“Locri, il coraggio di essere Liliana Carbone” di Giuseppe Tumino

Locri, il coraggio di essere Liliana Carbone
di Giuseppe Tumino

Fonte: Gazzetta del Sud Sabato 24 Dicembre 2011

La maestra cui nel 2004 la ’ndrangheta uccise il figlio Massimiliano parla della “sua” antimafia. Molto diversa da quella delle semplici parole.
«La speranza è una fiammella che non spegnerò mai. E Buon Natale a chi ancora ha la forza di indignarsi»

REGGIO CALABRIA
In mezzo a tante parole, sovente ipocrite vista l’inattendibilità dei relativi pulpiti, questa intervista è in sé “Antimafia”. Liliana Esposito Carbone non usa sintassi estratte da formulari, non sgrana rosari di mali né suggerisce futuribili panacee. Nella Locri della faida e degli squali, in cui regnano i Cordì e i Cataldo, da sette anni e tre mesi semplicemente parla. Le hanno assassinato un figlio, e l’equazione è tutta qua, semplice e terrificante. Senza soluzione e senza giustizia. E le sue parole sono cunei acuminati, nella carne viva di chi nel silenzio acquiescente vive e prospera. Eccole.

– Signora Liliana, dall’omicidio di Massimiliano sono passati sette anni, che lei ha speso in battaglie, su tutti i media e su ogni ribalta. Dovesse sintetizzare in una parola quello che prova, che parola userebbe?
«Sconforto. E indicibile dolore al pensiero della vita impedita a mio figlio, e amarezza infinita per questa storia sottovalutata così a lungo, e imperdonabilmente».

– Per chi non lo ha conosciuto: chi era Massimiliano?
«Un ragazzo di Locri, un ragazzo generoso, donatore di sangue per i bambini talassemici, iscritto nei Registri internazionali dei donatori di midollo. Viveva domeniche frementi di tifo per la Reggina, era appassionato di studi storici sul Novecento, e devoto alla dolcissima fidanzata, un’avvocatessa reggina. Era un ragazzo che aveva i sogni, i progetti, gli affetti di un trentenne, angosciato dalle tante contraddizioni di questa nostra realtà, ma che si era creato un’attività pulita, aveva bella capacità di iniziativa e non si tirava indietro di fronte ai sacrifici».

– E quali colpe ha espiato con la morte?
«Era un giovane maschio, bellissimo e amabile, vittima di una triste, impertinente passione. Ha umiliato dei miserabili, proprio soltanto esistendo, e questi marziani autoctoni hanno tolto la vita a lui, pensando che la loro sciagurata esistenza sarebbe andata avanti ancora uguale e senza alcun rischio né disagio, forse anche per la solita sciatteria investigativa, di sicuro nell’acquiescenza dei tanti indifferenti, nell’omertà della “famiglia”, nel fariseismo inamovibile, nella “ipocrisia degna di altra epoca”, come affermò la Procura presso il Tribunale per i Minorenni. Massimiliano costituiva il parametro della loro pochezza. È stato un vero uomo che ha vissuto in fretta ma, come disse Garcia Lorca, non invano: ha fatto in tempo a piantare il suo alberello di limoni, a ricambiare lettere d’amore, a mettere al mondo suo figlio. Del mio Massimiliano vado fiera».

– Perché il suo assassino, o quantomeno i mandanti, non sono mai stati arrestati?
«Le indagini sono state insufficienti, in ogni caso intempestive; basti ricordare che la perizia balistica,
che ha smentito molte conclusioni del primo momento d’indagine, è stata effettuata 22 mesi dopo, in seguito alla memoria ex art. 90 proposta dai nostri legali».
– Lei è forse l’unica persona a memoria d’uomo, a Locri, ad avere fin da subito contribuito alle indagini.
«Dopo un delitto, è prassi che la famiglia della vittima venga sentita a proposito di eventuali situazioni di pregressa preoccupazione, e così ho indicato agli inquirenti quanto della breve vita di mio figlio conoscessi, avendo avuto sempre con lui un dialogo privilegiato; sono stata sua madre e amica e confidente, la qual cosa oggi mi abilita ad agire al suo posto e in suo nome».

– Chi le è stato realmente vicino in questi anni di battaglia?
«Amici che non mi hanno mai abbandonata, in tantissime giornate di dolore e rabbia, sono Demetrio
Costantino, presidente del Cids, persona di grande sensibilità e passione civile; e poi due coltissime
professioniste, da anni nostre consulenti tecniche di parte; i soci della cooperativa Mistya di Locri e de “La Gurfata”; la nostra caparbia e pervicace legale di famiglia, l’avv. Adriana Bartolo. Ma vorrei menzionare anche Massimiliano Ferraina, Raffaella Maria Cosentino e Claudia Di Lullo, gli autori del docufilm “Oltre l’inverno”, che racconta la mia quotidiana sopravvivenza a mio figlio. E mi porto nel cuore le parole di don Luigi Ciotti, per Massimiliano e per me».

– E chi invece le ha messo i bastoni tra le ruote?
«Vorrei glissare su questa domanda. Devo impegnarmi alla parsimonia nel disprezzo, c’è tanta gente che ne ha bisogno. Un inventario sarebbe prolisso, e l’esercizio richiede energia… Ma una menzione la meritano certi ambienti di Locri, alcune cosiddette “agenzie educative”, una parte di chiesa e di scuola. Le raccomando: ci tengo, alle minuscole».

– Qualche episodio di pubblica discriminazione?
«Buon gusto e buon senso pratico mi frenano, ma basterà ricordare che da qualcuno sono stata delegittimata come insegnante, poiché porto avanti istanze di giustizia, idee “in cui a scuola non si deve entrare”. Ho pure conosciuto “prudenti” parrocchie in cui imperversano educatrici alla religione e alla legalità in forte olezzo di ’ndrangheta. Inoltre, voglio proprio dire che in una importantissima
sala istituzionale di piazza Italia, a Reggio, mi fu detto testualmente: “Sappiamo che molti sanno, ma non parlano perché lei non appare abbastanza dolente, e dunque non ha il consenso della società civile”. Era il 13 ottobre 2006, e ancora mi chiedo che cosa mai sia questa “società civile”».

– Che significa vivere a Locri?
«Significa vivere in un luogo senza sicurezza, con una lunga storia di diritti negati e di giustizia miope. Non si fa caso al fatto che la morte e la vita siano disposte ad apparire al minimo pretesto, più
che altrove; e qui molta gente non ci vuole pensare, è permalosa ma è come nata morta, già senza alcuna speranza o desiderio di cambiamento. Ora sento che molti familiari di vittime si confortano a vicenda, ricevono fondi istituzionali, vanno a far visita agli ergastolani. Iniziative encomiabili. Ma qui da me, accanto alla mamma di Massimiliano Carbone, un qualunque morto ammazzato non eccellente, vengono solo gli amici della Casa della Legalità e della Cultura di Genova, quelli che ci mettono la faccia davvero, e quei ragazzi di “Ammazzateci tutti” che sono rimasti leali e coerenti.
E mi rasserena la solidarietà concreta di alcuni giovani scrittori e giornalisti calabresi, dei quali ammiro ideali ed interessi, e che condividono le mie istanze di verità, e che mi sostengono nel progetto di rivolgermi alla Suprema Corte per i Diritti Umani».

– Lei non è solo una madre coraggio, armata di forza della disperazione. Lei è educatrice ma soprattutto donna di gusti raffinati e cultura non comune. In una Calabria piena zeppa di antimafia a parole, in cui pezzi di istituzioni implodono un giorno sì e l’altro pure, c’è ancora spazio per la speranza?
«La Calabria conserva tante parti sane e ha tante risorse, i giovani di buona volontà possono ancora proiettarsi verso un’esistenza migliore, ma a tutti viene richiesto un impegno personale e concreto. Conosco molti validissimi Progetti di educazione alla legalità per aver preso parte ad alcune fasi della loro realizzazione, eppure credo che ancora si debba fare molto. Intanto, almeno, chiamare ogni cosa col suo nome: se sappiamo che esiste, questa malapianta, la ’ndrangheta, questa sonorità agghiacciante di ferraglia che sembra caderci in testa dal cielo, poveracci noi, indichiamola senza esitazione. Non temiamo che ci si allappi la bocca».

– In uno Stato debole come il nostro, in che misura in una terra come la Locride, la gente, la maggioranza silenziosa, è dalla parte della ‘ndrangheta, con opere o condiscendenza?
«In una contingenza sociale ed economica così difficile, la gente attende certezze e risposte ai suoi
bisogni; le difficoltà sono tali che spesso ci si ripara nel proprio individualismo e si prova a risolverle, senza consapevolezza né slancio per la realtà comune. Molti si adattano a quadri di riferimento di mafiosità perché la ‘ndrangheta “facilita” la soluzione dei loro problemi. Un giovane operaio della Locride mi ha detto che senza “l’aiuto di qualche compare buono” , i giovani sono tutti “come il cane del macellaio: lordi di sangue e morti di fame”. Solo la morte di Massimiliano, l’omertà, la negligenza e il cinismo di alcuni tra gli inquirenti mi hanno dato la misura della vita disgraziata dei calabresi, dei diritti a loro negati; prima vivevo relativamente tranquilla nella consuetudine, con i miei affetti e i miei interessi. Sotto una campana, in imperdonabile, egoistico qualunquismo».

– Ha senso, signora Liliana, che io le auguri buon Natale?
«Certo, ha un senso importante e bello. È un giorno che ricorda una nascita, io sento il momento del cambiamento più che quello della resurrezione, che sfiora una tomba. Voglio dare e ricevere l’augurio che presto possa nascere la buona volontà, in ognuno. Potremmo avere quella giustizia sociale che è condizione necessaria e propedeutica alla pace».

– E lei, a chi lo augura?
«Lo auguro a tutti quelli che sono capaci della memoria degli eventi, perché possano cambiare in meglio il comune futuro. Lo auguro a chi è capace di condividere la sofferenza d’altri, e soprattutto a chi è capace di indignarsi, perché ci si arrabbia per quello che si ha a cuore. A Locri queste sere sono piene di luci. Il 24 dicembre sono sette anni e tre mesi senza Massimiliano, io mi lascio dietro i tanti giorni della sua assenza e sto attenta che non si spenga il lumino che tengo acceso tra i fiori, sul suo sangue, qui sotto casa. La mia speranza è una cosa semplice ma resistente, come questa fiammella».

– Grazie.
«Grazie a lei, e ancora una volta grazie alla Gazzetta del Sud. Perché non dimenticate».

 

 

 

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