10 settembre 1986 Palermo. Luigi Aiavolasit, 22 anni, condannato a morte perché sospettato di non rispettare le regole mafiose.
Luigi Aiavolasit era stato ucciso in un bar, mentre era con la sua ragazza, da Di Maggio, Di Matteo e La Barbera il 10 settembre 1986. Punito dai Corleonesi perché era un tossicodipendente che commetteva qualche piccolo furto per pagarsi la droga e rovinava con la sua presenza la piazza di San Giuseppe Jato. Molti collaboratori hanno confermato questa tesi durante il processo. In quegli anni, infatti, i mafiosi capeggiati da Riina hanno ucciso tanti giovani solo perché erano drogati, uccisi senza “senso”. È attraverso la storia di Luigi che ricostruiamo quel periodo, che leggiamo quel territorio e quel disagio che ha portato le mafie ad arricchirsi attraverso il traffico dell’eroina, ad approfittare della fragilità di tanti ragazzi e tante ragazze che nell’eroina hanno cercato una via di uscita.
Fonte: memoriaeimpegno.it
Fonte: ricerca.repubblica.it
Articolo del 4 agosto 1993
“COSI’ UCCIDEVAMO IO, GINO E SANTINO”
di Attilio Bolzoni
PALERMO – “Questo è Santino, è Santino mezzanasca, Santino Di Matteo, uomo d’onore della ‘famiglia’ di Altofonte…”. Il pentito Balduccio Di Maggio stringeva nelle mani un album contenente 74 schede segnaletiche di mafiosi e sospetti fiancheggiatori. L’ uomo raffigurato nella foto d’ archivio numero 330, Balduccio la riconobbe subito. Era un pomeriggio di gennaio del 1993, giovedì 14, il giorno prima dell’arresto di Totò Riina. Da ventiquattro ore Di Maggio stava svelando i segreti di Cosa Nostra ai magistrati di Palermo dentro uno stanzone della caserma dei carabinieri “Regione Sicilia”, in corso Vittorio, accanto a Porta Nuova. Un’ altra foto, anzi altre due foto, il pentito le prese in mano esattamente quindici giorni dopo. Alle dieci del mattino, a Roma, il 29 gennaio, negli uffici della caserma “Lazio”. “Questo è La Barbera Gioacchino detto Gino… della famiglia di Altofonte… e quest’altro è Antonino Gioè, uomo d’onore di Altofonte anche lui, presentatomi da Santino mezzanasca e da La Barbera Gino…”.
I nomi dei mafiosi di Altofonte entrati nell’indagine sull’uccisione di Giovanni Falcone compaiono in quasi tutte le prime 280 pagine della “cantata” di Baldassare Balduccio Di Maggio, il mafioso di San Giuseppe Jato che ha tradito e fatto catturare Totò Riina (questa, almeno, è la versione ufficiale), raccontando ai giudici palermitani anche l’incontro e il bacio tra Giulio Andreotti e il Capo dei Capi di Cosa Nostra. Balduccio Di Maggio parla dei tre mafiosi coinvolti nell’ inchiesta sulla strage di Capaci e ricorda nelle sue confessioni soprattutto gli omicidi compiuti insieme a due di loro: Santino Di Matteo, il Santino entrato nelle investigazioni sulla morte di Falcone (si dice anche che sia stato sottoposto all’esame del Dna confrontandolo con le tracce di saliva trovate sui filtri delle sigarette lasciate sulla collina di Capaci); e Gioacchino Gino (e non Giuseppe come erroneamente tutti i giornali hanno riportato in questi mesi) La Barbera, il mafioso di vedetta a Punta Raisi il 23 maggio del 1992, l’ uomo d’ onore arrestato dalla Dia a Milano nel marzo scorso tre giorni dopo Antonino Gioè. Balduccio Di Maggio si è accusato di 27 omicidi, delitti che ha commesso nella zona del Corleonese, nei paesi di San Giuseppe Jato, Piana degli Albanesi, San Cipirrello, Roccamena, Altofonte. Suoi complici in queste missioni di morte sono stati proprio Gino La Barbera e Santino Di Matteo detto mezzanasca, letteralmente in siciliano mezzo naso. Ecco cosa ha svelato Balduccio al procuratore Caselli e ai sostituti Natoli, Pignatone e Lo Voi. Di numerosi omicidi Balduccio Di Maggio non conosce il movente. Il pentito non sa neanche il nome di molti uomini che ha ucciso insieme a Santino Di Matteo e a Gino la Barbera, mafiosi praticamente sconosciuti fino al pentimento di Balduccio e alle successive investigazioni sulle stragi palermitane.
Omicidio di un pellicciaio e di un suo dipendente. “Quando io ero sostituto nel ruolo di capo mandamento di San Giuseppe Jato, su designazione di Totò Riina ricevetti le lamentele di Giovanni Matranga circa una persona di Piana degli Albanesi che aveva una pellicceria e anche un’ azienda di campagna… costui si comportava in maniera arrogante, e nel bar del paese aveva detto più volte che comandava lui, disprezzando così il ruolo del Matranga e di Peppe u sicarru della ‘ famiglia’ di Piana… Bernardo Brusca decise che doveva essere soppresso e io detti al Matranga l’ incarico di studiare le abitudini della vittima designata… Ci organizzammo una mattina… io mi recai nella campagna di Giuseppe Agrigento (capo della ‘ famiglia’ di San Cipirrello n.d.r.)… La Barbera Gino e Santino mezzanasca giunsero dopo… tutti e tre andammo nella campagna del pellicciaio… lui non si insospettì e, così, il mezzanasca poté avvicinarsi e gli sparò con un’arma corta, forse una calibro 357. Subito dopo lo raggiunse il La Barbera, il quale sparò con un fucile a canne mozze… Il La Barbera e il mezzanasca spararono anche, non so se entrambi o uno solo, ad un giovane che era sul posto e che tentò di scappare… noi tre eravamo a viso scoperto”.
Omicidio di Di Carlo detto Soluzzo. “In un periodo avvennero tanti furti nelle campagne tra San Giuseppe Jato e Corleone… la convinzione di tutti noi era che, responsabile, fosse un certo Di Carlo detto Soluzzo… io personalmente ricevetti anche delle lamentele da Giovanni Grizzafi (un nipote di Riina n.d.r.), il quale aveva subito il furto di chiavi di un suo trattore… un giorno Riina mi ordinò di eliminare il Di Carlo… Mi organizzai con Santino mezzanasca… il mezzanasca chiamò il Di Carlo con il suo soprannome Soluzzo, così come poi mi riferì, e mentre Di Carlo si avvicinava gli sparò un primo colpo… il mezzanasca mi raccontò pure che notò un’ altra persona, un tunisino o un marocchino, sparò un colpo di fucile ma non per colpirlo bensì solo per farlo scappare…”.
Omicidio di certo Sciortino. “Quando ero capo mandamento ricevetti le lamentele di Giuseppe Agrigento nei confronti di certo Sciortino, accusato di essere un ladro… Io, il La Barbera e il mezzanasca cercammo lo Sciortino in un giorno d’ estate in una campagna ma non lo trovammo. Il giorno dopo io dovevo accompagnare a Palermo il mio bambino più grande, Andrea, per una visita medica. Dissi all’ Agrigento che doveva sbrigarsela da solo con l’aiuto del La Barbera e del mezzanasca… l’indomani seppi dall’ Agrigento stesso che aveva compiuto l’omicidio dello Sciortino insieme a suo nipote Romualdo, al La Barbera e al mezzanasca… seppi che era stato quest’ ultimo a sparare mentre lo Sciortino lavorava il latte…”.
Omicidio di Luigi Ajovalasit. “Quando Bernardo Brusca era latitante, subì alcuni furti nella sua casa in paese… dalle indagini che noi facemmo i sospetti si accentrarono su un giovane drogato, certo Ajovalasit… Una sera lo seguimmo e lo vedemmo entrare in una pizzeria… qui fu raggiunto dal… e da mezzanasca, i quali mi dissero che avevano sparato al giovane”.
Omicidio di certo Dragotta. “Un’ altra delle persone che vennero, da noi della famiglia, sospettati di avere avuto un ruolo nell’arresto di Bernardo Brusca, fu un uomo di circa 50 anni che si chiamava Dragotta… non ne ricordo il nome… io ero davanti con la mia macchina… il La Barbera, l’Agrigento Romualdo e il mezzanasca lo raggiunsero e fu il Santino a sparare, non ricordo se con armi corte o lunghe, dato che avevamo disponibilità di entrambi i tipi”.
Omicidio all ospedale di Alcamo. “In un periodo che non so bene precisare venne da me Francesco Caradonna che reggeva la ‘famiglia’ di Alcamo, mi disse che all’ospedale di Alcamo era ricoverato un parente dei Rimi (mafiosi della vecchia guardia legati ai Badalamenti n.d.r.) di cui non ricordo il nome né il soprannome particolare che pure aveva… mi organizzai con il La Barbera Gino e Santino mezzanasca… il Caradonna e il La Barbera andarono all’ ospedale a trovare un infermiere che doveva indicare al La Barbera la vittima designata. Il mezzanasca rimase dietro, il La Barbera sparò due colpi di pistola…”. Omicidio del dottore Montalbano. “Il dottore Montalbano, credo, medico di Camporeale, era ritenuto confidente o comunque molto vicino ai carabinieri… io, Brusca Giovanni e Santino mezzanasca andammo nella campagna di sua proprietà… il Brusca sparò un colpo di fucile ma l’arma si inceppò, subentrò Santino che sparò vari colpi di revolver ferendo il medico”.
Fonte: memoriaeimpegno.it
Articolo del 10 settembre 2016
Dopo trent’anni, il ricordo di Luigi Aiavolasit
Garantire il diritto alla memoria a tutte le vittime innocenti delle mafie. E’ dal 1995 che Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie si impegna per restituire dignità a tutti coloro che la violenza delle mafie ha provato a cancellare, a spazzare via. E il nostro impegno nel farlo è quello di essere vicini ai familiari nella loro ricerca di verità e giustizia. Le storie, i volti, le persone che abbiamo incrociato in questi oltre venti anni, continuano a raccontarci un pezzo importante della vita del nostro Paese, come la storia di Luigi Aiavolasit. E’ la storia di un ragazzo, una storia arrivata a noi attraverso le fotografie del nipote, Francesco Francaviglia. Un fotografo che si è impegnato nella sua vita professionale raccontando la sua Sicilia, la Sicilia di suo zio Luigi, la Sicilia delle donne del digiuno.
Oggi vogliamo ricordarlo con le parole del nipote, Francesco.
Per anni mi sono chiesto perché avessero ucciso mio zio, quel ragazzo pieno di vita. Tante volte avevo provato a chiedere a mia madre di suo fratello, non c’ero mai riuscito.
Un giorno, ho deciso di tornare a San Giuseppe Jato. Così, ho iniziato un viaggio nel cuore della Sicilia che non si è mai rassegnata. E per la prima volta, dopo tanti anni, ho incontrato, tra tante, anche la storia di mio zio Luigi.
Luigi Aiavolasit, aveva 22 anni quando un commando di killer lo uccise perché ingiustamente sospettato di aver danneggiato una proprietà dei boss di San Giuseppe Jato.
Oggi si compiono trent’anni da quel terribile omicidio e credo che gli anniversari siano utili più a scandire l’elaborazione del lutto di chi è rimasto. Il ricordo e la memoria sono storia di tutti i giorni.
Io temo che ad una sorella, a una madre, non basti e non sia bastata una vita intera per elaborare il lutto di un giovane riccioluto di 22 anni.