27 Agosto 1996 Catania. Uccisa Santa Puglisi, 22 anni e il nipote Salvatore Botta, 14 anni, mentre erano in visita alla tomba del marito di lei.

Santa Puglisi aveva ventidue anni ed era la figlia di Antonino Puglisi, capo della cosiddetta cosca “Da Savasta”. È stata uccisa il 27 agosto del 1996 davanti alla tomba del marito. Insieme a lei, al cimitero quella mattina, c’erano anche i suoi nipoti di 12 e 14 anni. Salvatore Botta, il più grande dei due, è stato colpito mentre cercava di scappare, forse perché aveva riconosciuto il killer e preso a calci prima del colpo decisivo. (liberanet.org)

 

 

Articolo del Corriere della Sera del28 Agosto 1996
Massacrata sulla tomba del marito
di Alfio Sciacca
Era figlia di un boss, ucciso anche il cugino della donna. Risparmiata dodicenne

CATANIA . Stretta nei vestiti a lutto di giovane vedova di mafia, ogni giorno portava fiori freschi sulla tomba del suo compagno, ammazzato alcuni mesi fa. Neanche nel torrido agosto catanese aveva voluto rinunciare a questa mesta cerimonia, ripetuta con scrupolo proprio nelle ore piu’ calde della giornata. Santa Puglisi, 22 anni, moglie e vedova di mafia, era anche figlia di mafioso. Anzi aveva un cognome di quelli che a Catania fanno subito venire alla mente faide senza fine: il padre e’ Antonino Puglisi, capo della cosiddetta cosca “Da Savasta”, attualmente in carcere perche’ ritenuto mandante di altre crudeli vendette trasversali. Con la giovane vedova ieri al cimitero erano andati anche due nipoti del capomafia, Salvatore Botta di 14 anni ed una ragazzina di appena 12 sulla cui identita’ viene mantenuto il riserbo. Su questo gruppetto familiare si e’ abbattuta la furia bestiale di un killer solitario. Un sicario spietato e deciso a consumare vendetta, sfregiando le vittime e di riflesso il boss detenuto. La sua mano si e’ fermata solo davanti alla piccola dodicenne alla quale pero’ non e’ stato risparmiato uno spettacolo di morte che forse non dimentichera’ per tutta la vita.

Il cadavere della giovane vedova resta riverso all’ interno della cappella che porta la scritta “Famiglia Puglisi”. Sulla tomba del marito, Matteo Romeo, ucciso il 23 novembre scorso alla Pescheria di Catania, la grande foto scattata nel giorno del matrimonio: lui sorridente nel vestito a festa mentre stringe un grosso bouquet di fiori. Poco lontano dalla cappella, scomposto nel vano tentativo di fuggire alla morte, il corpo di Salvatore Botta. Un’ istantanea di morte che fa sprofondare Catania. Una scena che lascia sgomenti gli stessi inquirenti e spinge anche un magistrato come Mario Amato, abituato ad indagini su stragi ed a omicidi di mafia, a fare commenti da punto di non ritorno. “Quanto a degrado e atrocita’ a Catania non si era mai scesi cosi’ in basso . commenta .. Abbiamo proprio toccato il fondo. Purtroppo in questa citta’ continuano questo tipo di stragi che coinvolgono innocenti e purtroppo anche questo sangue non riesce piu’ a stupire e scuotere”. Stando alle indagini il sicario non si e’ limitato ad uccidere la figlia ed il nipote del boss Antonino Puglisi. Li ha pure oltraggiati prima di ammazzarli. Chi ha agito conosceva le abitudini di Santa Puglisi e sapeva che giornalmente si recava al cimitero. A quanto pare si e’ rintanato nei viali del cimitero gia’ alcune ore prima e ha nascosto la pistola, una “calibro 7,65”, all’ interno di un vaso con i fiori. E’ sbucato fuori: prima ha colpito Santa Puglisi alle spalle, poi al volto. Quindi si e’ accanito contro Salvatore Botta, raggiunto dai primi colpi di pistola mentre tentava di scappare e poi preso a calci prima del colpo di grazia sempre al volto. “Forse . affermano gli inquirenti . il giovane e’ stato ucciso perche’ aveva visto in faccia l’ assassino”. Miracolosamente salva l’ altra nipote di Antonino Puglisi. Ieri pomeriggio la piccola e’ stata la prima ad essere ascoltata dal magistrato inquirente nella speranza di riuscire a ricostruire l’ identita’ dell’ assassino. Nel tardo pomeriggio e’ stato interrogato anche il boss detenuto. Sull’ esito degli interrogatori non e’ trapelata alcuna indiscrezione. Si sa solo che gli inquirenti avrebbero gia’ pronto un identikit del killer. Quanto alle indagini l’ ipotesi privilegiata resta quella della vendetta nei confronti del capo del clan Savasta. E i precedenti del boss detenuto lasciano spazio a tantissime ipotesi sul sicario e sui mandanti. Sono infatti diversi i gruppi criminali che hanno giurato vendetta ad Antonino Puglisi. Ma in particolare gli inquirenti stanno prendendo in esame alcuni recenti fatti di sangue avvenuti a Catania. Il boss era infatti finito in carcere anche con l’ accusa di essere il mandante del duplice omicidio di Agata Zucchero e Liliana Caruso, rispettivamente suocera e moglie del pentito Riccardo Messina, uccise il 15 luglio del ‘ 94. E ancora: era sospettato di aver ordinato l’ eliminazione del padre e del figlio di un altro pentito, Giuseppe Ferone.

 

 

 

Articolo da La Repubblica del 29 Agosto 1996
TRA DONNE – BOSS E VENDETTE DI PENTITI
di Giovanni Maria Bellu

CATANIA – “Eravamo quasi soddisfatti: una cinquantina di omicidi dall’ inizio dell’ anno. Non male, rispetto alle medie del passato. Ma ora questa storia…”. Non è un cinico il sostituto procuratore antimafia Mario Amato. E’ solo un magistrato di una città dove in dieci anni ci sono stati 1100 omicidi e dove la vita media degli appartenenti alle cosche è simile a quella dell’ Egitto dei faraoni, 35 anni. Una città dove duecento pentiti e novemila inquisiti per reati di mafia non sono bastati a fermare una vera guerra tra eserciti allo sbando. Tutti i boss sono in carcere ma i delitti non si fermano. Gli investigatori catanesi lavorano su due piste per tentare di venire a capo dell’ omicidio della ventiduenne Santa Puglisi e del suo cuginetto tredicenne Salvatore Botta. Due piste – non necessariamente alternative tra loro – che si fondano proprio sulle due peculiarità della situazione catanese: la proliferazione di pentiti e la carenza dei capi. La prima porta nell’ ambiente dei collaboratori di giustizia colpiti nei loro affetti familiari dalle vendette dei boss. La seconda all’ individuazione di chi, finiti in cella i capicosca, può aver preso il loro posto. Dice il procuratore della Repubblica Mario Busacca: “I capimafia detenuti hanno sempre tenuto contatti con l’ esterno attraverso le loro donne. Ora abbiamo segnali che ci fanno ritenere che alcune di queste donne abbiano assunto un ruolo attivo, non più di semplici messaggere. E’ possibile che Santa Puglisi fosse una di loro”. La “donna-boss” è un antico mito mafiologico, quasi una versione siciliana della leggenda delle amazzoni. Ma qua ci sono numerosi fatti che, come dicono gli investigatori, “convergono”. E d’ altra parte il primo settembre dell’ anno scorso fu proprio l’ omicidio di una donna – Grazia Minniti, moglie del boss Nitto Santapaola – a sancire la disintegrazione dei tradizionali equilibri della criminalità catanese. L’ omicidio di Santa Puglisi è solo l’ ultimo capitolo di una faida tutta al femminile cominciata il 15 luglio del 1994. Quel giorno, in una salumeria nel centro della città, un killer uccise a colpi di pistola Liliana Caruso, 28 anni, e Agata Zucchero, 62, moglie e suocera di Riccardo Messina, un pentito che con le sue confessioni stava mettendo in ginocchio il clan di Antonino Puglisi, boss di Tondicello della Playa, padre della donna uccisa l’ altro ieri. Le indagini quella volta imboccarono rapidamente una pista precisa: tempo prima la moglie del pentito aveva denunciato di aver ricevuto una visita di Domenica Micci, moglie di Puglisi, che l’ aveva minacciata di morte. Il processo per quel duplice omicidio è in corso. Oltre al capocosca e alla consorte, tra gli imputati (per associazione mafiosa) c’ è anche un’ altra donna, Santa Vasta, moglie del braccio destro del boss. Una cosca matriarcale quella di Antonino Puglisi. Il suo soprannome è “U figghiu de Savasta”. Savasta era il cognome della madre, donna forte, autoritaria, al punto da riuscire a imporre – una quarantina d’ anni fa, in Sicilia – il proprio nome alla discendenza. Il boss è Antonino Puglisi solo per l’ anagrafe. In città è infatti conosciuto come “Tonino Savasta”. Il sindaco Enzo Bianco è rimasto sconvolto per l’ ultimo omicidio. “Da noi il 2 novembre, giorno dei morti, c’ è l’ usanza di far trovare dei doni ai bambini. Si dice loro che sono stati portati dai cari che sono scomparsi. Per questo il cimitero per noi catanesi è un luogo ancora più sacro. Commettere un omicidio proprio là, uccidere un ragazzino, è come dare un calcio allo stomaco della città. Una intimidazione”. Bianco si dice indignato e preoccupato (chiederà a Scalfaro e a Napolitano di intervenire perchè l’ esercito continui a presidiare le via di Catania) ma non sorpreso per la possibilità che la guida di alcune cosche sia stata assunta da donne. “Di recente – racconta – ho visitato il carcere. Un luogo, lo dico per inciso, veramente orrendo, che andrebbe chiuso e sostituito con una struttura più civile. Ho anche visitato il braccio femminile. Non era particolarmente affollato. C’ erano una trentina di donne, per buona parte accusate di associazione mafiosa. Sono rimasto colpito dalla fierezza dello sguardo, dalla durezza dell’ atteggiamento di alcune di loro. Non mi stupirei se avessero assunto un ruolo di comando”. La pista della vendetta dei pentiti è una ramificazione di quella sulla faida al femminile. Si indaga perciò negli ambienti d’ origine del pentito Riccardo Messina, marito e genero delle due donne assassinate nel 1994. Si indaga anche negli ambienti di un altro pentito, Giuseppe Ferone, al quale sono stati uccisi il padre e il figlio. Le indagini – qualunque sia la pista giusta – si presentano molto difficili. L’ unica testimone – la ragazzina di dodici anni, parente delle due vittime, miracolosamente scampata all’ agguato – è stata sentita dal magistrato. E’ sconvolta, non è nemmeno chiaro se sia riuscita a fornire indicazioni sufficienti per un identikit dell’ assassino. Inoltre la confusione negli ambienti criminali è tale che gli inquirenti non hanno più un quadro chiaro delle alleanze e delle rivalità. Amicizie si trasformano in faide per motivi futili (“Qua – dice il pm Amato – non si tiene in alcuna considerazione la vita umana”), antichi rancori vengono superati per ragioni di interesse o di sopravvivenza. Esistono poi autentiche bande mercenerie, disposte ad andare col migliore offerente. Tra gli investigatori è diffusa la sgradevolissima sensazione che i tempi della mafia siano troppo veloci per quelli della legge. I processi in corso, i racconti dei pentiti, sono fotografie sbiadite di una realtà che cambia ogni giorno. Catania ora teme veramente di non riuscire a rompere l’ assedio.

 

 

 

Articolo da L’Unità del 30 agosto 1996
È un pentito il killer del cimitero di Catania
di Giusy Lazzara
Voleva vendicare i suoi familiari assassinati
Sarebbe il boss pentito Giuseppe Ferone il responsabile di due dei fatti più eclatanti nella guerra di mafia a Catania. Ferone avrebbe ucciso la moglie di Nitto Santapaola, Carmela Minniti, e sarebbe il mandante del duplice omicidio nel cimitero di Catania dove furono uccisi figlia e nipote del boss Puglisi, reggente del clan «della Savasta». Il pentito avrebbe agito per farsi giustizia per l’uccisione di suo padre e di suo figlio. Ferrone, interrogato, ha negato tutto.

— CATANIA. Sono passate poco più di quarant’otto ore dal duplice omicidio della figlia e del nipote del boss Antonino Puglisi, avvenuto all’interno del cimitero di Catania, e già sono scattati i primi fermi dei presunti mandanti ed esecutori dell’agguato. Inoltre si è alzato il velo sull’omicidio di Grazia Minniti, moglie del boss Nitto Santapaola, avvenuto appena un anno fa nell’immediata periferia di Catania. Due omicidi eccellenti che sarebbero maturati nella mente della stessa persona: il pentito Giuseppe Ferone. Il capo cosca dei Cursoti, è sospettato di essere stato il mandante dell’omicidio di Santa Puglisi e Salvatore Botta ed esecutore materiale nell’eliminazione della moglie di Santapaola.
Ma ieri sera, nel corso del primo interrogatorio, Ferone ha respinto tutte le accuse. Contemporaneamente ieri a Catania venivano scoperti dagli agenti della questura cinque arsenali, uno dei quali con 100 chili di plastico che sarebbe servito per armare il clan di Ferone.
Primi fermi
I fermi, ordinati dal procuratore capo Mario Busacca e dal sostituto Mario Amato, in tutto cinque, sono stati eseguiti ieri mattina a Catania e nel Lazio. Qui in una località segreta del litorale dove Ferone viveva sono state fermate altre persone di cui ancora non si conosce l’identità. Gli agenti comunque non hanno trovato il boss nella casa che gli era stata assegnata, ma in un’altra abitazione.
Qualche ora dopo l’omicidio del cimitero, alcuni pregiudicati appartenenti al clan di Ferone e Sciuto erano stati ascoltati. Per loro la prova del tampon-kit per verificare se avevano sparato nelle ore immediatamente precedenti il duplice omicidio.
Già ieri mattina, in procura si era avvertito che qualcosa si stava muovendo nelle indagini. La pista che privilegiava l’ipotesi di una vendetta per mano di un boss pentito che si faceva giustizia per i famigliari  ammazzati dal clan rivale, prendeva sempre più consistenza. Quasi a sorpresa poi si inserivano due nuovi collaboratori di giustizia, o «testimoni», come si sono definiti perché sostengono non hanno nulla di cui
pentirsi. I due, un uomo (il nipote dello stesso boss) e una donna, la notte dopo il duplice omicidio del cimitero, si erano presentati negli uffici della squadra mobile di Catania e avevano vuotato il sacco. «Volevano togliersi un peso dalla coscienza» hanno detto alcuni agenti della questura.
In tarda mattinata la notizia dei fermi firmati dai magistrati per evitare un possibile inquinamento delle prove. Ma sull’attendibilità dei nuovi «pentiti» i magistrati mettevano in moto una serie di verifiche per accertare anche la veridicità delle loro dichiarazioni.
Dichiarazioni che, stando alle prime voci che sono trapelate, sarebbero ben precise avrebbero indicato i nomi dei mandanti e degli esecutori degli omicidi. «La giustizia controlla anche i pentiti» tenevano a precisare i magistrati della procura antimafia Amedeo Bertone e Mario Amato che nel frattempo a Roma, stavano sentendo in una delle stanze della questura il boss Ferone.
Il capo dei Cursoti
Prima i fermi erano sei, poi cinque. Spuntava a dare maggiore conferma alle supposizioni ventilate qualche ora prima il nome del nemico numero uno dei Savasta «Giuseppe Ferone». Il capo clan di una famiglia dei Cursoti, arrestato il 14 novembre di anni fa, aveva deciso di saltare il fosso, dopo che gli avevano ammazzato il padre e il figlio, il 14 e 31 marzo del ‘95, per mano dei sicari mandati direttamente dai Laudani famiglia da sempre in guerra con Ferone. Da quel momento il boss aveva giurato che si sarebbe vendicato.
Secondo le accuse dopo essere uscito dal carcere grazie alla sua collaborazione organizzò tutto per farla pagare a chi secondo lui era responsabile della morte dei famigliari. Si era rotto qualcosa, l’uccisione dei coniugi, aveva sgretolato le certezze del boss, che addirittura affidava il suo pentimento alle pagine di un quotidiano locale.
Secondo quanto avrebbero rivelato i due nuovi pentiti, che stanno attualmente collaborando con la procura di Catania – uno di loro sarebbe stato testimone dell’omicidio di Grazia Minniti – fu Giuseppe Ferone in persona a uccidere la moglie del boss Nitto Santapaola. Eludendo il regime di sorveglianza, Ferone il 1 settembre dell’anno scorso sarebbe arrivato, non si sa come, a Catania. Per camuffarsi avrebbe utilizzato una parrucca bionda trovata ieri nella sua casa-rifugio nel Lazio. Poi sarebbe entrato in azione la sera stessa uccidendo a sangue freddo la donna proprio davanti la porta di casa. Di un uomo con i capelli biondi e i baffi parlò la figlia di Lella Minniti, che scampò miracolosamente all’agguato.
Sembra ormai certa la pista della vendetta mafiosa messa in atto contro i nemici storici dell’ex alleato del clan Savasta e contro il capo della mafia catanese Santapaola al quale Ferone pare attribuisse una sorta di responsabilità «morale» per non aver fatto nulla per fermare i killer che gli uccisero padre e figlio.
Ad avvalorare l’ipotesi che Ferone, avesse ancora solide radici a Catania, ieri mattina si è scoperto un arsenale, nascosto vicino la stazione ferroviaria. Dietro una finta parete, gli agenti hanno ritrovato 100 chili di plastico, 21 fucili, 23 revolver, 2 pistole e migliaia di munizioni, diverse divise della polizia, e patenti in bianco. I tre arrestati che farebbero parte del clan di Ferone, sono per adesso accusati di detenzione illegale di armi.
In serata i poliziotti hanno scoperto altri quattro arsenali.

 

 

 

Articolo da L’Unità del 4 Settembre 1996
«Voleva che Nitto si pentisse»
Il nipote di Ferone svela la trama dei delitti
Il delitto Minniti doveva servire a far pentire Nitto Santapaola, scatenando una reazione a catena che avrebbe distrutto l’organizzazione. Era il progetto del boss Giuseppe Ferone liberato dai testimoni che oggi lo accusano. Il racconto del nipote del boss che ha confessato di aver compiuto la strage del cimitero. «Mio zio mi disse che dovevo essere io a sparare per vendicare mio cugino. A volte mi faceva persino paura. Parlava solo di vendetta».

di Walter Rizzo

— CATANIA. «Se veramente avessi fatto tutte queste atrocità, meriterei la pena di morte, la fucilazione senza processo. Si era difeso così Giuseppe Ferone, il pentito catanese accusato di avere usato la collaborazione con lo Stato solo per compiere fino in fondo la sua vendetta contro coloro che avevano ammazzato suo padre e suo figlio. Non ha saputo indicare però un motivo valido per giustificare la valanga di accuse che gli hanno rovesciato addosso i due coniugi, S. P. M. ai quali aveva anche tenuto a battesimo il figlio, che lo hanno indicato come il killer della moglie di Nitto Santapaola e come il mandante della strage del cimitero.
Ferone ha raccontato una storia grottesca che non sta in piedi. «I nostri rapporti sono sempre stati affettuosi – ha detto – forse devo ritenere che queste accuse muovono da piccoli contrasti che si sono verificati con P. durante il suo soggiorno presso la mia abitazione e che dipendevano dal fatto che i suoi bambini buttavano  la palla all’interno del condominio e giocavano all’interno dell’abitazione».
Sul capo di Giuseppe Ferone adesso è arrivato il colpo di grazia che mette la parola fine anche sul giallo dell’assassinio della morte di Nitto Santapaola. Giuseppe Ravalli, il nipote del boss, ha deciso di vuotare il sacco davanti ai magistrati e lo inchioda definitivamente. Il ragazzo, che ha appena 18 anni, era scosso, turbato, non riusciva quasi neppure a leggere le carte che lo accusano del duplice omicidio del cimitero.
Ha parlato 45 minuti con l’avvocato Enzo Guarnera. Poi, davanti al magistrato, ha cominciato la sua lunga confessione. Sette ore dopo ha firmato i verbali che confermano le accuse dei coniugi contro Giuseppe Ferone. Ha ammesso di essere stato lui, su ordine di Ferone, ad uccidere una settimana fa, Santa Puglisi, la figlia 22enne del boss della Savasta, Nino Puglisi e il piccolo Salvatore Botta di 14 anni. Ha detto che il delitto venne organizzato in una casa di Motta Santanastasia in provincia di Catania, dove Ferone aveva stabilito una vera e propria base operativa segreta.
«Mio zio venne a Catania per organizzare l’omicidio». Dopo un sopralluogo, il boss gli dà l’ordine di uccidere. «Mi disse che dovevo essere io a sparare per vendicare mio cugino Enzo e mi diede una pistola con il silenziatore già montato». Ravalli era legatissimo al cugino e il figlio del boss venne ucciso praticamente sotto i suoi occhi. «Mio zio diceva in continuazione che dovevamo vendicarci, che era un dovere di tutta la famiglia. In alcuni momenti mi faceva persino paura. E mi disse che dovevo ammazzare tutti quelli che erano assieme a Santa Puglisi. Voleva che Nino Puglisi provasse la stessa sofferenza che aveva sentito lui quando gli avevano ucciso il figlio». Il giovanissimo killer racconta quindi la dinamica del suo primo delitto.
«Quando arrivai a meno di due metri dalla ragazza cominciai a sparare. Vidi che c’era anche un ragazzo ed una ragazzina. Ho sparato anche al ragazzo che stava scappando. Quando ho finito, la ragazzina però nonc’era più e così non l’ho uccisa».
Ravalli ha anche confermato le accuse dei due coniugi a Ferone sull’omicidio di Carmela Minniti. Ha detto di essere venuto a Catania assieme allo zio e di averlo quindi riaccompagnato nel Lazio subito dopo l’omicidio della moglie del capo di Cosa Nostra. Il dettaglio dell’omicidio Minniti viene invece riferito dai due testimoni. S. M. e la moglie portano, con la loro vecchia fiat Uno, Ferone, che indossava un giubbotto da caccia senza maniche con molte tasche, una parrucca e un cappellino con visiera, sotto casa della Minniti.
Il testimone ha raccontato di avere visto Ferone salire in casa della donna assieme a Maurizio Russo e Salvatore Guerino. «Trascorso qualche minuto vidi uscire di corsa Russo… nel frattempo udii in rapida successione alcuni colpi di arma da fuoco. Dopo qualche istante sopraggiunsero Ferone e Guerino, ciascuno impugnando un’arma». A sparare era stato però solo Ferone perché la semiautomatica di Guerino si era inceppata. Le due armi – ha raccontato il testimone – furono distrutte in una segheria del quartiere San Giorgio. «Ero presente quando su precisa disposizione di Ferone, Carmelo Pillera tagliò le due armi».
Dopo il delitto si ritrovano tutti a San Giorgio, in casa di Francesco Ferreri, dove Ferone organizza un singolare corteo di auto per farsi accompagnare a Messina agli imbarcaderi dei traghetti. «Disse che voleva subito ripartire per Roma – racconta S. M. – effettivamente così fu, avendo egli intrapreso il viaggio di ritorno accompagnato da Giuseppe Ravalli e da Salvuccio Guerino; sino a Messina venni accompagnato da mia moglie, da Franco Ferrari e dalla moglie di quest’ultimo». La presenza delle due donne doveva servire a far apparire il viaggio come un normale spostamento.
Successivamente Ferone avrebbe spiegato al testimone anche il suo progetto strategico. Il boss infatti con quel delitto voleva provocare una reazione a catena che distruggesse l’intera organizzazione. «Mi disse che l’omicidio Minniti era stato commesso per indurre Santapaola a collaborare con la giustizia, seguendo una tecnica di cui lui stesso era stato vittima attraverso gli omicidi di suo padre e di suo figlio».
Anche Maria Ravalli, la moglie di Ferone, avrebbe confermato ai due coniugi questo progetto: «La Ravalli mi disse che il marito era un falso pentito – racconta P. M. – nel senso che aveva intenzione di collaborare con la giustizia e contemporaneamente si proponeva di costituire un gruppo di suoi fedelissimi che avrebbe fatto operare a Catania per vendicare i lutti subiti… Si proponeva di tornare un giorno a Catania più forte di prima.

 

 

 

Dal libro: Dead Silent  Life Stories of Girls and Women Killed by the Italian Mafias, 1878-2018 di Robin Pickering Iazzi University of Wisconsin-Milwaukee, rpi2@uwm.edu

 

 

 

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