Maria Concetta, testimone di giustizia e suicida in terra di ‘ndrangheta

Maria Concetta, testimone di giustizia e suicida in terra di ‘ndrangheta
di Francesca Chirico – Linkiesta (10/02/2012)

Foto e Articolo del 10 Febbraio 2012 da  stopndrangheta.it

Rosarno, sono le sette di sera di un sabato di agosto e Maria Concetta si chiude in bagno, mandando giù a sorsate, come fosse acqua, l’acido muriatico. Madre di tre figli in terra di ‘ndrangheta, qualche mese prima aveva iniziato a collaborare con la giustizia. Da un luogo protetto diceva: «Non me li hanno mandati i figli e non me li mandano perché loro hanno capito che se mi mandano i figli è finita non torno più». Tornata per rivederli, aveva anche ritrattato la collaborazione, prima di riprenderla. Ora è arrivato l’arresto del padre e della madre, accusati di averla spinta al suicidio.

ROSARNO – Nell’audio registrato il 12 agosto 2010, per ritrattare le dichiarazioni rese precendetemente ai magistrati della Dda di Reggio Calabria, aveva ripetuto due volte «di spontanea volontà mia». Come una cantilena. Sull’ultima frase del lungo monologo (10 minuti) la voce le era quasi scomparsa: «È da tre giorni che sono a casa mia tra mio padre, mia madre, i miei fratelli, i miei figli e ho riacquistato la serenità che cercavo. Vorrei lasciata in pace in futuro e non essere chiamata da nessuno». Otto giorni dopo quella registrazione la testimone di giustizia Maria Concetta Cacciola, 31 anni e tre figli, si era attaccata ad un bottiglia rossa piena di acido muriatico.

Da quale inferno avesse deciso di sottrarsi si sono concentrate le indagini della Procura di Palmi che ha chiesto, e ottenuto dal Gip, l’arresto dei suoi genitori, Michele Cacciola e Anna Rosalba Lazzaro, mentre si è reso irreperibile il fratello Giuseppe. L’ipotesi di reato per i tre familiari della donna è concorso in maltrattamenti in famiglia e violenza per costringere a commettere un reato. In pratica, «attraverso reiterati atti di violenza fisica e psicologica», avrebbero costretto Concetta all’autocalunnia, facendole ritrattare le accuse contro la ‘ndrangheta di Rosarno. E facendole scegliere il suicidio «in conseguenza dei gravi e reiterati maltrattamenti».

Cugina di Giuseppina Pesce, la pentita dell’omonima cosca rosarnese, Maria Concetta Cacciola orbitava attorno all’altro clan del grosso centro della piana di Gioia Tauro: una zia paterna aveva sposato il boss Gregorio Bellocco, mentre il marito, Salvatore Figliuzzi, era stato arrestato nel 2003 con l’accusa di far parte proprio del clan Bellocco e condannato a otto anni per associazione mafiosa. Maria Concetta l’aveva sposato a 14 anni. A 16 anni era già mamma: «Sognavo un po’ di libertà e invece mi sono rovinata la vita perché non mi amava, né l’amo e tu lo sai», scriverà alla madre, affidandole i tre figli alla vigilia della sua partenza verso la prima località protetta.

È il maggio 2011 e la sua collaborazione è partita, come uno sfogo, da qualche giorno. La donna sogna “la liberazione” da una cappa opprimente: è innamorata di un altro uomo e nel giugno 2010 il padre e il fratello hanno ricevuto delle lettere anonime che segnalano il tradimento, la macchia all’onore di famiglia. La reazione, immediata, ha previsto botte da orbi e minacce. «Questo è il tuo matrimonio e te lo tieni». Le hanno rotto pure una costola, a Maria Concetta, medicata in casa da un medico. La donna ha paura di fare, da un giorno all’altro, una brutta fine: «Mio fratello ha un brutto carattere ed è capace di fare qualsiasi cosa, anche di farmi sparire».

Maria Concetta Cacciola varcherà la soglia della caserma dei carabinieri di Rosarno con la scusa del sequestro del motorino del figlio. Fuori l’aspetta il suocero perché da sola non le è permesso di uscire. Dentro lei comincia a parlare. «Voleva cambiare vita per sé e per i figli, era una donna forte e determinata», ricordano gli inquirenti.

Ascoltata più volte dai magistrati della Dda di Reggio Calabria sugli interessi criminali della sua cerchia parentale, fa scoprire due bunker ed è presto ammessa al regime di protezione. Ma sceglie di lasciare i tre figli con i nonni e non si accorge di essersi messa, per questo, sotto ricatto. «Non me li hanno mandati i figli e non me li mandano perché loro hanno capito che se mi mandano i figli è finita non torno più», si lamenterà al telefono con l’amica del cuore, a cui confesserà anche il suo travaglio su un possibile ritorno a casa: «Tutti me lo dicono, renditi conto di quello che ti aspetta, perché ormai lo hai fatto, il passo lo hai fatto, una cosa e un’altra ti dicono che ti perdonano però che so nel cuore… Te lo dicono in questo momento e poi tra un po’ di tempo ti fanno (…). L’onore non lo perdonano (…) Le sappiamo queste cose come vanno nelle nostre famiglie no?! Almeno nella famiglia mia».

Combattuta tra la paura di ritorsioni e la voglia di riabbracciare i propri affetti, alla fine cederà a quest’ultima. Il 10 agosto 2011 lascia il regime di protezione e torna a Rosarno, ma di aver peccato di ottimismo lo capisce subito: «Mi portano avvocati avvocati x farmi ritrattare dirgli che…uso psicofarmaci e che lo fatto x rabbia… ora mia madre mi fa la loro freddezza verso di te mi fa paura» si sfoga attraverso un sms con l’uomo amato. È di nuovo in gabbia e di nuovo vuole uscirne.

Il 17 agosto Maria Concetta Cacciola esprime l’intenzione di riprendere il percorso di collaborazione: la partenza per la nuova località protetta è già stata fissata, pronte le valigie, rispolverato il sogno di “liberazione”. Alle 19:00 di sabato 20 agosto, però, la donna si chiude in bagno, mandando giù a sorsate, come fosse acqua, l’acido muriatico. Dopo la sua morte i genitori parleranno di «depressione psichica», presentando una denuncia contro ignoti alla Procura di Palmi e scagliandosi contro i magistrati colpevoli di avere ingannato la figlia «con la scusa di un’ipotetica protezione per dei problemi personali e familiari di normale ordinarietà».

 

 

 

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