6 Marzo 1995 Palermo. Ucciso Domenico Buscetta, nipote di Tommaso. Vittima innocente di una vendetta trasversale

Foto da La Stampa dell’8 Marzo 1995

Domenico Buscetta, gioielliere di 45 anni è stato assassinato in un agguato, a Palermo, il 6 marzo 1995. Due killer gli spararono con una calibro 38 alla testa. Vittima di una vendetta trasversale.
Domenico era figlio di Vincenzo Buscetta, fratello di Tommaso, ucciso con il figlio Benedetto all’interno della sua fabbrica di specchi in viale Delle Alpi, a Palermo, il 29 dicembre dell’82, quindi prima dell’inizio della sua collaborazione, iniziata dopo il 1984 con il giudice Giovanni Falcone. Tommaso Buscetta fu il primo riconosciuto collaboratore di giustizia, principale testimone nel maxi processo di Palermo.

Vendetta trasversale, anche molti anni dopo l’inizio della collaborazione con la giustizia di Tommaso Buscetta, che ha avuto un ruolo decisivo per la ricostruzione della struttura organizzativa di Cosa nostra e di innumerevoli delitti.

 

 

Articolo di La Repubblica del 7.03.1995
GIUSTIZIATO IL NIPOTE DI BUSCETTA
di Franco Viviano

PALERMO – Ormai è guerra. Cosa nostra ha riaperto le ostilità, ha ripreso la mattanza contro i parenti dei pentiti. Ieri sera ha colpito Domenico Buscetta, 45 anni, nipote di Tommaso che per primo collaborò con lo Stato e che ieri ha rilasciato un’intervista a Repubblica. E’ stato assassinato in un agguato dopo le 19. Due killer gli hanno sparato con una calibro 38 alla testa. A Palermo è di nuovo emergenza e i magistrati Scarpinato e Lo Forte lanciano l’ allarme. La mafia non ha dimenticato, dopo anni di silenzio si è ricordata che ci sono ancora in giro parenti di quell’ “infame” che ha aperto il primo squarcio nell’ impenetrabile organizzazione, provocando il pentimento di altri capi e picciotti. Domenico Buscetta è stato ucciso mentre usciva da un bar. I sicari lo attendevano a bordo di un’ auto sulla quale sono poi fuggiti. Il nipote dell’ ex boss dei due mondi è stato ucciso a pochi metri di distanza da dove, dieci anni fa, venne assassinato in un agguato il capitano dei carabinieri Mario D’ Aleo e altri due militari. La vittima, che non aveva precedenti penali, era figlio di Vincenzo Buscetta, fratello di Tommaso, ucciso con il figlio Benedetto all’ interno della sua fabbrica di specchi in viale Delle Alpi, a Palermo, il 29 dicembre dell’ 82. La mattanza contro il pentito, però, era cominciata già l’ anno precedente, nell’ 81, quando un commando di sicari venne inviato a Torino per assassinare Mariano Cavallaro, fratello della prima moglie di Tommaso Buscetta. Un anno dopo, l’ 11 settembre dell’ 82, scomparvero i due figli di Tommaso Buscetta, Benedetto e Antonio, 34 e 32 anni, nati dal matrimonio con Domenica Cavallaro. Erano usciti da casa sulla loro Volvo appena acquistata e di loro non si seppe più nulla. Non venne trovata nemmeno la macchina. I due figli di Buscetta erano “entrati” nelle indagini antimafia perché avevano ricevuto 54 banconote da centomila lire provenienti dal sequestro di Armellino. I soldi li avevano avuti da Pippo Calò, che però non aveva detto ai due che si trattava di banconote segnate, provenienti da un sequestro di persona. La vendetta trasversale riprese poi il 26 dicembre dell’ 82, quando furono uccisi il genero di Buscetta, Giuseppe Genova e due suoi nipoti, Orazio e Antonio D’ Amico, di 20 e 22 anni. Il triplice delitto avvenne a Palermo, vivino la statua della Libertà, dove Genova gestiva una pizzeria. Alla cassa era seduta sua moglie, Felicia, figlia di don Masino, che venne risparmiata dai sicari che probabilmente non la conoscevano. Tre giorni più tardi furono uccisi Vincenzo Buscetta e suo figlio Benedetto, fratello e nipote di don Masino. I due Buscetta furono colpiti nel loro laboratorio artigianale di vetreria in viale Delle Alpi, dove continuavano la tradizione di famiglia: vetrai come il padre e il nonno, un’ attività alla quale anche Tommaso Buscetta era stato avviato da ragazzo e che aveva cercato di trasferire durante un periodo trascorso da emigrato a Buenos Aires. Quasi contemporaneamente all’ uccisione del fratello e del nipote a Palermo, in Florida furono assassinati Giuseppe Tramontana che era stato testimone di nozze di Buscetta ed un amico del pentito, Tommaso Romano. Infine, il 7 dicembre del 1984 la vendetta trasversale colpì a Bagheria Pietro Buscetta, marito della sorella del pentito, Serafina, che sfuggì per caso ai killer. Da allora sembrava che Cosa nostra avesse dimenticato, che avesse deciso di interrompere le vendette trasversali, di non fare più rumore nella speranza che la pressione dello Stato si allentasse. Invece negli ultimi anni la giustizia ha colpito duramente. Su capi e gregari di Cosa nostra sono piovute pesanti condanne, Riina ha già tre ergastoli sulle spalle, la repressione si è fatta più dura ed il 41 bis, il regime del carcere duro, è stato prorogato. Cosa nostra ha così deciso di riprendere le ostilità e in meno di un mese sono già sette i morti ammazzati a Palermo. La prima vittima, Giusto Giammona, 23 anni, assassinato a Corleone il 28 gennaio; un mese dopo, stessa sorte per la sorella, Giovanna e per il marito Francesco Saporito. Poi la lupara e le 38 colpirono il figlio del boss Gaetano Grado e nipote di Totuccio Contorno, Marco Grado, assassinato con un amico. Il 26 febbraio venne giustiziato Francesco Brugnano, indicato come confidente del maresciallo dei carabinieri Antonino Lombardo, morto suicida sabato. Ieri la vendetta di Cosa nostra ha colpito il nipote di Tommasino. La mattanza continua. Ed è allarmato Roberto Scarpinato, sostituto procuratore a Palermo e pubblico ministero del processo a Giulio Andreotti: “Bisogna fermare questa macchina di morte che si è messa in moto con un’ impressionante violenza. Bisogna capire con certezza qual è, al di là dei suoi obiettivi parziali, il bersaglio finale. Potrebbero prepararsi eventi molto gravi”. E gli fa eco Guido Lo Forte, procuratore aggiunto: “Dico no a facili ironie sui pentiti, che quando decidono di collaborare firmano la loro condanna a morte. Quella in atto è un’ offensiva contro di loro”.

 

 

Articolo da La Stampa del  8 Marzo 1995
Dopo il massacro di Palermo, il «superpentito» abbandonerà definitivamente l’Italia
Buscetta: ho quei morti sulla coscienza «Schiacciato da un rimorso che non trova consolazione»
di Francesco La Licata

PALERMO «Sto come può facilmente immaginare chiunque abbia un po’ di sensibilità. Sto male, molto male. Sono affranto, distrutto. Mi sento schiacciato da un rimorso senza possibilità di consolazione». L’inconfondibile voce di don Masino, al telefono sembra ancora più grave e profonda del solito. Le parole, quasi rubate, sono intervallate da lunghi silenzi, interminabili attimi durante i quali il respiro affannoso del «grande pentito» tradisce l’emozione. «Mi sento colpevole, sono io il responsabile di tanto dolore, della tragedia della mia famiglia. Penso a questo destino che è una maledizione». Don Masino rifiuta, in queste poche battute, il conforto degli argomenti di circostanza, i tentativi di trovare giustificazioni nel prezzo da pagare per una scelta coraggiosa come quella di collaborare. E’ brutale con se stesso, quando afferma di non volersi nascondere «la realtà dei fatti così come io la vivo». E qual è questa terribile realtà? «La mia famiglia – si sfoga Buscetta – è vittima di una strage. L’autore di questa strage sono io, capisce?». Non dev’essere indifferente il peso che grava sull’anima del pentito, contro il quale, a distanza, si scaglia un parente, Antonio Buscetta, che dice: «Se è un uomo dovrebbe suicidarsi». Un chiodo fisso, per don Masino, che è venuto fuori puntualmente, ogni volta che ha accettato di raccontare la sua storia o di motivare la scelta di abbandonare Cosa Nostra per schierarsi con «gli uomini onesti». La scena dell’agguato a Domenico Buscetta, nipote del «superpentito». Ho incontrato più di una volta Tommaso Buscetta e l’ho visto sempre arrovellarsi per l’impossibilità di poter preservare «quegli innocenti che hanno solo la colpa di essermi parenti». «Ho interrotto del tutto i rapporti con chiunque. Mi sono perfino privato di una telefonata, del conforto di una voce familiare per non mettere a repentaglio la vita di nessuno. Non basta, non è bastato». Questa volta il dolore di don Masino appare ancora più grande, forse perché giunge a distanza di tanti anni dalle prime rappresaglie. Ma lui lo sa, l’ha sempre detto che la mafia non dimentica. «Hanno la memoria degli elefanti, quelli lì. Non scordano nulla, dovessero trascorrere secoli». «Cosa vuole che le dica», risponde adesso al telefono. «L’ho detto anche al dottor Biagi con cui ho parlato oggi: chiedo perdono a tutti. So che non potrò mai togliermi questo peso dalla coscienza, non riesco a scacciare dalla mente che l’autore di questa strage sono io». Poi si ferma un attimo e aggiunge, secco: «E lo Stato italiano». E’ deluso, don Masino. Per un momento sembrava che tutto andasse nella direzione giusta, si aspettava solo di sferrare il colpo decisivo alla Piovra, ma improvvisamente «lo Stato ha fatto un passo indietro». «Che errore imperdonabile», insiste Buscetta tradendo tutto il disagio di chi non vuol recitare la parte della «Cassandra che l’aveva previsto». «Eravamo vicinissimi al traguardo, troppe indecisioni, troppe divisioni ci hanno tragicamente riportati indietro, facendoci ripiombare nel sangue e nel lutto». Anche questi temi, la lotta alla mafia, l’incostanza dello Stato nella battaglia vitale per la comunità, la necessità di non mollare mai l’attenzione verso Cosa Nostra, Buscetta ha sempre tenuto ben presenti, ricordando a tutti quanto sosteneva il suo «grande amico» Giovanni Falcone e cioè che la carta vincente contro la Piovra era soltanto un «normale impegno quotidiano», contrapposto al regolare ricorso alla eccezionalità, tanto velleitaria quanto inutile. Una sera don Masino ne parlò davanti a una spigola bollita, ribadendo la sua tesi: «I corleonesi non hanno più avversari, vedrete che ritorneranno a fare il bello e il cattivo tempo. La calma è sempre apparente e imposta per motivi strategici. Verrà il momento che i loro sistemi cruenti torneranno in auge». «So perfettamente che cercheranno di farmi fuori – spiegò freddamente come se stesse parlando di una persona diversa da lui – con ogni mezzo. Hanno ucciso Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, non possono non chiudere il cerchio con me. Spero di rendergli l’impresa difficile». Don Masino era in Italia perché richiesto da un numero eccessivo di tribunali. Tornava a riassaporare il tepore delle giornate primaverili, per un momento, forse, si illudeva che la sua vita, in qualche modo, potesse riacquistare normalità. Era perfino tentato di scegliere l’Italia come approdo per una vecchiaia che lui vorrebbe più serena di quanto siano state la giovinezza e la maturità. Sono bastate poche settimane per fargli capire definitivamente come la realtà sia lontana dalle illusioni. Don Masino, raccontano indiscrezioni attendibili, non può più passare inosservato, non diciamo a Palermo, ma nella maggior parte delle regioni d’Italia. L’ex «boss dal volto umano» ha dovuto cambiare casa più d’una volta e ogni volta perché risultava pericolosamente indebolita la rete di protezione attorno a lui. Ogni volta perché era venuta meno l’unica vera garanzia di sicurezza: l’anonimato. Raccontano che don Masino è stato riconosciuto dal negoziante che gli stava vendendo un vestito, da un operaio della Sip che era andato ad attaccargli il telefono, dal bottegaio di uno dei quartieri romani che ospitava uno dei suoi primi «covi». Certi «incidenti» si sono ripetuti anche in altre città, ogni volta che il pentito ha cercato di vivere una vita normale, andando al ristorante, al cinema o soltanto a passeggio. Figurarsi ora, che Cosa Nostra lo ha «riscoperto» e posto in cima al peggiore dei «cattivi propositi». Sarà per questo che ha deciso di abbandonare nuovamente l’Italia? Sì, perché don Masino va via, questa volta forse proprio per sempre. «Io mi sono posto il problema – dice al telefono – e ho deciso di rimettermi alle decisioni di chi è responsabile della sicurezza mia e della mia famiglia. Tutti mi dicono che me ne debbo andare per il bene di tante persone e non soltanto per la mia sicurezza personale. Sì, me ne vado».

 

«Scorrerà altro sangue»
Caselli: i pentiti nel mirino dei clan
di Giuseppe Zaccaria

PALERMO. Prepariamoci ad una fuga verso il passato, a rivivere vicende laceranti che frantumeranno ancora il fronte politico e civile. In Sicilia stanno accadendo cose indecifrabili e feroci: «Il sangue delle stragi di Falcone e Borsellino sembrava aver colmato il fossato culturale che ci separava da una certa Italia», dice severo il procuratore capo di Palermo, in una conferenza stampa che mai era slata convocata con tanta solennità. Tutti quei morti, invece, non sono bastati: «Sono mesi – continua il procuratore – che cerchiamo di segnalare il montare di una campagna contro i collaboratori di giustizia. In alcune delle sue componenti il dibattito su questo problema è apparso sgangherato e protervo con frequenti distorsioni, se non falsità, nella prospettazione dei dati. Il pericolo che abbiamo sempre segnalato è quello della sostanziale delegittimazione delle radici di questo prezioso strumento di lavoro». Ed al rischio di questa «delegittimazione» la Procura di Palermo deve sentirsi particolarmente vicina, se perfino una persona equilibrala come Caselli oggi parla sprezzante di tale Giulio Andreotti come di «un soggetto rinviato a giudizio per associazione mafiosa che rende affermazioni rapportabili unicamente alla categoria delle allusioni». Forse davvero nelle cose palermitane la storia sta ingranando la marcia indietro. Era una sensazione, fino a ieri: adesso è come se le cose stiano subendo una tragica accelerazione. Basta ripercorrere le cronache degli ultimi giorni: prima il rinvio a giudizio di Andreotti, accompagnato da una ripresa della «mattanza», poi il suicidio del povero Lombardo, infine l’ondata di assassinii culminata nell’eliminazione del nipote di Buscetta. E ieri, improvvisa, la sortita pubblica di Caselli e dell’intero staff antimafia, coi giudici Lo Forte, Croce e Aliquò. Aveva fissato un’intervista, il procuratore, che aveva condotto Enrico Mentana fino a Palermo. Dev’essere accaduto qualcosa di molto grave per spingere Caselli ad annullare l’appuntamento e ad uscirsene in questa pubblica dichiarazione d’allarme. «Volevo fare alcune considerazioni – esordisce – sulla campagna terroristica che indubbiamente è in corso ad opera di Cosa Nostra. Una campagna che ha diversi obiettivi, come dimostra l’omicidio del nipote di Tommaso Buscetta: uno dei principali è di colpire il contributo che danno alle indagini i collaboratori di giustizia». Fin qui, si direbbe, nulla di nuovo. Perché allora tanta solennità? Lo si potrà intuire, poco dopo, più dai silenzi che dalle risposte, fino all’ammissione di Lo Forte: «Qui stanno accadendo cose che non erano mai successe prima: mafiosi che si costituiscono, come non capitava neanche per chi dovesse scontare condanne di pochi mesi. Lo scardinamento di ogni convenzione…». Fa un esempio illumiminante, il giudice: qualche anno fa a Felicia, una delle sorelle di Tommaso Buscetta, toccò dissociarsi dalle scelte di quel suo parente «infame». L’antico «boss dei due mondi» raccontò di aver dovuto pagare la sua scelta anche in questo: non solo gli assassinii di figli e congiunti, ma anche l’affetto di una sorella così platealmente denegato. Ecco, adesso quella moratoria non esiste più: non basta più «dissociarsi» da chi tradisce Cosa Nostra. «La campagna terroristica sta colpendo tutti». Siamo però ancora alle constatazioni: reiterate, rafforzale, eppure già espresse. Ma ecco che lentamente le parole di Caselli cominciano ad assumere coloriture più forti. Il procuratore sottolinea come le picconate contro il suo ufficio abbiano assumo intensità particolare quando un documento zeppo di falsità (il cosiddetto «dossier Di Maggio») ò finito nelle mani di un esponente di An, l’avvocato Fragalà, ed è stato diffuso alimentando polemiche sui «pentiti». Chiariamo: più che di un falso si trattava di un abile montaggio che però secondo Caselli ha scatenato una campagna «che ha profili di illiceità e irresponsabilità, visto che si è trattato di un depistaggio vero e proprio. Anche se non sappiamo ancora a chi riferirla, è una vicenda che ha il sapore di vecchi e sporchi meccanismi». A cosa ha condotto, poi, questa strana campagna? Al fatto che i giudici sono stati costretti a rivelare «delicati meccanismi d’indagine, con gravi pericoli per i collaboratori di giustizia, i loro parenti, magistrati e carabinieri». Attenzione a questo passaggio: Caselli cita i carabinieri accanto ai magistrati, quasi a rimarcare come la collaborazione non si sia interrotta. Diverse domande, più tardi, riguarderanno il ruolo dei carabinieri (meglio, di un carabiniere: il maresciallo Lombardo) nelle indagini più delicate: dal caso Andreotti al delitto Pecorelli, su cui Lombardo aveva lavorato anche negli Usa. Quanto però al collegamento fra il suicidio del maresciallo e la nuova «matanza», risparmiamo l’elenco dei «sarei pronto ad escluderlo» o dei «allo stato non ci risulta». Qualsiasi proiezione sarebbe temeraria. Non è questo il punto: quel che spinge l’attenzione verso i livelli di guardia è il fatto che la campagna di «delegittimazione» continui. E soprattutto, stranamente, il fatto che oggi Andreotti interpellato a Reggio Calabria non si difenda con fatti ma con allusioni. Su questo Caselli è molto preciso: il «soggetto» non ha parlato «esercitando un sacrosanto diritto alla difesa ed alla manifestazione del pensiero, non ha indicato fatti specifici. Quello che abbiamo il dovere di dire – conclude Caselli – è che l’amplificazione acritica di certe posizioni non può non condurre a risultati tragici». Scopriremo presto quali, purtroppo. Nell’inarrestabile marcia verso il passato, sembra tornare d’attualità l’esordio di un vecchio libro di Marcelle Padovani. Si raccontava come, nell’arrivo a Palermo, la prima cosa che colpisce sia il contrasto tra accecanti lame di luce ed enormi, pesanti nuvoloni neri. Ecco: oggi da quei nuvoloni la città appare ricoperta. Dicono che dopo la «cutuliata», quei colpi al ramo che servono a far cadere i frutti già maturi, si attenda il colpo più grosso, l’omicidio eccellente. Sapete qual è, forse, la sintesi dell’attuale momento palermitano? il necrologio apparso ieri sul «Giornale di Sicilia». Dice: «La quasi totalità dei dipendenti comunali di Terrasini si unisce al cordoglio per la morte del maresciallo Antonino Lombardo».

 

 

 

Articolo del 7 Marzo 1995 da  archiviostorico.corriere.it
Ucciso il nipote di Buscetta
Palermo, la mafia colpisce il grande pentito. E a Catania strage in piazza: tre morti. Rabbia ai funerali del maresciallo suicida.
Il cognato: assassinio calcolato da tempo.
Cosa Nostra insanguina la Sicilia. Accuse e difese per i processi in tv.

Cosa Nostra ha dichiarato ancora guerra. Un’ altra vendetta delle cosche contro Don Masino. È stato ucciso ieri sera Domenico Buscetta, 45 anni, nipote del pentito storico di Cosa Nostra. Il killer lo aspettava nei pressi del suo negozio di gioielliere vicino alla circonvallazione. Il commerciante aveva appena chiuso il negozio e stava per mettersi al volante della sua auto quando il sicario gli ha sparato. Il padre e il fratello della vittima, Vincenzo e Benedetto Buscetta, erano stati uccisi dai clan nell’ 82 dopo il pentimento di Don Masino. Nell’ arco di 10 giorni sono otto le persone uccise a Palermo. “Bisogna fermare questa macchina di morte che si è messa in moto. Potrebbero prepararsi eventi molto gravi”, dice il giudice Roberto Scarpinato. Mattanza di mafia anche in provincia di Catania. Tre persone uccise, una quarta sfuggita alla morte, e un handicappato ferito di striscio ieri pomeriggio nella piazza principale di Gravina. Un inferno di fuoco sotto gli occhi di decine di testimoni che, terrorizzati, si sono chiusi nel silenzio. Due delle vittime erano affiliate al clan del boss pentito Giuseppe Pulvirenti. L’ agguato potrebbe dunque segnare l’avvio di una cruenta faida all’ interno di una delle cosche più spietate. Tutta la provincia di Catania è stretta d’ assedio dalle forze dell’ordine. Tre persone sono state fermate. Rabbia a Terrasini, ai funerali del maresciallo suicida Antonino Lombardo: il cognato, il tenente dei carabinieri Carmelo Canale, parla di assassinio calcolato da tempo. E divampa la polemica sui “processi” in televisione.

 

 

 

Articolo da archiviostorico.corriere.it
Mafia scatenata, colpito Buscetta
di Felice Cavallaro
Il commerciante è stato assassinato all’interno della sua auto. Anche il padre e il fratello della vittima ammazzati dalle cosche “Sono obiettivi parziali, bisogna capire quale è il bersaglio finale”. Il pm Scarpinato: siamo al Far West.

La vendetta dei boia di Cosa Nostra s’abbatte sul pentito più odiato dai mafiosi e a Palermo, al culmine di una settimana bagnata di sangue, viene ucciso un nipote di Tommaso Buscetta, conferma di una “campagna” antipentiti che ammorba l’aria di una Sicilia dove si teme il peggio. Perché’ la mafia sembra aver dato via libera a chi vuol fare tuonare lupare e calibro 38, come era stato impedito per qualche tempo. Si torna in guerra. Torna il tempo del terrore. E si può uccidere ogni giorno, come succede a Palermo. Si può fare una strage, come è accaduto ieri a due passi da Catania. Otto morti in dieci giorni nel Palermitano. Arriviamo a undici con i tre di Gravina, e a dodici con il cadavere di Maurizio Strano trovato ieri sera in un’auto a Siracusa, a pochi metri dalla caserma dei carabinieri. E si possono saldare vecchi conti aperti con pentiti del calibro di Don Masino, continuando lo sterminio dei suoi parenti, dei suoi amici. Per fargli terra bruciata attorno e convincerlo a desistere dalle rivelazioni, consegnate in modo incompleto a Falcone, i corleonesi di Totò Riina bruciarono vivi due suoi figli, Antonio e Benni, spararono a cognati, generi e nipoti, compreso il fratello Vincenzo, il vetraio assassinato con uno dei suoi figli e padre della vittima di ieri sera: Domenico Buscetta, 45 anni, Domingo per tutti i suoi conoscenti perché’ nato in Spagna, un gran lavoratore, come dicono i commercianti con negozi vicini alla sua gioielleria, la “Eastmeed” di viale Regione Siciliana, all’ altezza del Motel Agip, dove l’ agguato è scattato poco dopo le 19. È accaduto tutto a due passi da dove era stato ucciso il capitano D’Aleo nell’ 83. Abbassata la saracinesca e comprati dei pasticcini, Domingo ha avuto il tempo di entrare nella sua Audi. Poi il finimondo con i killer che gli sparano in testa, la gente che accorre, un’ambulanza per salvarlo, la morte in ospedale. Dopo gli omicidi di due ragazzi legati al pentito Totuccio Contorno e dopo che un boss vicino ai Grado ha preferito uscire dalla latitanza e rifugiarsi in carcere, questo nuovo delitto diventa la drammatica conferma di una “campagna” e di una sfida lanciata nella città presidiata dalle camionette dell’esercito proprio il giorno del vertice sull’ ordine pubblico con sottosegretario agli Interni, capo della polizia, della Dia, della Superprocura, tutti riuniti in Prefettura. Molti pensano a una bestia ferita, ancora più pericolosa perché non è riuscita ad agganciare pezzi dello Stato come era abituata a fare. Non si modifica il 41 bis. Resta il carcere duro fino all’ anno Duemila. Le campane suonano a morto e i rintocchi non vengono considerati come il segnale di regolamenti di conto fra gruppi rivali. No, qui c’è un leit motiv che richiama bene altre stagioni concluse poi con lutti eccellenti. Andò così con l’”operazione Carlo Alberto” quando il giornale “L’ Ora” usciva ogni pomeriggio contando gli omicidi con un numero a caratteri cubitali in prima pagina, 97, 98, 99… E poi toccò a Dalla Chiesa. E questo il quadro che crea allarme e terrore alla Procura di Palermo dove il sostituto Roberto Scarpinato trae un suo spunto di riflessione davanti al delitto di un Buscetta: “Bisogna fermare questa macchina di morte che si è messa in moto con un’impressionante violenza. “Bisogna capire con certezza qual è, al di là dei suoi obiettivi parziali, il bersaglio finale. Potrebbero prepararsi eventi molto gravi”. E cupo il volto di questo magistrato abituato a non considerare mai una singola tessera del mosaico, ma a studiarne l’insieme: “Ci sono tre elementi che si sommano in maniera estremamente inquietante: il luogo, il tempo e la qualità delle vittime. “E significativo che in una città presidiata dall’ esercito si commettano omicidi in pieno centro, ormai trasformato in una sorta di Far West. Quando ciò accade, anche nel giorno del vertice sull’ ordine pubblico, non può non concretizzare un atteggiamento di sfida di Cosa Nostra”. Altri elementi significativi per Scarpinato sono costituiti “dalla cadenza temporale di questi fatti di sangue”, da un loro possibile collegamento e dalla “qualità ” delle vittime: “Due di esse sono parenti di pentiti. Se la “macchina” non verrà fermata travolgerà probabilmente altre persone. Bisogna capire qual è il suo obiettivo finale”.

 

 

 

 

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