“CAVA DEI TIRRENI, 29 MAGGIO 1982, ORE 15:02”

 

Le ultime ore di Simonetta Lamberti, vissute dalla mamma
(pubblicato da Serena Lamberti su  facebook.com)

Squilla il citofono. “Angela, sono Eva, posso salire un attimo?”
E’ la voce della mia amica, voce a me ben nota, ma stavolta ha qualcosa di diverso che me la fa sembrare quella di un’altra persona. Apro la porta e aspetto.
Eva compare sulla soglia dell’ascensore col volto che vuol nascondere qualcosa, ma non può:
“ Angela,vieni con me; si dice che ci sia stato un attentato a tuo marito; sai, le voci circolano e s’ingigantiscono….”
“Ma Simonetta, sai niente di Simonetta? Era andata col padre a Vietri …Dimmelo, se sai qualcosa, te ne prego…”.
“Non fare così, ti giuro, non so niente di preciso, prendi la giacca, la borsa… Andiamo a vedere insieme.”
E da questo momento comincia la lunga agonia del mio eterno 29 maggio.
Il traffico è bloccato, non si riesce a proseguire con la macchina; la lasciamo ferma ai margini della strada e io, quasi fuori di me, inizio la mia corsa verso il capannello di curiosi che lascia intravedere la coda della macchina nera di mio marito (l’ho sempre odiata quella macchina).
Gente, confusione, grida, richiami, clacson, urla e vetri, vetri, miriadi di vetri e sangue
… Chiamo Simonetta, spero di vederla da qualche parte, spaventata la mia piccola, perché ha assistito a qualcosa di tremendo, ma di lei vedo solo una scarpetta rosa da ballerina, rimasta sull’asfalto.
Qualche creatura premurosa mi strappa via di lì, mi carica in un’altra macchina, sempre con Eva, ed arrivo all’ospedale di Cava.
Anche qui atmosfera di confusione estrema, ma il mio grido non trova risposta.
“Insomma,ditemi qualcosa!…Non è giusto tenermi così! Dove sono mio marito e mia figlia? Simonetta sarà certo spaventata; se mi vede si tranquillizza immediatamente, ne sono sicura…
La conosco bene la mia bambina… Ha bisogno di me… Lasciatemela vedere…”
Altra attesa in una stanza buia, quindi qualcuno mi dice: “Alfonso sta bene, signora, venga a vederlo”.
Ma di Simonetta ancora nessuno parla.
Passo quindi in sala operatoria, dove Alfonso, nonostante gli stiano estraendo due pallottole dalla spalla, mi parla; le sue uniche parole: “Vai da Simonetta”.
“Ma dov’è Simonetta?” urlo sempre più disperata.
“Signora, l’abbiamo portata al Cardarelli, perché, sa, qui non abbiamo le attrezzature adatte…”.
La mortificazione che leggo sui volti delle persone che mi circondano mi rende consapevole del dramma che mi sta coinvolgendo, ma la parte irrazionale di me tenta ancora di abbarbicarsi a un filo di speranza.
Cardarelli, sala rianimazione, cervello, parole sussurrate, facce sconcertate di medici, tutto razionalmente mi porta alla certezza che si stia compiendo l’irreparabile; eppure il mio istinto di madre non riesce ad accettare l’idea della morte.
Riprendo la mia corsa, stavolta verso Napoli, un viaggio eterno; continuamente chiedo ad Eva che ore sono: le 16, le 16:10.
Nocera, Angri,Scafati, Pompei: prego con tutta l’anima guardando il campanile del Santuario, prometto tutto quello che ho alla Vergine, ma già sento che la mia è una preghiera inutile.
“Eva, dove siamo?”
“Fra poco a Napoli…”
Non guardo intorno a me, non voglio guardare. La strada è quella che ho percorso tante volte per andare dai miei, nella casa della mia infanzia. Quante volte ho portato con me la mia piccola, tranquilla e serena, contenta di andare ad abbracciare i nonni!
Stavolta è andata a Napoli senza di me.
Finalmente si arriva: come una cosa, vengo sbattuta di qua e di là: scendo dalla macchina davanti al pronto soccorso; domande su domande: dov’è, è la mamma, avvertite il medico, e poi…ecco, l’espressione che fa paura: sala di rianimazione.
Ho sempre avuto un sacro terrore di questa parola, come se fosse sinonimo di morte.
Sempre come un automa, vengo immessa in un ascensore che mi porta chissà a quale piano.
Seguo chi mi guida e finalmente un viso caro, familiare, Eugenio, mio fratello, anche lui col viso stravolto.
Ci abbracciamo come mai ci è successo, un lungo, stretto, angoscioso, caldo abbraccio che mi dice tutta la gravità della situazione.
Gegè cerca di calmarmi, lui, così alto, mi accarezza i capelli, dolcemente e mi chiama e mi parla: “Angiolè, non fare così, vedrai, ce la faremo; io farò tutto quello che è nei limiti del possibile, Angiolè, ma tu non devi fare in questo modo, perché mi fai preoccupare anche per te, devi essere forte, adesso devi dimostrare la tua energia… adesso c’è bisogno di te… Sapendo che tu sei coraggiosa, potrò fare con più calma tutto quello che è necessario… Bisogna cercare un buon neurochirurgo, non c’è tempo da perdere… lasciami andare…”
E come una bambina mi lascio guidare, mi lascio portare in un’altra stanzetta buia (ma sono veramente così buie tutte le stanze in cui attendo?), mi metto in un angolo, cercando di dominare la tremenda tensione. C’è una finestra che dà sul giardino, guardo fuori, fisso lo sguardo sul cielo, sulle chiome degli alberi, ma non vedo niente; stringo le mani con le dita incrociate e aspetto.
“Debbo stare tranquilla…, si, faccio la buona, non voglio dar fastidio col mio inutile pianto;
lo so, Eva, dovrei essere più coraggiosa, ma faccio del mio meglio, più di questo non posso.
Non l’ho mai lasciata la mia Simonetta; oggi il padre le ha chiesto: “Vuoi venire per un’ora al mare con me?” e lei, controvoglia: “che dici, mamma, ci vado?” e ci è andata per non scontentare il suo papà. E adesso dov’è? Cosa le fanno? Non mi chiariscono niente, ma non sono una stupida; neurochirurgo: ti rendi conto? E’ il cervello che è stato colpito!… La mia creatura, così intelligente, così saggia, così perspicace, colpita al cervello! E perché?
Dio, io mi sento impazzire… Eva, ti prego, chiedi se è arrivato il neurochirurgo; chiedi chi sia, se è bravo, se è il migliore…”
Eva, docile e buona, chiede a qualcuno, fuori, dove ormai c’è estrema confusione; mi vengono a dire di non uscire dalla camera in cui mi trovo, perché Simonetta deve essere portata giù, al primo piano, per la TAC e quindi per l’intervento.
“Ma come? Non posso nemmeno vederla? Allora che cosa è stato fatto alla testolina bionda di Simonetta? perché non me la fate baciare prima di portarla giù?”
“Signora, la prego, faccia la brava, non si preoccupi…” mi fa un’anonima dottoressa, dal volto anonimo.
“Ma che mi dice? Non si preoccupi? Non mi prenda in giro, non sono una stupida purtroppo”.
La dottoressa non replica, si rende forse conto dell’inutilità e della vanità delle sue parole, si allontana e sono di nuovo sola a tormentarmi le mani, a guardare le chiome degli alberi e il cielo che si fa incolore.
“Che ore sono?”
“Le 18”.
“Da quanto tempo l’hanno portata giù? Mi sembra un’eternità. Adesso Eva, le taglieranno tutti i capelli per l’intervento, i suoi capelli biondi; non fa niente; ricresceranno”
Torna di nuovo Eugenio per una fugace apparizione: “Angela, adesso entriamo in sala operatoria: tutto quello che si può fare, si farà, non posso dirti altro”.
Di nuovo sola con Eva: “Perché non riesco a pregare? E’ tremendo, non so formulare nessuna invocazione, non riesco a chiedere nessun aiuto. Questo è un brutto segno, ne sono sicura; sento che Dio non può fare niente per me e per mia figlia, lo sento, ti dico; cerco di respingere questo pensiero, ma è qui in agguato, dentro di me. Eva, ma è mai possibile che noi stiamo qui al Cardarelli ad aspettare di sapere se Simonetta vive o muore? Ti rendi conto di quello che sta succedendo? A me sembra tutto assurdo, irreale, impossibile… Ma come, lei, solo 4 ore fa, se n’è andata col costumino giallo in mano: “Mamma, porto il costume dell’anno scorso, quello nuovo lo metto a Praiano. Ciao mamma, vengo presto, ciao…” Solo 4 ore fa… ed ora sta combattendo con la morte. Dio mio, com’è possibile?…”
Mi alzo, cammino per la stanzetta come tigre ferita a morte, vado da un muro all’altro, infine mi appoggio con la fronte alla fredda porta metallica di un armadietto dei medici, ci sono le etichette coi nomi. Le leggo, le fisso e sto lì, come in trance. Passo da questi stati di apatia assoluta, di abbandono, a stati di agitazione febbrile e tormentata.
Eva mi scuote e mi riporta a sedere: “Perché non prego Eva? Fallo tu per me, ti scongiuro, io non ce la faccio; vorrei, ma non ce la faccio!…”
Il tempo, che sembra non passare mai, invece scorre inesorabile; sembra che tutto accada in un’altra dimensione: i minuti, i secondi vengono centellinati, assaporati, assorbiti nella loro durata, nella loro essenza quasi fisica; si ha coscienza della consistenza materiale del tempo.
Sono le 19. Il cielo è sempre più incolore, gli alberi sono sempre più scuri, opachi. La campana della chiesa del Cardarelli comincia a suonare: sono rintocchi lieti, sonori, puri, ma hanno per me qualcosa di lugubre, parlano all’anima, sono un segno. Mi tappo le orecchie con le mani, ma le campane suonano ancora.
“Eva, non posso sentirle. Eva, falle tacere; …lo so, lo sento cosa dicono: “Simonetta è morta, si, è morta!”…”
Il mio dolore, finora quasi muto, non può più essere costretto: ora urlo, urlo disperata, perché dentro di me qualcosa si è spezzato, ho sentito una lesione, uno strappo, una frattura; ho sentito che qualcosa di mio si staccava da me stessa. Nessuno mi ha detto niente, sono lì nella cameretta, sola con Eva, ma so che Simonetta è morta.
Dopo nemmeno 5 minuti, mio cognato entra per dirmi quello che il cuore mi aveva già detto.

 

One Comment

  • Bianca ramadori

    Conosco quel dolore. Il viaggio, le cose intorno inerti ,ostili, l’incapacità di concepire pensieril compiuti, lo strappo nel corpo. Se ognuno di noi assorbisse una molecola del dolore altrui saremmo uomini diversi.

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