LA LOTTA ALLA MAFIA – PERCHÉ SI VINCE COI GIUDICI di Giovanni Falcone

LA LOTTA ALLA MAFIA – PERCHÉ SI VINCE COI GIUDICI
di Giovanni Falcone

Articolo da LA STAMPA del  6 Novembre 1991

Dopo i primi sfoghi emotivi contro le recentissime scelte governative in tema di antimafia (Superprocura e Agenzia Investigativa), interventi più pacati – come quello di Ernesto Galli della Loggia, apparso ieri l’altro sulle colonne di questo giornale – incanalano finalmente il dibattito sui punti cruciali delle riforme in modo adeguato rispetto all’importanza del tema. Su di un punto mi sembra che non si possa non essere d’accordo con Galli: sul suo forte richiamo allo Stato di diritto ed al rispetto della legalità, proprio nel momento in cui l’accresciuta virulenza del crimine organizzato suscita suggestioni crescenti di interventi autoritari e di leggi eccezionali. Ma, detto questo, mi sembra veramente paradossale che si addebiti la causa principale del fallimento della lotta alla mafia proprio alla scelta della via giudiziaria, ritenuta da Galli la più comoda per la classe politica ma la meno idonea a fronteggiare fenomeni di tale complessità.

La repressione giudiziaria non è una scelta discrezionale ma un preciso dovere della magistratura; e ciò appunto con riferimento a quel principio di legalità giustamente richiamato come uno dei cardini dello Stato di diritto. Nessuno vorrà sostenere che quando i crimini raggiungono una certa quantità si trasformano in meri fatti sociali o politici!

Mi sembra, poi, francamente eccessiva l’affermazione di Galli secondo cui la magistratura, per «cieca vanità di casta» e «bambinescamente» abbia assecondato le manovre del potere politico, assumendosi un peso insostenibile nella lotta alla mafia. L’accusa di corporativismo ai magistrati è divenuta ormai una moda ma, nel caso di specie, certamente a sproposito poiché la magistratura, nella lotta alla mafia, non ha assunto nessun compito che non le competesse. Anzi bisognerebbe riconoscere che talora ha svolto questo compito con una certa timidezza, non diversamente del resto dagli altri poteri dello Stato. Ma, a parte queste considerazioni, credo che si debba contestare anche sotto altro aspetto l’affermazione dell’eccesso di «giudizialità» nella lotta al crimine.

È vero esattamente il contrario e cioè che lo Stato nelle sue articolazioni essenziali ha brillato soprattutto per la sua inefficienza nelle regioni meridionali in cui è presente la criminalità organizzata. In queste zone sarebbe veramente rivoluzionario, non sembri un paradosso, il puro e semplice funzionamento delle istituzioni. La tesi di Galli costituisce, a mio parere, la sostanziale riesumazione ed il perfezionamento di quella, per fortuna obsoleta, secondo cui, essendo la mafia un fenomeno economico-sociale legato al sottosviluppo del Mezzogiorno d’Italia, essa si sarebbe sciolta come neve al sole col miglioramento delle condizioni di vita di quelle popolazioni. In realtà, come è ormai riconosciuto da tutti, la mafia è legata non al sottosviluppo ma alle storture dello sviluppo e se ne alimenta. E non bisogna dimenticare che queste tesi hanno fatto segnare il passo per decenni alla repressione delle organizzazioni mafiose ed hanno costituito comodo alibi per la più deplorevole inerzia dei pubblici poteri. Non mi sembrerebbe un gran risultato, allora, se nuovamente, e con la più perfetta buona fede, si riproducessero situazioni di sostanziale stasi repressiva mentre la gravità della situazione impone rimedi che, nel più assoluto rispetto della legalità, rappresentino però una risposta seria ed efficiente alla sfida mafiosa.

Sono fermamente convinto che la repressione giudiziaria e il mantenimento dell’ordine pubblico siano condizioni essenziali per l’affrancamento del Meridione dallo strapotere mafioso, essendo illusorio pensare ad ipotetici e spontanei «riscatti» delle popolazioni meridionali. Una migliore organizzazione degli uffici del pubblico ministero, nel pieno rispetto della legalità, è, dunque, indispensabile per realizzare una migliore efficacia delle indagini ed il necessario coordinamento alla stregua dei principi del nuovo codice di procedura penale. E proprio con riferimento alle scelte praticate nel concreto, mentre va doverosamente riservato ai competenti organi parlamentari la valutazione della compatibilità delle stesse con la Costituzione e la loro adeguatezza rispetto agli scopi prefissi, alcune precisazioni sembrano doverose. Non riesco, infatti, a comprendere perché mai, secondo quanto afferma Galli, la Superprocura e, ancor prima, il pool antimafia vanifichino il principio del giudice naturale, istituiscano un anticipo di tribunale speciale e pongano di fatto il pubblico ministero in un rapporto assai ambiguo col potere politico.

Devo confessare che finora nessuno aveva sostenuto una tesi del genere nei confronti delle inchieste condotte dai vari pool antimafia mentre, per quanto riguarda in particolare la Superprocura, basterà ricordare che è in gioco soltanto l’organizzazione degli uffici del pubblico ministero e non già di quelli del giudice, per cui non sembra che il principio del giudice naturale sia stato richiamato a proposito. Non vi è dubbio che la gravità del momento non debba essere invocata per soluzioni poco meditate e controproducenti; ma le resistenze, palesi e occulte, ad ogni tentativo di razionalizzazione dell’intervento statuale, e della magistratura in particolare, non potranno che rendere più difficile l’ormai improcrastinabile rafforzamento delle strutture di contrasto del crimine organizzato accentuando il pericolo di soluzioni autoritarie e sbrigative, che non risolverebbero in alcun modo i problemi. Se vogliamo che lo Stato di diritto divenga anche lo Stato dei diritti e non più dei privilegi e dei favori, non abbiamo altre vie da seguire.

Giovanni Falcone

 

 

 

 

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