28 Dicembre 1989 Palma di Montechiaro (AG). Ucciso Pietro Giro, titolare di una piccola autolinea, “aveva una sola colpa: essere cugino di uno dei ribelli di Palma”.
Pietro Giro, 38 anni, autonoleggiatore di Palma di Montechiaro (PA), fu assassinato il 28 dicembre dell’ 89 in via Paolo Balsamo, nei pressi della stazione centrale di Palermo. L’ autista faceva ogni giorno la spola fra l’agrigentino e la città: accompagnava studenti e anziani. Mai un guaio con la giustizia. Il delitto fu un giallo anche per i killer di Ciaculli che ebbero l’ordine di eseguirlo. Un pentito, Nino Giuffrè, nel 2003, ha chiarito tutti i retroscena: fu un favore di Riina ai fratelli Ribisi, impegnati in una sanguinosa lotta a Palma di Montechiaro con gli stiddari. «Si sentiva in debito con loro – ha svelato il pentito – loro avevano ucciso il giudice Saetta». Giro non era comunque coinvolto in affari di mafia, aveva una sola colpa: essere cugino di uno dei ribelli di Palma.
Articolo da La Stampa del 29 Dicembre 1989
La faida «esporta» la morte
Ucciso autotrasportatore abusivo, è la sedicesima vittima dell’anno La faida «esporta» la morte Da Palma Montechiaro al centro di Palermo
PALERMO La faida mafiosa di Palma Montechiaro ha colpito anche a Palermo. Ieri mattina, poco dopo le 8, l’autotrasportatore Pietro Giro, 38 anni, nessun precedente penale e nessun legame accertato con le cosche, è stato assassinato con due colpi di rivoltella. Il killer era in moto, ha sparato da breve distanza. L’agguato è avvenuto tra la folla in via Pietro Balsamo, che congiunge la stazione centrale con corso Dei Mille, la lunga e popolare strada dominio delle cosche di Palermo Est. Pietro Giro è morto all’istante nel suo autofurgone con il quale, senza licenza, ogni giorno effettuava un servizio di linea abusivo tra Palma Montechiaro e Palermo. In via Balsamo la vittima aveva lasciato quattro passeggeri.
L’assassino e il complice che guidava lo scooter si sono allontanati indisturbati, mentre i passanti fuggivano spaventati. Le indagini si sono subito spostate a Palma Montechiaro, 25 mila abitanti, il paese più povero della provincia di Agrigento. La mafia è la padrona della città: quest’anno quindici palmesi sono stati uccisi in agguati. Ma negli ultimi cinque anni i morti sono stati quaranta.
Fra le vittime più recenti, i fratelli Rosario e Carmelo Ribisi di 47 e 57 anni, assassinati il 4 settembre in ospedale a Caltanissetta, dove Rosario era stato ricoverato dopo essere stato gambizzato giorni prima nel suo garage. Un terzo fratello Ribisi, Gioacchino, era già stato ucciso. Gli altri tre fratelli furono costretti a lasciare la Sicilia, ma due scelsero la latitanza: «Neanche al Nord saremmo al sicuro».
Nei giorni scorsi un «picciotto» di 18 anni, Gioacchino Castronovo, è stato rapito dalle cosche. Si teme che lo tortureranno per fargli rivelare dove si nascondono i fratelli Ribisi. Ma perché un autotrasportatore incensurato è stato ucciso in strada? Gli investigatori non escludono che possa esservi un nesso con alcune inchieste sul Comune. Infatti un fratello di Giro tempo fa è stato assessore per il psi. Sica ha inviato ispettori che hanno rovistato nelle carte del Comune, specie fra quelle relative agli appalti pubblici. E proprio ieri mattina sono arrivati in municipio un funzionario del ministero del Tesoro e un capitano della guardia di finanza. Secondo i comunisti, che con uno sciopero della fame ed un «libro bianco» hanno sollecitato immediate iniziative antimafia nel paese, gli appalti da tempo vengono vinti sempre dalle stesse ditte, che hanno facilmente ragione dei concorrenti. (a.r.)
Articolo da La Repubblica dell’11 Marzo 2003
Giuffrè e il delitto della stazione
Da otto mesi ormai la Procura antimafia di Palermo sta lavorando senza sosta sulle dichiarazioni di Nino Giuffrè. Si cercano i necessari riscontri per fare scattare gli arresti: le prime conferme riguardano un omicidio di quattordici anni fa, quello di Pietro Giro, l’ autonoleggiatore di Palma di Montechiaro assassinato il 28 dicembre dell’89 in via Paolo Balsamo, nei pressi della stazione centrale di Palermo. L’ autista faceva ogni giorno la spola fra l’ agrigentino e la città: accompagnava studenti e anziani. Mai un guaio con la giustizia. Il delitto fu un giallo anche per i killer di Ciaculli che ebbero l’ordine di eseguirlo. Adesso Giuffrè ha chiarito tutti i retroscena: fu un favore di Riina ai fratelli Ribisi, impegnati in una sanguinosa lotta a Palma di Montechiaro con gli stiddari. «Si sentiva in debito con loro – ha svelato il pentito – loro avevano ucciso il giudice Saetta».
Giro non era comunque coinvolto in affari di mafia, aveva una sola colpa: essere cugino di uno dei ribelli di Palma. Così il “Gruppo Agrigento” della Dda, coordinato dal procuratore aggiunto Annamaria Palma, ha chiesto e ottenuto dal gip Vincenzina Massa due ordinanze di custodia in carcere per i fratelli Ignazio e Pietro Ribisi. Ed è una delle prime ordinanze di arresto per omicidio che si fondano sul contributo di Giuffrè. Ai due indagati il provvedimento è stato notificato in cella dalla squadra mobile di Palermo. «Alla fine degli anni Ottanta ho conosciuto Ignazio Ribisi che era venuto nella zona di Caccamo rivolgendosi a Diego Guzzino, per ottenere aiuto nella lotta che aveva a Palma, sia all’ interno di Cosa Nostra, con i Sambito, sia all’ esterno, con gli stiddari»: inizia così il racconto del pentito ai sostituti procuratori Luca Crescente e Claudio Siragusa, che hanno condotto l’ inchiesta.
«Mi rivolsi a Provenzano e lui a parlò con Riina», prosegue il verbale: «Mi ritrovai a dare rifugio ad entrambi i fratelli Ribisi». I ricordi dell’ ex padrino di Caccamo sono nitidi quando descrive quel summit in grande stile a cui parteciparono i Ribisi, Riina, Salvatore Biondino e Michelangelo La Barbera, il padrone di casa. Il luogo non era certo dei più solenni, un pollaio. Il tema lo era comunque solenne: i Ribisi lamentavano il disinteresse delle famiglie palermitane per quanto avveniva a Palma, l’ aggressione da parte degli “infedeli”. «Riina non ebbe esitazione, diede immediatamente a La Barbera l’ordine di assassinare l’autista di cui parlavano gli uomini d’ onore di Palma», ha spiegato Giuffrè.
Il rituale di morte di consumò presto: «Una mattina, fu Pietro Ribisi ad indicare la vittima a La Barbera, nei pressi della stazione centrale». L’ omicidio fu commesso: non poteva che essere così. Riina si sentiva in debito nei confronti dei Ribisi, il suo gruppo di fuoco su Agrigento. «Gli stessi Ribisi mi dissero che all’ omicidio del giudice Saetta avrebbe partecipato Pietro. C’era invece anche Ignazio, insieme ad altri loro fratelli e ad altri due sicari dei quali non rammento i nomi, alla strage di Porto Empedocle avvenuta nel 1986».
Per il delitto di Pietro Giro i riscontri erano già negli archivi della Procura: al processo “Alletto”, che ha visto imputati proprio i fratelli Ribisi insieme ad altri mafiosi, i pubblici ministeri Crescente e Siragusa si erano già occupati di questo omicidio. Il pentito Giovanni Calafato aveva anche chiarito: «Mio cugino non apparteneva ad alcuna consorteria mafiosa». Poi, nell’ ambito di un altro dibattimento, erano arrivate le rivelazioni di Giovani Drago, uno dei killer incaricati da Riina. Ma solo Giuffrè ha saputo indicare i veri retroscena dell’ omicidio. – s.p
Articolo da La Repubblica dell’8 Dicembre 2007
Ai fratelli Ribisi ergastolo in appello
I giudici della seconda sezione della corte d’ assise d’ appello hanno ribaltato, in parte, la sentenza del processo “Golden Market” trasformando due assoluzioni in ergastolo. Sono quelle che riguardano i fratelli Ignazio e Pietro Ribisi, di Palma di Montechiaro, accusati dell’ omicidio di Pietro Giro, titolare di una piccola autolinea. Giro venne ucciso alla stazione di Palermo nel 1989, su ordine di Totò Riina, che doveva fare un favore ai Ribisi. Confermati gli ergastoli per i boss Pietro Aglieri, Raffaele Ganci, Giuseppe Montalto, Bernardo Provenzano, Totò Riina e Giuseppe Lucchese. Gli assolti sono Salvatore Buscemi, Giuseppe Calò e Salvatore Montalto. Ridotte le pene al pentito Nino Giuffrè, che dovrà scontare 12 anni e agli ex collaboratori di giustizia Santino di Matteo (10 anni) e Balduccio Di Maggio (11 anni e mezzo).
Articolo da La Stampa del 25 Settembre 1990
Così Livatino è stato lasciato solo
di Francesco La Licata
Chiese il confino per sei boss: quando lo ottenne tre erano stati uccisi e due erano fuggiti Così Livatino è stato lasciato solo. Le richieste del giudice furono accolte in ritardo
PALERMO Eccola la «Ribisi-story», l’incredibile partita di ping pong svoltasi fra gli uffici giudiziari prima che lo Stato riuscisse a decidere il soggiorno obbligato per una famiglia mafiosa di Palma di Montechiaro, la famiglia Ribisi appunto. Decisione tardiva, dal momento che dei sei fratelli ne sono sopravvissuti soltanto tre e due si sono dati alla macchia. Imprendibili, introvabili. Questa è la «Ribisi-story», ma il vero protagonista è il giudice Rosario Livatino, assassinato a Canicattì dalla stessa mafia che si prende gioco delle istituzioni.
Fu lui a chiedere al tribunale di Agrigento che i «terribili fratelli», sospettati di essere feroci killer, fossero spediti al confino. Ma per il tribunale, la loro «pericolosità» non era così evidente. La storia finì sui giornali, dopo la drammatica denuncia del giudice Di Maggio, che la raccontò dalla ribalta del Costanzo Show. Non è rimasta, però, una denuncia-spettacolo: questa vicenda fa parte di un voluminoso dossier che è nelle mani dell’alto commissario, Sica.
Comincia il 21 luglio del 1989 il braccio di ferro tra il giudice Livatino, allora pm ad Agrigento, e i vertici del tribunale. Il magistrato firma la proposta per l’applicazione delle misure di prevenzione a carico di Rosario, Gioacchino, Calogero, Pietro e Ignazio Ribisi. Scrive Livatino che «al complesso dei riscontri forniti dal carteggio emergono numerosi elementi di fatto che inducono a ritenere che i segnalati siano collegati alle consorterie mafiose operanti a Palma di Montechiaro e nell’Agrigentino».
Secondo il giudice «la valutazione critica di tali elementi li tratteggia come un gruppo particolarmente unito, agguerrito e pericoloso, si da divenire un elemento di riferimento : sia in termini di alleanza che di ostilità di quelle consorterie come attestato, fra l’altro, dalla loro contiguità con la famiglia del defunto boss Carmelo Colletti e coi gruppi mafiosi portoempedoclini coinvolti nel grave fatto di sangue verificatosi in quel centro il 21-9-1986 (la strage, con sei morti, in un bar della centralissima via Roma – Ndr)».
«Alcuni degli esponenti del gruppo – avverte Livatino nella sua proposta – sono stati, in modo non irrilevante, interessati dalle indagini sull’omicidio del giudice Antonino Saetta, così aggiungendo un altro tassello, quantomai inquietante, al mosaico diretto ad evidenziarne la pericolosità». Queste considerazioni portano Livatino a chiedere una «indifferibile opera di prevenzione, che sradichi dagli ambienti cui sono legati il gruppo in questione». La richiesta è il divieto di soggiorno «in quelle regioni (Sicilia, Calabria, Campania e Toscana) che, più di altre, potrebbero consentire il protrarsi della loro attività antisociale». E chiede che la scelta delle eventuali sedi di soggiorno obbligato avvenga in modo che «nessuno dei componenti del gruppo possa trovarsi a risiedere contemporaneamente in una di esse».
Passano solo tre giorni dalla proposta e il presidente della sezione penale invia gli atti alla presidenza del tribunale. Dieci giorni dopo viene respinta la richiesta: «Letta la proposta per l’applicazione di misura di prevenzione nei confronti di Rabisi Rosario, Rabisi Gioacchino, Rabisi Calogero, Rabisi Pietro e Rabisi Ignazio, visto il rapporto del 20-5-89 dei carabinieri di Licata e gli atti allegati; ritenuto che dai contenuti degli atti predetti non emergano motivi di particolare gravità idonei a costituire valido presupposto per la misura di carattere eccezionale, rigetta l’istanza».
E’ il 31 luglio del 1989. Il 5 agosto viene assassinato Gioacchino. Cade anche il cognato, Girolamo Castronovo. L’episodio fa rumore e Livatino torna alla carica: «Mandateli al confino, prima che sia troppo tardi». Ma anche questa volta il tribunale risponde che non è necessario: «L’episodio verificatosi il 5 agosto dell’89, trattandosi di fatti ai danni di uno dei proposti, non è sufficiente ad indugiare quei motivi di particolare gravità idonei a contribuire a valido presupposto per la misura di carattere eccezionale invocata dal p.m. e già non ravvisati nella proposta dal presidente del tribunale titolare».
Per quel che riguarda la pericolosità della famiglia in relazione alla strage di Porto Empedocle, il tribunale non la pensa come il p.m., ritenendo che «le indicazioni circa il grave fatto di sangue sono relative a due soltanto dei proposti e non consentono di identificare gli stessi nell’ambito familiare». Poi, dice il tribunale, Ignazio Ribisi è già libero vigilato e lo sarà sino al’93, il provvedimento urgente richiesto si rivelerebbe inefficace. La sentenza è ‘del 22 agosto del 1989.
Il 27 settembre viene ferito in un agguato Rosario Ribisi. Resiste al piombo, ma non al secondo tentativo. I killer lo fanno fuori a Caltanissetta, in ospedale. Uccidono anche il fratello, Carmelo, l’unico della famiglia che si dice fosse fuori dal giro, tant’è che per lui non era stata avanzata la proposta di confino. La richiesta di Livatino viene «ripescata», ma la discussione è ulteriormente rinviata «per lutto».
Bisognerà attendere il 27 novembre perché il tribunale mandi al confino i tre superstiti della famiglia. Ma dei Ribisi, l’unico al soggiorno è Calogero; gli altri non si trovano. Ha un ruolo la vicenda nell’omicidio del giudice Livatino? Saranno le indagini a stabilirlo; sembra, anzi, che la pista privilegiata degli investigatori porti in tutt’altra direzione. Ma il carteggio rimane in evidenza. Sica lo ha incluso in un dossier che deve ancora essere preso in considerazione a diversi livelli. S’intitola il «Dossier Palma».
Fonte: livesicilia.it
Articolo del 15 ottobre 2012
Muore suicida in carcere il boss Pietro Ribisi
di Andrea Cottone
Il boss di Palma di Montechiaro si è impiccato nella casa circondariale di Carinola, nel Casertano. Aveva 61 anni e due condanne all’ergastolo. Sotto i suoi colpi sono caduti il giudice Antonino Saetta e il figlio Stefano, ma anche l’imprenditore Pietro Giro, freddato alla stazione centrale di Palermo nel 1989.
CASERTA – Si è stretto il cappio al collo e si è lasciato andare. Così è morto Pietro Ribisi, boss dell’omonima famiglia dell’Agrigentino, nella sua cella al carcere di Carinola, in provincia di Caserta. Aveva 61 anni e di fronte un “fine pena mai”. Secondo fonti di polizia penitenziaria, il fatto sarebbe accaduto giovedì scorso mentre si terranno domani i funerali a Palma di Montechiaro (Agrigento), il suo paese d’origine.
Pietro Ribisi è stato condannato per l’omicidio del giudice Antonino Saetta e di suo figlio Stefano, freddati il 25 settembre 1988 lungo il viadotto Grottarossa della strada statale 640 Agrigento-Caltanissetta. Al magistrato, allora presidente di una sezioni della corte d’assise d’appello, non è stato perdonato il suo essere integerrimo e il suo rifiuto a ogni tipo di “avvicinamento”. Pietro Ribisi è stato condannato in quanto autore materiale del delitto.
Nel 2008, poi, a carico di Pietro Ribisi è diventata definitiva un’altra condanna all’ergastolo nell’ambito del processo “Golden Market”, nel quale Ribisi era accusato dell’omicidio di Pietro Giro, titolare di un’autolinea che si occupava dei collegamenti tra Palma di Montechiaro e Palermo. L’esecuzione, con l’avvallo di Totò Riina, è avvenuta alla stazione centrale di Palermo nel 1989.
Strano destino, quello di Pietro Ribisi. La sua famiglia è stata protagonista della faida di Palma di Montechiaro che negli anni ’80 ha mietuto diverse vittime. Secondo il pentito Leonardo Messina, Pietro Ribisi non avrebbe potuto assumere la qualifica di uomo d’onore per via di una vecchia regola di “Cosa Nostra” che non consentiva l’affiliazione a più di due fratelli della stessa famiglia. A Palma erano già operativi i suoi fratelli Rosario, Ignazio e Gioacchino. E già questa era una deroga al principio. Ciò nonostante Pietro Ribisi ha preso parte alle attività criminali della famiglia mafiosa nella quale costituiva il braccio armato di Giuseppe Di Caro.