12 Ottobre 1983 Lamezia Terme. Rapito Giuseppe Bertolami, florovivaista di 58 anni.
Giuseppe Bertolami, rapito la sera del 12 ottobre 1983, all’età di cinquantotto anni. Originario della Sicilia, viveva da anni in Calabria dove, nella provincia di Lamezia Terme, aveva aperto insieme al fratello l’attività di florovivaista, dando lavoro a qualche centinaio di persone. Non è molto in salute pertanto la famiglia avvia fitti negoziati per cercare di abbassare la cifra, iniziale di quattro miliardi, a cui non possono far fronte. Le trattative proseguono, tra lunghi silenzi e lettere che provano l’esistenza in vita dell’ostaggio, fino ad aprile dell’anno nuovo, poi più nulla. Nonostante i ripetuti appelli della famiglia il corpo non è mai stato ritrovato
Articolo del 23 Dicembre 1984 da L’Unità
Da 15 mesi e nelle mani della mafia. Disperato appello di suo fratello
di Filippo Veltri
Giuseppe Bertolami fu rapitoo alla periferia di Lamezia Terme – Un anno e mezzo d’angoscia – La vicenda di Enza Rita Stramandinoli
Lamezia Terme – Mentre parla, nel grande hangar-capannone della sua azienda dove si stanno ultimando le spedizioni di agrumi per le feste di Natale, Antonino Bertolami piange. Non fa niente per nasconderlo. Nel dialetto ancora così marcatamente siciliano — nonostante i trenta e passa anni che ormai vive in Calabria — lancia l’ultimo appello ai rapitori del fratello Giuseppe, 59 anni, in mano all’anonima sequestri ormai da oltre quindici mesi. Un record, un triste primato. «Fateci sapere cosa gli è successo, se è vivo o è morto, ma fateci sapere qualcosa», dice fra le lacrime.
È una storia amara nella Calabria tormentata dai sequestri di persona, quella di Giuseppe Bertolami e della sua famiglia, di questo incredibile anno e mezzo passato nell’angoscia di sapere qualcosa, di un segnale, di un passo che possa riaprire — se non altro — la speranza. Una storia emblematica di un dramma purtroppo non isolato ma assai vasto che in queste stesse ore altre tre famiglie calabresi vivono con eguale intensità. a madre di Enza a Stramandinoli,la ragazza di sedici anni di Dasà (CZ) rapita una settimana fa ha rivolto, ad esempio, un altro appello ai rapitori della figlia dichiarandosi disposta a sacrificare anni e anni di duro lavoro «pur di riavere al più presto la sua bambina». Parole toccanti lanciate nell’immediatezza delle feste natalizie nella convinzione, forse ingenua, che ci si lasci commuovere dal clima o da altro. Ma le «regole» della mafia sono improntate a ben altri sentimenti e proprio , del resto, se ne è avuta conferma con l’ennesimo tentato sequestro a Dinami, a soli quattro chilometri da Dasà, dello studente Raffaele Cartiere, sedici anni, fallito solo per la presenza di spirito del giovane che si è buttato in una scarpata mentre tre persone cercavano di caricarlo su una Mercedes.
Giuseppe Bertolami fu rapito alla periferia di Lamezia la sera dei 12 ottobre del 1983 mentre, lasciata l’azienda che gestiva assieme ai fratelli proprio vicino agli stabilimenti della ex Sir, rientrava a casa.Azienda assai florida quella dei quattro fratelli Bertolami, originari di Mazzarà Sant’Andrea, un piccolo paese della provincia di Messina, braccianti all’origine, poi moderni imprenditori dell’agricoltura nella Piana di Lamezia. la loro azienda è oggi indicata a modello. Nel grande capannone dove Antonino Bertolami riceve i giornalisti tutto è al posto giusto. Sul lato finanche un laboratorio di analisi e di ricerca sugli innesti di nuovi agrumi, un capolavoro nel suo genere che però è rimasto a metà. «Cosa vuole! Dopo il rapimento di mio fratello tutto si è rallentato, investimenti, ricerche, nuove produzioni», dice il cavaliere del lavoro Antonino. Subito dopo il rapimento tutto è pesato sulle spalle di quest’uomo, dal volto profondamente scavato dalla fatica e dalla sofferenza. Le prime richieste di pagamento gli arrivano verso la fine di ottobre. Sono cifre da capogiro, ma lui non si tira indietro. Allaccia i contatti, tiene legati i rapitori, cerca di trattare. Spera che la faccenda si possa risolvere subito, nel giro di qualche mese, che per Natale si possa tutti quanti festeggiare il rilascio di Giuseppe. Ma passa Natale, Capodanno e l’anno nuovo comincia sotto il segno del precedente.
Telefonate, richieste, minacce: tutto il tradizionale cinico copione, insomma, che sì segue in tutti i equestri di persona. Ad aprile finalmente il fatto nuovo. Fra Antonino Bertolami e i rapitori del fratello si concordano cifra e luogo per il pagamento del riscatto. Anche qui copione rispettato per l’incredibile «via crucis» che familiari del rapito sono costretti a rispettare. Al posto stabilito si recano infatti per più sere consecutive, con in macchina il denaro, senza che nessuno si faccia vedere. Si temono imboscate della polizia, pedinamenti e quindi per più giorni — alcuni per settimane intere — nel cuore della notte si cammina su e giù in attesa dell’intercettamento, dello scambio. Per Antonino Bertolami questo momento non giunge mai. Anzi il 17 aprile gli arriva in azienda una telefonata che lo avverte di bloccare tutto. Per momento non se ne fa niente, tutto è rimandato a tempi migliori. Bertolami pensa a un momentaneo contrattempo, aspetta di riprendere i contatti, ma quella sera del 17 aprile 1984 resta l’ultima telefonata che gli è arrivata dal rapitori del fratello. Da allora più niente, silenzio assoluto. Cosa sia successo non si sa. I pensieri e l timori sono tanti, anche quelli di un incidente. Antonino Bertolami non sa oggi cosa dire, ma non sanno che pesci prendere neanche gli inquirenti di Lamezia. Un sequestro strano, senza dubbio. Problemi all’interno della banda dei rapitori? Può essere e molti mettono in relazione al sequestro Bertolami un sanguinoso regolamento di conti avvenuto dentro la mafia lamentina. Ma di queste cose, ovviamente, ad Antonino Bertolami non interessa granché. Lui pensa al fratello, a cosa gli può essere successo a questi allucinanti quindici mesi.
Articolo del 13 Ottobre 1985 da L’Unità
«Solo qui sequestri impuniti »
Lamezia Terme — «Non posso riferire fatti specifici perché non ne sono a conoscenza. Posso però dire che le indagini sul sequestro di mio fratello hanno fatto emergere le lacune dello Stato nell’opera di prevenzione in Calabria dei fenomeni di criminalità organizzata. Per battere la mafia ci vuole più impegno. Altrimenti il Sud rischia di sprofondare sempre di più». E quanto ha detto ieri nel corso di un incontro con i giornalisti Antonino Bertolami, titolare di un’azienda florovivaistica di Lamezia Terme, fratello di Giuseppe Bertolami, di 60 anni, rapito il 12 ottobre del 1983 e del quale non si hanno più notizie. «Ciò che non riesco a spiegarmi — ha aggiunto Antonino Bertolami — è perché i sequestri che avvengono al Nord, nella gran parte dei casi, si risolvono con la liberazione dei rapiti da parte delle forze dell’ordine mentre qui in Calabria questo avviene molto raramente».
Articolo del 17 Aprile 1992 da L’Unità
Platì, scoperto un «cimitero dell’Anonima»
Sepolti alcuni ostaggi mai liberati?
Tre magistrati sorvegliano gli scavi. L’informazione verrebbe da un “pentito”.
Platì (Reggio Calabria) Un pool di magistrati da alcuni giorni sta direttamente seguendo a Platì – il paesino dell’Aspromonte jonico considerato una delle grandi capitali dei sequestri – i lavori di scavo su un terreno dove sarebbe stato individuato un vero e proprio cimitero dell’Anonimma squestri.
Il “camposanto dell’anonima”, come lo ha già sorpannominato la gente, è qualche centinaio di metri più in su delle ultime case del paese. Un fazzoletto di terra accanto al cimitero vero, quello con il grande cancello in ferro battuto e la scalinata piana che si apre a destra della strada che s’inerpica come un serpente nervoso verso i misteri dell’ Aspromonte. Forse qualcuna delle vittime mai tornate è stata stretta in qualche nicchia lì dentro, tra le tombe, una accanto all’altra, i cui nomi ricordano agguati fatti scattare o subiti, storie di killer e di morti ammazzati.
Le forze dell’ordine presidiano tutta la zona con le armi in pugno. Impossibile avvicinarsi. Niente da fare, neanche per i giornalisti. Laggiù, nella piazzetta sbilenca di Platì, s’è intanto sparsa la voce che tutto quello spiegamento c’è non soltanto per scavare in pace, ma anche perché, da qualche ora, sarebbe stato portato fin lassù, a guidare picconi, pale e ruspe, il pentito che sta vuoando il sacco sui segreti della ‘ndrangheta. Sarebbe informatìssima questa nuova ed insospettabile “gola profonda”, depositaria dell’inventario di organigrammi delle cosche e protettori politici, di delibere illecite e miliardarie e degli uomini che le hanno spinte avanti, dei grandi traffici della droga, gli appalti, i rapimenti dell’Anonima. I magistrati smentiscono con nettessa. Non ci sarebbe nessun pentito. Anzi, aggiungono, ogni voce di questo tipo potrebbe essere pericolosa e spingere a vendette dirette o trasversali. Ma la voce, nonostante le smentite, continua a correre.
Alla scoperta del “camposanto dell’Anonima” stanno lavorando tre diverse procure. Ieri, nella zona, c’erano Agostino Gordova, procuratore di Palmi; il sostituto di Locri, Nicola Gratteri; quello di Lamezi Terme, Luciano D’Agostino. E proprio la presenza di quest’ultimo ha bruciato gli ultimi dubbi: dal “camposanto dell’Anonima” dovrebbe riemergere il povero corpo di Giuseppe Bertolami, uno dei tre fratelli titolari della più grande azienda florovivaista della Calabria. Bertolami, 58 anni, fu inghiottito la sera del 12 Ottobre del 1983 mentre con la sua Fiat 132 tornava a Lamezia. Solo l’ipotesi che si stia cercando lui può spiegare la presenza tanto lontano dalla propria giurisdizione del magistrato lametino.
La stessa presenza del dottor Cordova, se si tiene conto che nessuno dei sequestrati che non hanno fatto ritorno negli ultimi 15 anni era originario di Palmi, può spiegarsi solo ipotizzando che gli investigatori siano arrivati fin lì partendo da un’indagine connessa alle vicende di questo paese. I collegamenti di mafia tra la zona di Palmi, che coincide con la zona di Gioia Tauro, e la Locride, del resto non sono cosa nuova. Lo slesso blitz contro i bossprocacciatori di voti alle ultime elezioni politiche, scattato pochi giorni prima delle elezioni del cinque e sei aprile, era stato firmato in modo congiunto da Cordova e Gratteri. E nella maxi-inchiesta su droga, armi e traffico di voti scattata lo scorso 3 dicembre erano rimasti impigliati, assieme ai boss di Rosarno, i clan della ‘ndrangheta che controlla la locride.
Articolo del 2007 da win.lameziaweb.biz
Lettera-denuncia di Aurelia Bertolami
Lamezia Terme – «Non m’è rimasta alcuna speranza, ma solamente debiti e disperazione». Aurelia Bertolami scarica 24 anni di incubo su tre pagine inviate alla Gazzetta del Sud: prima il rapimento del padre Giuseppe Bertolami, titolare di una delle più grandi e floride aziende agricole della Piana, poi il lungo elenco di danneggiamenti, furti, incendi, chiare intimidazioni mafiose sulla terra di famiglia.
«Nessun aiuto è stato dato per il sequestro di mio padre», scrive la figlia di Giuseppe Bertolami, «e non ho mai avuto la possibilità di assicurare i beni, per cui nessun risarcimento ho mai avuto. D’altra parte i fatti, la continuazione, l’accanimento continuo ed insistente dimostrano inequivocabilmente la natura estorsiva».
Quello di Aurelia Bertolami più che un appello disperato di una vittima della ‘ndrangheta, è un atto d’accusa contro lo Stato. E la signora rimane colpita dal fatto che la Direzione investigativa antimafia catanzarese abbia aperto un’indagine sugli affari sospetti delle più forti cosche della ‘ndrangheta calabrese sui preziosi terreni del Lametino. «Ho appreso dalla Gazzetta del Sud del 23 gennaio scorso che la criminalità organizzata allunga le mani sulla Piana acquistando terreno a prezzi esorbitanti. C’è da rimanere perplessi. Allo stato in cui è ridotta non ho ricavato niente dalla mia azienda, nè ricaverò qualcosa in futuro, perciò avrei venduto a qualsiasi prezzo per l’esasperazione. Ma il fatto vero», è l’amara constatazione dell’imprenditrice, «è che la ‘ndrangheta non compra ma vuole e impone».
Tutta la vita di Aurelia Bertolami è segnata dalla violenza dei clan. Da quand’era giovane e rapirono suo padre nell’azienda di località Pagliarone, a Sant’Eufemia, lungo la vecchia Statale 18 che porta all’area industriale. Era l’ottobre 1983 quando Giuseppe Bertolami sparì. Scrive oggi la figlia ricordando con dolore quel tragico episodio: «Per circa due mesi ci furono telefonate da parte dei sequestratori che chiedevano il pagamento di cifre esorbitanti che la mia famiglia assolutamente non poteva avere, e avvertimmo di tutto la polizia. Dopo tante telefonate i sequestratori imposero l’ultimatum e ridussero il riscatto. Si arrivò alla conclusione di pagare facendo grossissimi sacrifici, impegnando tutto quanto avevamo per raccogliere la somma richiesta. Sono passati 24 anni, e non so ancora dov’è stato seppellito. Purtroppo le cose non sono andate per come si sperava».
Molti anni dopo la figlia Aurelia nonostante tutto s’era rialzata, tentando di riprendere in mano l’azienda paterna. Nel ’97 aveva messo su un agrumeto pregiato a coltivazione biologica con 60 mila piantine in 21 ettari. «Ma è partita l’opera di annientamento da parte di ignoti delinquenti», racconta adesso. E fa un lungo elenco di intimidazioni che parte dal primo agosto 2002 e arriva al 24 luglio scorso. Con due episodi agghiaccianti: nel febbraio 2004 vengono incendiati 15 ettari con 40 mila alberi di agrumi, e nell’agosto dello stesso anno altri sei ettari con 20 mila piantine. Quell’anno sono andati in fumo 550 mila euro. «Tutti danni sempre denunciati alla caserma dei carabinieri di Lamezia Terme Scalo competente per territorio», spiega, «e tutti episodi che si sono verificati in località Pagliarone».
Con quali risultati? A rispondere con una sola parola è l’avvocato Achille Esposito, il legale della famiglia Bertolami che ha consegnatoa mano la lettera alla Gazzetta: «Nessuno».
Giuseppe Bertolami fu sequestrato il 12 ottobre 1983. Di lui e dei suoi rapitori non si trovò mai traccia
Articolo del 17 Settembre 2014 da lameziainstrada.com
I terreni di bertolami ancora nel mirino: incendiato un capannone in pieno giorno in contrada Pagliarone. In passato coltivazioni devastate, mezzi agricoli bruciati e altre intimidazioni
Il capannone dove è stato appiccato il fuoco risulta ancora di proprietà di Giuseppe Bertolami. Dell’imprenditore dopo il sequestro non s’è saputo più nulla. L’immobile di circa 300 mq era adibito a deposito. Dentro tante cassette e attrezzature per la coltivazione delle fragole. A gestire la proprietà che ieri è stata interessata dall’incendio è aurelia, figlia del rapito.
Immediatamente sono interventui i vigili del fuoco con diversi mezzi per spegnere le fiamme e limitare i danni. Sul posto anche un trattore con cui sono state rimosse delle balle di fieno accanto alla struttura, che sono state avvolte dalle fiamme. L’intervento di spegnimento è durato delle ore.
Gli interessati hanno denunciato l’episodio ai carabinieri. Al capannone che era ancora avvolto dal fuoco è arrivato anche il comandante della compagnia di Lamezia Terme Fabio Vincelli per rendersi conto di persona di quanto stava accadendo. Il capannone non èera di grande valore, nè dentro c’era del materiale costoso. Si pensa si sia trattato di un messaggio intimidatorio contro la famiglia Bertolami, anche se dopo il rapimento tra i fratelli ci sono stati non pochi problemi.
La guerra ai Bertolami continua, seppure con copi assestati a distanza di diverso tempo. Le aziende agricole e quei terreni fanno gola a tanti. E da un decennio sono approdati nella Piana anche investimenti consistenti dalla più vicina area reggina su cui indaga la Direzione Investigativa antimafia. senza però trovare ancora risposte. (Gazzetta del Sud – G.na.)
LA STORIA
Di Giuseppe Bertolami si è persa ogni traccia nonostante gli appelli dei familiari.
Sono trascorsi 31 anni da quando fu rapito l’industriale florovivaista Giuseppe Bertolami. Di lui non si hanno più notizie. Fu rapito la sera del 12 ottobre del 1983, intorno alle 18, quando uscì dalla sua azienda a bordo della sua Fiat 132 imboccando la Statale 18, per tornare a casa in città. La sua auto fu ritrovata in Contrada Palazzo. Il sequestro non ebbe testimoni.
Fu avviata una trattativa con i rapitori, ma dopo circa un mese emezzo caò il silenzio, ed il fratello Antonio il 4 marzo del 1684 lanciò un appello ai rapitori ai quali “negli sporadici (e per lo più indiretti) contatti avuti, ho detto di essere disposto a trattare, anche se su una base che non è certamente quella della loro richiesta iniziale“. Un appello che non ebbe delle risposte e che fu rilanciato il 22 settembre successivo in un’intervista rilasciata al Tg3.
Antonio Bertolami rivelò che i rapitori avevano chiesto 3 miliardi di lire. Quando però tutto sembrava definito, i contatti con i sequestratori si interruppero. Disse il fratello: “A questo punto dobbiamo sapere se andare in chiesa e pregare per Giuseppe morto. Non si può essere crudeli fino a questo punto“.
La famiglia negli anni scorsi, certi della morte del congiunto, avevano sollecitato che almeno si comunicasse loro il luogo dove l’imprenditore era stato sepolto.
Fonte: lametino.it
Articolo del 8 luglio 2018
La ricostruzione del sequestro di Giuseppe Bertolami, imprenditore rapito a Lamezia nel 1983
di Claudia Strangis.
Lamezia Terme – C’è una parte di storia della città lametina che ancora rimane avvolta nel mistero: una storia quasi dimenticata, rimasta nell’ombra, una storia amara. È quella dei delitti insoluti, degli scomparsi, delle morti bianche, ma c’è anche quella dei sequestri di persona. Una storia che risale a più di quarant’anni fa, quando la criminalità organizzata decise di fare cassa e così, intraprese una strada che, a quei tempi, era considerata molto remunerativa.
Figli o figlie, padri, madri, personaggi considerati in vista o facoltosi, che venivano strappati alla loro realtà familiare e tenuti in ostaggio da criminali che, per rilasciarli, chiedevano un riscatto per la loro libertà. Dagli anni ‘70 in poi, fino alla metà degli anni ‘80, questo fu considerato un modo “facile” per fare soldi. Soldi che poi furono reinvestiti in altri giri, come quella del traffico di droga.
La ‘ndrangheta divenne una delle maggiori fautrici dei sequestri: il territorio, soprattutto dell’Aspromonte, si fece “custode” dei rapiti e, in alcune zone, furono coinvolte intere comunità. Fu una pagina di cronaca nera che coinvolse anche Lamezia: tanti i sequestri di persona in quegli anni, alcuni risolti con il ritorno a casa delle persone rapite, altri ancora avvolti nel mistero a distanza di tre decadi. Molti dei protagonisti dell’epoca non ci sono più, molti altri sono andati via da questa terra: e, seppur dolorosa, questa rimane una pagina della storia di questa città.
Un sequestro ancora avvolto nel mistero è quello di Giuseppe Bertolami: era il 12 ottobre del 1983 quando fu rapito. Trascorsero mesi di trattative, telefonate, lettere, minacce e anche sciacallaggio. La famiglia fece di tutto per poter riportare a casa il loro congiunto ma niente bastò. Giuseppe Bertolami non fece più ritorno e di lui non si seppe più nulla. Contrariamente a quanto avvenne per altri, che furono rilasciati, per lui le cose andarono diversamente e, intorno a questa storia, rimangono solo tantissimi dubbi e poche labili certezze. Rimane una famiglia che ancora aspetta di riavere un corpo e avere un posto dove poter piangere un padre, un marito, un fratello.
Sul caso di Giuseppe Bertolami, titolare insieme ai fratelli di una florida azienda vivaistica lametina, ancora nessuna risposta certa, nessuna risoluzione: è calato un silenzio lungo trentacinque anni.
La ricostruzione del sequestro
Erano passate da poco le 18 del 12 ottobre del 1983: Giuseppe Bertolami era da solo a bordo della sua auto, una Fiat 132 blu, era uscito da poco dall’azienda e aveva percorso pochi metri, quando fu sequestrato lungo la strada statale 18, al bivio che immette su una diramazione che conduce in località Palazzo. Fu lì, infatti, che fu rintracciata la sua auto abbandonata, nella quale non furono ritrovati evidenti segni di colluttazione.
Ad avvisare le forze dell’ordine e i parenti fu un dipendente che, finito l’orario di lavoro, incrociò sulla strada proprio quell’auto abbandonata e, allarmato, li chiamò.
Giuseppe Bertolami si stava dirigendo verso Nicastro dove aveva un appuntamento al quale, però, non arrivò mai. Il suo sequestro non ebbe alcun testimone. Aveva 58 anni all’epoca, sposato con due figli, Carmelo e Aurelia, era un imprenditore noto in città e insieme agli altri tre fratelli, aveva costruito una solida azienda florovivaistica. La famiglia era originaria di Mazzarà Sant’Andrea, un piccolo paese del messinese: l’azienda nella piana lametina divenne florida e stabile nella coltivazione di fiori e piante. Erano molto forti nell’export, anche all’estero, dove avevano molti contatti, ma si erano cimentati anche nella creazione di laboratori all’avanguardia per l’epoca, intraprendendo collaborazioni con diverse università, puntando su innovazione e sperimentazione. Tutta la famiglia aveva investito molto sull’azienda, e il sequestro fu una batosta per tutti loro.
Appresa la notizia, le forze dell’ordine attivarono immediatamente servizi di controllo non solo a Lamezia e nell’hinterland ma in tutta la regione. Era una macchina rodata: purtroppo i sequestri erano tanti e frequenti. Solo qualche mese prima, nel gennaio dello stesso anno, un giovanissimo figlio di un industriale di Bagni di Tivoli, Fabrizio Mariotti, fu rapito e tenuto prigioniero a Lamezia da alcuni appartenenti alla malavita locale, a Lamezia per oltre sei mesi, liberato poi nel settembre di quell’anno, dietro il pagamento di un riscatto di un miliardo e 50 milioni di lire. I lametini erano quelli del clan Cerra-Torcasio. La famiglia, con base a Capizzaglie, aveva intrapreso, tra le altre cose, anche questo tipo di attività criminale. In particolare Nino Cerra si era inserito nel giro dei sequestri di persona: proprio tre anni prima di Mariotti si ritiene avesse avuto un coinvolgimento anche in un altro sequestro in Lombardia. Nel 1983 era latitante, ed era considerato vicino agli ambienti della malavita reggina, in particolare di Platì.
Partito l’allarme, allora, cominciò a mettersi in moto la macchina delle investigazioni per cercare di scovare qualsiasi elemento utile. Così partirono a raffica i controlli anche nei confronti di alcuni pregiudicati locali e non, che potevano, secondo gli investigatori, essere capaci di queste azioni. Ci furono perquisizioni e battute sul territorio senza, però, alcun esito. La telefonata dei sequestratori non tardò ad arrivare. Era un copione quasi già scritto: nella tarda serata del 17 ottobre, cinque giorni dopo il sequestro di Giuseppe Bertolami, ignoti chiamarono ad una persona vicina per motivi di lavoro, ai familiari, con l’incarico di dire ad Antonino Bertolami, fratello del rapito, di preparare quattro miliardi di lire. Fu indicata anche una parola d’ordine: “L’uva diventa mosto”, che sarebbe dovuta essere pubblicata sul quotidiano “La Gazzetta del Sud”.
Questo fu solo il primo dei contatti con i familiari. Telefonate, lettere anonime, ma anche tanti sciacalli. Purtroppo i soldi della famiglia facevano gola a molti e, quella stessa famiglia, non solo costretta a vivere la tragedia del sequestro, la tragedia del non sapere cosa potesse accadere, dove potesse essere il loro congiunto, fu costretta anche a districarsi nelle notizie che, vere o false, giungevano sul sequestrato.
La polizia, con il commissario dell’epoca, Antonino Surace e il sovrintendente Salvatore Aversa, seguirono da vicino la vicenda, erano in pianta stabile dai Bertolami: lavoravano in stretta collaborazione con l’Arma dei Carabinieri, le varie squadre Mobili e la Criminalpol. Seguirono i contatti, misero sotto controllo i telefoni, cercando di capire come smuovere la trattativa. Il copione dei sequestri era quasi sempre lo stesso: le indagini, però, non potevano concentrarsi esclusivamente su Lamezia. I rapitori potevano essere chiunque ed essere in qualunque luogo in Italia, così, oltre a continue perquisizioni in zone lametine come all’Annunziata, nel Reventino, in località Gaccia, e nella zona della piana di Sant’Eufemia, in abitazioni e casolari isolati, le ricerche si spostarono anche in Umbria, Lazio e Toscana.
Le prime richieste di riscatto furono cifre esorbitanti: impensabili da poter pagare, ma la famiglia cercò di fare di tutto per mediare e trattare con i rapitori per risolvere il prima possibile e bene il sequestro.
Dopo la prima telefonata ne arrivò una seconda, a distanza di dieci giorni, sempre ad una persona vicina alla famiglia ma mai alla famiglia stessa. Gli amici e colleghi dovevano diventare messaggeri delle intenzioni dei rapitori, in un quadro sempre più angosciante per la famiglia. A novembre, ancora richieste di contatti: arrivò una lettera che doveva essere consegnata al fratello di Giuseppe Bertolami, Antonino, che stava seguendo la faccenda da vicino. Una lettera contenente minacce gravissime e scritta in calcomania. Poi contattarono direttamente Antonino Bertolami: era la fine di novembre del 1983, quando i sequestratori chiesero se la somma richiesta fosse pronta. Un’altra lettera arrivò prima di Natale in cui venne scritto l’annuncio da pubblicare sempre sul giornale per indicare che i soldi erano pronti.
Passò Natale e anche Capodanno: erano quasi tre mesi dal sequestro di Giuseppe Bertolami e la famiglia era sempre più trepidante per quel rapimento, che speravano potesse finire il prima possibile ma che alla fine si prolungò più del previsto. I primi giorni di gennaio ci furono altri contatti: i rapitori volevano un annuncio della famiglia in televisione con la cifra che erano disposti a pagare. Il 14 gennaio del 1984 fu, invece fatta recapitare una lettera a Carmelo Bertolami, il figlio di Giuseppe. Una lettera che era stata inviata da Vibo, nella quale c’erano le istruzioni per il pagamento della somma di due miliardi di lire. Erano passati tre mesi e la cifra del riscatto si era abbassata. Nella lettera, però, comparve anche uno dei primi segnali che Giuseppe Bertolami era ancora vivo. C’era anche un foglio, infatti, scritto proprio dal sequestrato con un ritaglio di giornale datato 12 gennaio con la sua firma. Era la prova tangibile del fatto che fosse vivo: erano queste le classiche modalità usate dai rapitori per avvertire la famiglia dell’incolumità delle vittime.
Da gennaio, i contatti proseguirono fino ad aprile: si era arrivati ad un accordo. Il 19 aprile del 1984, i familiari di Bertolami fecero pubblicare un annuncio che era diretto ai rapitori nel quale si diceva che “era pronta una stecca per il quadro di Sant’Antonio”, che stava ad indicare che era pronto il miliardo di lire per il pagamento del riscatto. Quella sera stessa, i rapitori telefonarono ad una persona vicina alla famiglia che avrebbe dovuto comunicare loro il da farsi.
I tre percorsi per consegnare il riscatto
Sembrava che tutto potesse risolversi nel migliore dei modi: la famiglia avrebbe pagato la cifra pattuita per rivedere il loro congiunto. Ma c’era ancora da fare: il figlio di Bertolami, Carmelo, avrebbe dovuto compiere, come indicato dai sequestratori, tre percorsi diversi, per tre sere consecutive, seguendo dettagliatamente le indicazioni. Doveva mettersi alla guida di una 126, con sopra due valigie. In un percorso avrebbe dovuto percorrere la statale 18 dall’azienda fino a Reggio, poi sempre da Lamezia, arrivare a Soverato passando dalla strada delle Serre, e l’ultimo percorso sarebbe stato quello da Lamezia fino a Lagonegro, passando dall’autostrada. L’ipotesi più accreditata era che il rilascio di Bertolami sarebbe avvenuto la terza sera.
Carmelo Bertolami avrebbe trovato un’auto che gli avrebbe lampeggiato per farlo fermare e consegnare il denaro. E così partì per il primo percorso: erano le 19:40 del 20 aprile. Erano stati stabiliti alcuni servizi di avvistamento da parte delle forze dell’ordine, lungo la statale e anche l’autostrada, un particolare che non sfuggì ai rapitori. Quando il secondo giorno Carmelo Bertolami era in procinto di partire, partì la seconda telefonata da parte dei rapitori per avvisare di stoppare qualsiasi cosa perché erano seguiti. Da allora, il silenzio. E di Giuseppe Bertolami, nonostante i ripetuti e disperati appelli dei familiari, non si è saputo più nulla.
L’ultima prova del fatto che fosse in vita, risale al febbraio del 1984, quando fu recapitata una lettera con il solito foglio di giornale firmato, dopodiché la famiglia è rimasta in balia dei dubbi e sospesa. Negli anni successivi ci furono altri contatti: ma erano soltanto sciacalli che cercavano di speculare su una triste vicenda.
Le ipotesi investigative
Tante le ipotesi degli investigatori: a compiere il sequestro potevano essere stati pregiudicati di altra zona, con molta probabilità della zona di Reggio, con basisti del luogo. Erano stati notati, nelle sere precedenti, alcuni movimenti strani con persone a volto scoperto ferme in macchina nei pressi della azienda.
Gli occhi delle forze dell’ordine erano puntati su Nino Cerra, sul quale già pendeva un mandato di cattura emesso dalla Procura Milanese per concorso in sequestro di persona, oltre ad un altro mandato di cattura, stavolta da Roma, per il già citato sequestro di Fabrizio Mariotti. Cerra, secondo le ipotesi investigative, era legato ad altri gruppi criminali calabresi, soprattutto con quelli del reggino, in particolare la zona di Platì con i quali Cerra avrebbe avuto legami, quindi il quadro degli inquirenti si andava concentrando su questo, anche se non ci furono mai riscontri certi. Si ipotizzò un suo possibile coinvolgimento insieme ad Antonio De Sensi, ucciso il 27 aprile del 1984.
Una delle ipotesi, secondo gli investigatori e la procura lametina, era che proprio il De Sensi sarebbe stato a conoscenza del sequestro e che avrebbe preteso di partecipare alla gestione e alla spartizione del riscatto, pretese che probabilmente avrebbero scatenato incomprensione tra i due. I contrasti, la sua morte e l’arresto di Nino Cerra, avrebbero determinato, secondo una delle ipotesi investigative, la mancata riscossione del riscatto. Secondo gli inquirenti, probabilmente il gruppo dopo questi avvenimenti non avrebbe saputo gestire il sequestro.
Ma queste rimangono solo delle supposizioni, perché non esistono prove, il corpo vivo o morto di Giuseppe Bertolami non è stato mai trovato né riconsegnato alla famiglia, che, dopo 35 anni, aspetta ancora la sua verità.
Le indagini, seppur incanalate su una pista, che pareva essere la più probabile, si conclusero in un nulla di fatto e non ci furono né arresti, né processi.
Gli appelli incessanti della famiglia
Non si sono mai arresi e hanno continuato a chiedere di riavere il loro congiunto. L’hanno fatto per anni, anche fino a poco tempo fa. Hanno convocato giornalisti, hanno smosso Procure e forze dell’ordine in cerca di una qualsiasi verità su Giuseppe Bertolami. Nel 1992, sembrava che potesse essersi smosso qualcosa. Un pentito della locride avrebbe indicato dove potesse essere il corpo di Giuseppe Bertolami, così era partita l’operazione di scavo e ricerca in un uliveto. A guidare le ricerche c’era il procuratore di Palmi Agostino Cordova, poi il sostituto procuratore di Locri, Nicola Gratteri, e il sostituto di Lamezia Luciano D’Agostino. Sul posto, a seguire i due giorni di scavi, anche il figlio di Giuseppe, Carmelo, ma anche questa speranza cadde nel vuoto e il corpo non fu mai trovato.
Carmelo Bertolami: “Per me è inconcepibile privare della propria libertà una persona”
“Per due anni siamo stati in balia degli eventi. Il sequestro ci ha completamente assorbito e ha dato un duro colpo alla nostra famiglia e all’azienda”. Carmelo Bertolami, uno dei due figli di Giuseppe, ricorda ancora vividamente quei momenti che, come ripete, non riuscirà mai a cancellare. Aveva trentatré anni, lavorava nell’azienda di famiglia e, come racconta, seguiva spesso gli affari all’estero, viaggiando e mantenendo i contatti soprattutto in Algeria e paesi del Medioriente.
Racconta di come fosse una situazione del tutto nuova, una mannaia caduta sulla sua famiglia che, naturalmente, ha sconvolto le vite di tutti. “In casi come questo qualsiasi cosa si faccia si sbaglia, sono situazioni ingestibili” ci spiega, ricordando quei momenti terribili. Una intera famiglia lasciata in sospeso, con il dolore che diventa una angoscia insostenibile, cercando di mediare con persone senza scrupoli, aspettando notizie sul loro congiunto e cercando di mantenere i fari puntati sulla vicenda.
“Ogni anniversario – racconta – così come ogni volta che passo davanti a quel bivio, mi pervade una fortissima angoscia”. Perché questa è la parola per definire il terribile senso di attesa, l’attesa di una notizia positiva che però, allora, come oggi, ancora non è arrivata. Avevano già intuito all’epoca come potessero essere andate le cose, ma rimaneva la speranza di poter riavere il corpo “per potergli portare – sottolinea – almeno un fiore e rendergli omaggio”. Ma questo, fino ad oggi, non è stato possibile. In verità, come ci ha spiegato il figlio Carmelo, Giuseppe Bertolami risulta ancora vivo e non sarebbe stata dichiarata la morte presunta.
“Ciò che per me è inconcepibile, – spiega – è privare della libertà una persona. Questa – conclude il figlio – è una cosa che non riuscirò mai ad accettare o perdonare”.