia nella recente sentenza-istruttoria sui delitti politici di Palermo», dice Zupo e chiede che, per conoscere tutta intera la verità, si riparta proprio da quelle indagini finanziarie. Oggi, intanto. necll’aula della prima sezione della corte di assise del tribunale di Catania, parlerà il pubblico ministero Mario Amato.

 

 

 

Palermo 6 Agosto 1980 L’omicidio del Giudice Gaetano Costa
Tony Nasty – 18 agosto 2016

 

 

Fonte: cosavostra.it 
Articolo del 4 agosto 2018
Gaetano Costa. Un procuratore “affidabile” a Palermo
di Francesco Trotta

Palermo. 6 agosto del 1980. Una giornata calda, afosa. Il calare della sera non portava alcun beneficio. Gaetano Costa camminava lungo via Cavour, a pochi metri da casa. Camminava solo. Perché lui non voleva la scorta. Non voleva mettere in pericolo altre vite.

Si avvicinò a una bancarella di libri. Sfogliò qualche pagina. Poi tre colpi partiti da dietro lo trafissero. Uno gli sfregiò il volto. Un agguato mafioso, alle spalle.

Muore così Costa: dissanguato. A terra. Solo. Nel pieno centro della città. Dirà un testimone che il killer era giovane, guidava una motocicletta.

Vent’anni dopo Rita Bartoli disse: “In tutti questi lunghi, amari anni ho preferito tacere su quanto mi bruciava dentro, gelosa dei miei sentimenti e della appartenenza del mio dolore, delle mie emozioni: i sentimenti e le reazioni ho pensato appartenessero solo a me stessa e non potevano essere oggetto né di commiserazione dalla parte dei probi, né di soddisfazione da parte dei reprobi”.

Rita era la vedova del magistrato Gaetano Costa. Donna Rita. Così la chiamavano i suoi amici più stretti. Parlò con compostezza unica. Scrisse un libro – Una storia vera a Palermo – per raccontare a figli e nipoti della Sicilia e dell’Italia una storia d’amore verso quel marito lasciato solo in vita così come da morto.

Il silenzio cala sin da subito sulla figura di quel procuratore integerrimo di cui – verrà scritto – si poteva comprare solo la morte. Gaetano Costa prima di essere procuratore, fu partigiano. Iscritto da giovane al Partito Comunista, quando ritornò nelle aule di giustizia, prima a Caltanissetta poi a Palermo, consegnò la tessera di partito. “Mai venne influenzato dalle sue idee politiche nel corso del suo lavoro. Non avrebbe mai pensato di fondare un partito una volta finito il suo percorso di magistrato, o di aderire a un partito mentre era in carica”, disse poi, donna Rita.

Costa capì come fosse cambiata la mafia. Di fronte alla Commissione Parlamentare, raccontò di come Cosa Nostra ormai si fosse radicata nei settori pubblici, controllasse gli appalti e li gestisse a proprio piacimento. La mafia era imprenditrice, quella dei “colletti bianchi”, non di lupare altre amenità. Ovviamente, per contrastarla occorreva seguire le tracce – ben poche – del denaro sporco, fiume sommerso nelle banche compiacenti.

Nel 1978 Gaetano Costa diventò Procuratore capo a Palermo. Era già consapevole delle difficoltà a cui sarebbe andato incontro: “Vengo in un ambiente dove non conosco nessuno, sono distratto e poco fisionomista. Sono circostanze che provocheranno equivoci. In questa situazione è inevitabile che il mio inserimento provocherà anche dei fenomeni di rigetto. Se la discussione però si sviluppa senza riserve mentali, per quanto vivace, polemica e stimolante, non ci priverà di una sostanziale serenità. Ma ove la discussione fosse inquinata da rapporti d’inimicizia, d’interlocutori ostili e pieni di riserve, si giungerà fatalmente alla lite”.

Avrebbe raccontato donna Rita: “Solitamente per i posti direttivi, dopo la decisione del Csm, si era soliti dare l’anticipato possesso del posto al quale si era designati, per evitare che un ufficio direttivo rimanesse senza la presenza del capo per i tempi lunghi dell’iter burocratico. Il Procuratore generale dell’epoca, il dottor Pizzillo, non aveva fatto mistero di non avere nessuna intenzione di sollecitare il Csm, non preoccupandosi affatto di lasciare una Procura calda come quella di Palermo senza il Procuratore capo designato, affidandola per un periodo così lungo a un Procuratore aggiunto, buono per tutte le stagioni, di cui preferisco non fare il nome per carità di patria…”.

Gaetano Costa, però, non era tipo da lasciarsi turbare. Anzi. Si fidava di pochi: il capo dell’Ufficio Istruzione, Rocco Chinnici, e l’altro grande amico, il giudice Cesare Terranova. Aveva preso in mano l’indagine avviata prima da Boris Giuliano, ammazzato nel 1979, e proseguita da Emanuele Basile, capitano dei Carabinieri di Monreale, ucciso anche lui, il 4 maggio del 1980. Il tema dell’indagine era il traffico di droga gestito dalle famiglie importanti, quelle della Palermo altolocata: Spatola-Inzerillo-Gambino. Il connubio tra Cosa Nostra siciliana e quella americana.

C’erano quaranta persone da arrestare. Il 9 maggio del 1980 all’interno del Palazzo di Giustizia di Palermo, il procuratore Costa presentò le carte da firmare ai suoi sostituti, Pietro Grasso e Giusto Sciacchitano, che si rifiutarono di firmare.

Racconta il figlio Michele Costa: “Per proteggere i suoi ragazzi firmò da solo tutti i provvedimenti quando capì che alcuni avvocati avevano avuto garanzie sul mancato sostegno da parte dei Pm. Sciacchitano, lo stesso giorno, andò dall’avvocato Fileccia dicendo che aveva firmato tutto lui”.

Quel procuratore integerrimo, lasciato solo dai suoi stessi colleghi, continuò senza batter ciglio il proprio lavoro. Il 14 luglio del 1980 ordinò alla Guardia di Finanza alcune indagini ad ampio raggio sugli intrecci economici tra mafiosi e complici collusi, in tutta Italia. Sperava di trovare una soluzione agli assassinii dell’On. Piersanti Mattarella, Presidente della Regione Sicilia, e del giudice Cesare Terranova, caduti nel 1979. Ad occuparsi delle indagini fu il il colonnello Pascucci di Firenze. Pochi giorni dopo l’inizio delle indagini, la moglie di Pascucci fu avvicinata da un individuo che le consigliava di dire al marito di non indagare troppo affondo. Dopo la morte di Costa, l’indagine cadde nel vuoto perché Pascucci venne trasferito, apparentemente senza motivo. Al suo posto fu messo il colonnello Mola. Al processo di Catania, sulla morte di Costa, emerge allora la presenza della loggia massonica P2, come confermerà lo stesso Pascucci: “Circa l’ingerenza della P2 nel mio trasferimento posso motivarlo in relazione al fatto che la P2 di Licio Gelli aveva in Arezzo la sua sede operativa e che il comandante generale della Guardia di Finanza generale Giannini risultò poi essere un’aderente a tale loggia massonica (tessera n. 832); probabilmente avevo messo le mani su qualche cosa che non andava toccato. Il generale Giannini mi telefonò direttamente – anche ciò è insolito – dicendomi che dovevo andare via da Firenze […]il passaggio di consegna tra Mola e me avvenne in mezz’ora”.

Oggi ricorre l’anniversario della morte di Gaetano Costa, un procuratore “affidabile” – così doveva essere un magistrato secondo lo stesso Costa – che a Palermo cercava di combattere la mafia. Fu ucciso per vendetta per gli arresti firmati in totale solitudine? O per “altro” volere?

Non restano che dubbi. E una storia, come ne esistono tante, ma non una qualsiasi. È quella di Gaetano Costa, il procuratore di Palermo che “doveva” essere ammazzato.

Ad oggi esecutore e mandanti del suo omicidio sono ignoti.

 

 

 

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antimafiaduemila.com
Articolo del 6 agosto 2020
Ricordando Gaetano Costa, il magistrato che fu lasciato solo
di Davide De Bari

 

 

 

 

 

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