18 Marzo 1994 Pegli (GE). Uccise Marilena Bracaglia, 22 anni, la zia Maria Teresa Galluccio, 40 anni, e la nonna Nicolina Celano, 74 anni. Strage in nome “dell’onore”.
Un triplice omicidio, quello di Maria Teresa Gallucci vedova Alviano, della madre Nicolina Celano e della nipote Marilena Bracaglia, consumato nel ’94 e legato alla morte di Francesco Arcuri, avvenuta poco prima in Calabria. La prima pista investigativa porta sulle tracce di Francesco Alviano, figlio della Gallucci: avrebbe ucciso l’amante della madre e poi i suoi familiari per lavare l’onore. Una pista finita in un nulla di fatto ma che, dopo vent’anni, trova conferma nelle parole del pentito Facchinetti e nelle indagini della Dda di Reggio sulla cosca Pesce: Pino Rospo, fratello di Francesco, è stato arrestato in quanto organico alla ‘ndrina retta da Francesco Pesce Testuni. Tra gli Alviano e i Pesce un vecchio patto di sangue: il capofamiglia è morto mentre lavorava alla costruzione della casa del patriarca “Zi Peppi” Pesce, e da allora i tre orfani sono cresciuti sotto la protezione della ‘ndrangheta.
La storia degli Alviano e della strage di Genova sull’asse Rosarno-Liguria tratta dal libro Dimenticati – Vittime della ‘ndrangheta.
Fonte: stopndrangheta.it
Uccidere o morire
di Danilo Chirico e Alessio Magro – Dimenticati (14/02/2012)
Uccidere o morire. Una legge inesorabile per un aspirante ‘ndranghetista, chiamato a macchiarsi dei delitti più gravi. È una vera e propria strage nel nome dell’onore quella che si compie sull’asse Rosarno-Genova a cavallo tra il 1993 e il 1994. Un vero e proprio giallo, rimasto irrisolto per la giustizia italiana. Maria Teresa Gallucci in Alviano ha quarant’anni ed è una bella donna. Ha vissuto una vita difficile, fatta di sacrifici e di sofferenze. A venticinque anni resta vedova: il marito muratore è volato dal quarto piano di un edificio in costruzione perché un tavolaccio di un’impalcatura ha ceduto sotto il suo peso. E Maria Teresa rimane a Rosarno e va avanti da sola, crescendo i suoi tre figli. Solo madre, premurosa e attenta, e non più donna. Almeno fino alla soglia degli anta. I suoi ragazzi sono ormai cresciuti, e lei all’improvviso riscopre l’amore. Inizia una storia con un commerciante del paese, Francesco Arcuri, più giovane di lei di qualche anno. Ufficialmente è una storia segreta, ma presto in paese tutti sanno della relazione. Non si tratta di privacy violata, ma del giudizio del tribunale della ‘ndrangheta.
Francesco Alviano ha ventitré anni, senza il padre da quando ne ha cinque. È un ragazzo cresciuto in fretta, con la responsabilità di sostituirlo il più presto possibile. È il primogenito e su di lui la madre confida per dare un futuro alla famiglia. Magro, longilineo, con i capelli rasati, la fronte alta e occhi verdi penetranti, Francesco ha un carattere difficile, si fa prendere dall’ira. Per questo, o forse perché mal sopporta la vita di caserma, riesce a scansare il servizio di leva, dopo solo quattro giorni di naia e una lunga convalescenza nell’ospedale militare per una crisi di nervi. Ma Francesco è anche un ragazzo intelligente: ottiene il massimo dei voti alla maturità, al professionale per l’agricoltura, e poi si iscrive all’università, Economia e commercio a Messina. Forse la voglia di bruciare le tappe, forse il peso della responsabilità, forse il desiderio di prendersi quello che la vita gli ha negato, forse il fascino del crimine, fatto sta che Francesco coltiva amicizie di «alto rango» e aspira alla carriera ‘ndranghetista. Nessuno ha la forza di impedire a quel ragazzo di fare la sua scelta di vita.
Quella che segue è una storia verosimile, la ricostruzione fatta dagli investigatori per dare un perché a una strage terribile, ma si tratta solo di un’ipotesi, bocciata dalla magistratura. Una verità che tutti conoscono ma che nessuno può invocare. Quel che è certo è che ci sono quattro cadaveri a cui la Repubblica non ha saputo dare giustizia.
Si chiacchiera tanto nei bar di Rosarno. Ogni parola ha un senso, ogni gesto è una sfida che non si può non raccogliere. A Francesco tocca l’offesa più profonda: le risatine, le mezze frasi, gli sguardi dall’alto in basso per uno che s’atteggia a malandrino ma non sa «guardare» nemmeno le femmine di casa sua. Gli hanno messo la pulce nell’orecchio: «Tua madre se la tiene uno del paese, e tuo padre si rivolta nella tomba». È un’accusa gravissima, l’indegnità massima per un uomo d’onore. Forse qualcuno ci marcia pure sopra, per mettere i bastoni tra le ruote a quel ragazzo che vuole fare strada. Il rispetto, la reputazione, la fiducia dei boss, il futuro, tutto è compromesso. Francesco non ha voglia di ripartire da zero, costi quel che costi. Deve riparare all’affronto subito, deve recuperare il suo onore. Prima di prendere la decisione interroga la madre Maria Teresa, la incalza, la minaccia. Lei non si azzarda a rivendicare il suo diritto di essere donna, nega tutto, si nasconde dietro il suo ruolo di madre e di vedova devota. Un ruolo che, sa bene, non ammette vie d’uscita. La sera del 4 novembre 1993 Francesco Arcuri viene ferito barbaramente. Nove colpi di pistola, diretti al basso ventre. Coi genitali spappolati e un’emorragia deflagrante, l’uomo muore dopo un’agonia di undici giorni. Il messaggio è chiaro. Tutti lo colgono. Soprattutto i parenti della vittima che, si dice, siano vicini alla ‘ndrangheta. E anche tra le cosche serpeggia il nervosismo. Sulla tomba di Arcuri, dicono gli investigatori bene informati, qualcuno ha giurato vendetta. C’è tensione in paese, è chiaro che qualcosa deve accadere. Ma il giovane Francesco Alviano non è un malandrino qualunque, da poter fare fuori senza disturbare. È ormai organico alla cosca Pesce, i padroni di Rosarno. Il locale della ‘ndrangheta emette il suo verdetto: chi uccide per onore non può essere punito, neanche se a morire è uno ‘ndranghetista. Ma la salvezza del vendicatore passa per la morte della donna infedele, come vuole la legge d’onore. A Francesco, per tener fede al giuramento mafioso, evitare la vendetta e diventare un uomo di tutto rispetto, tocca uccidere la madre con le proprie mani.
Ma prima Francesco fa in tempo a sfuggire alla giustizia – lo interrogano sull’omicidio di novembre, ma non emergono prove a suo carico – e a dimostrare la fedeltà ai Pesce, finendo in cella per favoreggiamento. Ha nascosto alcune pistole del boss Antonio, fratello di «zi Peppi», il capobastone Giuseppe Pesce, morto da qualche tempo. È il 28 febbraio 1994. La prova non è sufficiente, il tempo stringe e la vendetta va compiuta. Francesco patteggia otto mesi, la pena è sospesa e viene scarcerato, ma ha l’obbligo di firma: ogni martedì e venerdì deve presentarsi ai carabinieri di Rosarno. Il 15 marzo assolve il suo compito, poi parte alla volta di Genova. È lì che Maria Teresa Gallucci si è rifugiata insieme alla madre ultrasettantenne, Nicolina Celano. La morte del suo amante l’ha terrorizzata. Sa bene cosa l’aspetta nel suo paese, e ha deciso di cambiare aria. In Liguria vivono tantissimi parenti, tanti emigrati calabresi pronti a sostenerla. Pensa che è solo questione di tempo e, passata la bufera, anche la ‘ndrangheta dimenticherà. Si tratta solo di non farsi vedere.
Le donne trovano ricovero in una casa popolare in Via Scarpanto sulle alture di Pegli, nel ponente genovese. Lì abita al primo piano di un palazzone rosa Concetta Gallucci, sorella e figlia delle due. Arrivano prima di Natale, e si chiudono in casa. Una vita ritiratissima, diranno i vicini. Per qualche mese ci si stringe un po’ – sono in sette: Concetta con il marito e i tre figli e le due nuove arrivate – ma la vita procede tranquilla e attorno alla famiglia si stende una rete di protezione grazie agli altri tre fratelli di Maria Teresa, ormai da tempo di stanza nei carruggi.
La mattina del 18 marzo gli uomini sono via, il più piccolo dei ragazzi è ospite da parenti, la padrona di casa è già al suo lavoro di collaboratrice domestica. In Via Scarpanto ci sono solo le donne: Maria Teresa e la vecchia Nicolina Celano, insieme alla nipote Marilena Bracaglia, che ha ventidue anni, studia da architetto e non ne vuole sapere di svegliarsi, ancora sotto le coperte del divanoletto del soggiorno, che la ospita ormai da diverse settimane. Tra le nove e le dieci si compie la strage. Suonano alla porta e Maria Teresa s’accosta all’ingresso. Di certo conosce il nuovo venuto, e lo accoglie senza nemmeno indossare la vestaglia. I primi colpi sono per lei. Al capo. Poi tocca alla giovane Marilena, fulminata nel sonno con due pallottole alla testa. Ultimo atto della tragedia l’uccisione della nonna, accorsa in soggiorno in pigiama e a piedi nudi, con il cuore che galoppa e già teme il peggio visto il trambusto. Ancora dei colpi alla testa. Una carneficina, un lago di sangue che di lì a poco accoglierà i parenti delle vittime. I minuti successivi alla strage sono tranquilli. Il telefono di casa squilla ripetutamente. È Concetta Gallucci, che come sempre chiama per sincerarsi che tutto vada bene. Le mancate risposte la insospettiscono: le donne della sua famiglia escono raramente di casa, impossibile si siano allontanate. Un presentimento frutto delle tensioni dei mesi precedenti. E allora attorno a mezzogiorno a Pegli si precipita uno dei tanti parenti calabro-liguri, trova il capofamiglia intento a lavorare nell’orto, insieme salgono in casa, dove nessuno ha risposto al citofono. E poco dopo arrivano gli investigatori.
C’è sangue dappertutto. Sono stati sparati una decina di colpi, ma si trovano solo sei bossoli. Sono state usate una pistola automatica calibro 22 e una 38 special a tamburo. Nessuno ha avvertito le esplosioni, neanche i vicini e i conoscenti. Di certo sono stati utilizzati dei silenziatori, anche se è difficile applicarli a una rivoltella. Due armi, dunque, e probabilmente due killer. Qualche indizio salta fuori: un abitante del palazzo ha notato un ragazzo allontanarsi giù per le scale quella mattina, pressappoco all’ora presunta della strage. Ma lo ha visto solo di spalle. Altri invece raccontano di una moto di grossa cilindrata con due giovani a bordo. Quella moto, giurano, non si era mai vista prima. E a Pegli non si capita per caso. Indizi, nulla di più. Le voci nel quartiere parlano di un ragazzo, un parente calabrese in visita in quel periodo. Ma sono solo voci.
Francesco è a Genova da qualche giorno. E si è fatto vedere a Pegli. Difficile possa sfuggire la sua presenza in un quartiere di emigrati dalla Piana di Gioia Tauro. Forse è ospite di amici, forse addirittura si fa accogliere dalla madre e dagli zii. È un giallo mai chiarito. Perché nella casa al primo piano del palazzone popolare sono sette i letti disfatti quella mattina. Ma solo in sei risultano all’appello. Chi ha dormito in quella casa? E soprattutto come ha fatto il killer a farsi accogliere senza destare sospetti? Forse è lo stesso Francesco il settimo, forse è il fratello Antonio di sedici anni, oppure un cugino degli Alviano. Di certo quella presenza non era stata vissuta come un pericolo. E nemmeno le segnalazioni che davano Francesco in visita in Liguria. Nessuno pensava in quelle ore che la sentenza del tribunale della ‘ndrangheta stesse per essere eseguita. Che abbia agito da solo, con la complicità di un familiare o con l’aiuto di un compare, Francesco Alviano ha le ore contate. Si mette subito in macchina, attorno alle dieci di mattina, e vola a razzo verso la Calabria. È venerdì e deve firmare in caserma, per non compromettersi senza rimedio. Ci vogliono undici-dodici ore per compere i 1.100 chilometri che separano la riviera genovese dalla piana reggina. Ma con una buona auto, un buon autista e soprattutto un buon motivo, quel lungo tratto di statali, autostrade, caselli, viadotti, ponti e gallerie si può percorrere in meno di dieci ore. Con anche il tempo di qualche sosta in autogrill per urinare sulle proprie mani e lavarle ripetutamente, così da cancellare le tracce della polvere da sparo.
Alle diciannove e trenta del 18 marzo, Francesco si presenta ai carabinieri di Rosarno, freddo e impenetrabile. Lo arrestano subito, con l’accusa di aver compiuto quattro omicidi: quello delle tre donne e quello dell’uomo ammazzato a novembre. Lui nega con forza e sciorina il suo alibi: è stato con la cugina quel giorno, e poi si è fatto vedere a Rosarno. Non gli credono. Finisce in cella, e con lui Concett Loredana Pelloriti, accusata di falsa testimonianza. Nel giro di qualche giorno saranno scarcerati. Gli indizi sono insufficienti. Anche l’esame dello stub, per rilevare le tracce di polvere da sparo, dà esito negativo. È passato troppo tempo dall’ora del delitto, dicono gli investigatori.
A Genova ai funerali il clima è di sconcerto e commozione. Ci sono i parenti calabresi e i tanti amici della giovane Marilena, molto impegnata nel sociale con la Comunità di Sant’Egidio. Sono gli «ultimi» a rendere omaggio alle vittime, che resteranno senza giustizia. L’ottobre successivo le indagini vengono archiviate: escono di scena Francesco Alviano e due suoi cugini, indagati per il triplice omicidio.
Articolo da L’Unità del 19 Marzo 1994
Tre donne uccise a Genova
Lite o vendetta della ‘ndrangheta?
di Rossella Michienzi
Massacrate in casa studentessa, nonna e zia. Una pista calabrese.
GENOVA. Strage di donne, ieri mattina, in un appartamento di Via Scarpanto a Pegli, quartiere collinare del ponente genovese: una ragazza di 22 anni, una sua zia e la nonna sono state uccise a colpi di pistola.
Oscuro, per ora, il movente della tragedia, anche se le indagini appaiono indirizzate verso una vendetta trasversale della ‘Ndrangheta.
La più giovane delle vittime si chiamava Marilena Bracaglia; studentessa universitaria, iscritta la secondo anno di architettura, era molto attiva e conosciuta tra i volontari della Comunità Sant’Egidio. In via Scarpanto abitava con tutta la famiglia, composta dal padre Dante, “palista” alle dipendenze di una impresa edile della Valbisagno, dalla madre Concetta Galluccio, collaboratrice domestica, e dal fratello Pino, di 29 anni, tappezziere.
Insieme a lei, nella stessa spaventosa esplosione di furia omicia, hanno perduto la vita la zia Maria Teresa Galluccio, di 40 anni, vedova da poco, e la nonna Nicolina Celano, di 74, che – residenti a Rosarno, in Calabria – erano arrivate a Genova da alcune settimane.
A scoprirne i tre cadaveri sarebbe stato Dante Bracaglia. Pare che a metà mattina l’uomo stesse trafficando in un orto vicino a casa e lì sia stato rintracciato da un parente che, giunto in visita alla nonna, aveva ripetutamente e invano suonato al campanello di casa. A quel punto Bracaglia sarebbe andato a verificare e avrebbe trovato l’inferno: nell’appartamento sangue dappertutto e, nella sala da pranzo, le tre donne ancora in pigiama , i visi sfigurati dai colpi, una riversa su un divano, le altre due bocconi per terra. Alla porta di ingresso, però, nessun segno di effrazione, difficile dunque pensare ad un assassino sconosciuto. Ed è per questo che, nonostante le dichiarazioni ufficiali – secondo cui «nessuna pista viene trascurata, e non si scarta nessuna ipotesi del movente» – le indagini dei carabinieri paiono piuttosto ristrette all’ambito di chi con le vittime aveva consuetudine e confidenza, e si scava nel reticolo dei rapporti affettivi e di interesse tra i diversi nuclei familiari.
Ad esempio, sarebbero stati lungamente sentiti tre fratelli di Concetta e Maria Teresa Galluccio, tutti residenti a Genova. Dal canto suo il magistrato di turno, cioè il sostituto procuratore della Repubblica Mario Morisano, si è trincerato dietro un riserbo assoluto. «Ho tre cadaveri e nessun indiziato», ha ripetuto per tutta la giornata ai giornalisti. Qualcosa di più è emerso, ma confusamente, dalle testimonianze raccolte tra i vicini, che nelle ore e nei minuti precedenti l’allarme avrebbero sentito provenire da casa Bracaglia i rumori di un litigio violento e prolungato, e avrebbero notato più d’una persona entrare e uscire dall’appartamento. A parte il resoconto degli echi della tragedia, il coro del condominio è unanime: «brava gente, bravissime persone». I carabinieri, eseguiti gli opportuni accertamenti anche a Rosarno, indirettamente confermano: tutti incensurati, nessun precedente a carico di nessuno.
Eccettuato il 23enne Francesco Alviano, figlio di Maria Teresa Galluccio, arrestato nel febbraio scorso in Calabria per favoreggiamento nei confronti del latitante Antonino Pesce, appartenenete all’omonima cosca. Sarà per questo che serpeggia, tra le altre ipotesi che possa trattarsi di strage di mafia. O forse di ‘ndrangheta, quasi che ci si trovi di fronte a qualche imprevista propaggine ligure di una delle tante faide tra cosche o famiglie che insanguinano negli anni la Calabria? Fa parte del classico ventaglio delle «ipotesi al momento tutte possibili». O c’è qualche misterioso elemento a suffragare? Gli inquirenti fanno muro, non confermano e non smentiscono. Le indagini proseguono in tutte le direzioni, ripetono, ed è tutto.
Articolo da L’Unità del 20 Marzo 1994
Strage di Genova – Fermato il figlio di una delle vittime
Fermato dai carabinieri in Calabria il presunto killer delle tre donne massacrate a Genova a colpi di pistola alla testa, si tratta di un giovane di 23 anni, figlio di una delle vittime. Avrebbe ucciso per «vendicarsi» della relazione che la madre, vedova da anni, aveva allacciato con Francesco Arcuri, in odore di ‘ndrangheta, assassinato nel novembre scorso. Secondo gli inquirenti il ragazzo sarebbe responsabile anche di quel delitto.
GENOVA. Una strage di famiglia. Non una vendetta trasversale tra cosche della ‘ndrangheta né la propaggine di una faida tra «famiglie» mafiose ma proprio un eccidio maturato nel cuore di un’unica famiglia anche se sullo sfondo della violenza tra clan che insanguina la Calabria. questa secondo gli inquirenti sarebbe la «spiegazione» del triplice omicidio consumato ieri mattina in un appartamento sulle alture del ponente genovese ad uccidere le tre donne sarebbe stato un giovane di 23 anni, figlio di una delle vittime. Avrebbe ucciso per «vendicarsi» della relazione che la madre vedova da anni aveva forse allacciato con un uomo in odor di ‘ndrangheta assassinato a Rosarno nel novembre scorso. E sarebbe addirittura responsabile anche di quel primo delitto.
A coronamento di questa agghicciante ricostruzione il fermo, l’altro ieri sera a Rosarno di Francesco Alviano figlio di Maria Teresa Gallucci, 40 anni, massacrata a colpi di pistola alla testa insieme alla madre Nicolina Celano di 74 anni e alla nipote ventiduenne Marilena Bracaglia. In attesa che il giudice delle indagini preliminari di Palmi convalidi trasformandolo in arresto il fermo del presunto killer quella che emerge in filigrana è dunque una storia di ordinaria e sanguinosa follia famigliare germinata comunque all’ombra della criminalità organizzata.
Il prologo della strage di Pegli sarebbe infatti da far risalite all’omicidio di tal Francesco Arcuri di Rosarno raggiunto da una scarica di lupara il 4 novembre dello scorso anno e deceduto undici giorni dopo nell’ospedale di Polistena dove era stato ricoverato. A Rosarno non era un mistero che tra Arcuri e Maria Teresa Gallucci ci fosse una relazione.
Tanto è vero che l’altro ieri tra le varie «letture» abbozzate dopo il massacro di via Scarpanto aveva preso corpo anche l’ipotesi che Maria Teresa Gallucci fosse stata messa a tacere (insieme alle parenti sfortunate testimoni) perché a conoscenza dello stesso pericoloso segreto che poteva aver causato l’assassinio dell’amante. Sarebbero però rimaste da spiegare un paio di obiezioni di grande spessore, connesse con i rituali e le leggi della ‘ndrangheta: perché una strage di donne e perché così lontano da Rosarno? La ‘ndrangheta sottolineano gli esperti preferisce dimostrare il proprio potere nel territorio in cui è radicata e Maria Teresa Galluccio avrebbe potuto essere più facilmente raggiunta a Rosarno dove abitualmente risiede e dove era infatti stata presente fino a poche settimane fa. Ma soprattuto questa o quella cosca se pure avessero avuto bisogno di lanciare un messaggio forte o eliminare un pericolo altrettanto forte, avrebbero comunque evitato una strage di donne, un’azione che secondo quel codice d’onore toglie e non aggiunge prestigio a mandanti ed esecutori.
Un’altra ipotesi formulata dopo le prime indagini parlava di vendetta trasversale e già chiamava in causa seppure nel ruolo di vittima indiretta il giovane Francesco Alviano ben noto alle forze dell’ordine di Rosarno come militante al servizio del clan dei Pesce una «famiglia» che pare controlli l’intera zona con influenze fino alla piana di Gioia Tauro. Un mese fa Antonino Pesce, boss dell’omonimo clan latitante di rango grazie ad una soffiata giusta era finito nella rete degli inquirenti e le manette erano scattate anche ai polsi del giovane Alviano che al momento della cattura gli faceva da guardiaspalle. Per il ragazzo, accusato di semplice favoreggiamento, la detenzione era durata soltanto due giorni ed era stato rimesso in livertà con l’obbligo di firmare il registro dei carabinieri ogni martedì e venerdì tra le 19 e le 20- Perché allora non ipotizzare che Alviano, uscito così rapidamente dal carcere fosse sospettanto dalal cosca di tradimento e che la vendetta lo avesse raggiunto trasversalemnte con l’assassinio della madre, della nonna e della cugina?
Evidentemente, oltre all’obiezione sulla strage di donne deve esserci stato qualche concreto elemento di indagine che ha convinto gli inquirenti ad abbandonare sì quella opotesi ma non la pista che da Genova portava direttamente a Rosarno e al ragazzo Alviano. Sta di fatto che venerdì sera alle 19,30 quando il giovane si è presentato come da obbligo a firmare il registro i carabinieri l’hanno fermato con l’accusa tremenda di essere il killer di via Scarpanto e prima ancora, dell’amante della madre. Francesco Alviano cioè nel novembre scorso a Rosarno avrebbe ferito a morte a pallettoni Francesco Arcuri e l’altro ieri, arrivato a Pegli direttamente dalla Calabria, accolto senza sospetto dalla madre, l’avrebbe fulminata a colpi di pistola forze silenziata «obbligato» poi ad eliminare anche le altre due donne presenti nell’appartamento. Quindi sarebbe subito ripartito per la Calabria in tempo per presentarsi alla firma entro l’orario stabilito.
Foto e Articolo da LA STAMPA del 21 Marzo 1994
«La strage ordinata dai boss»
di Lorenzo Del Boca Prato
Donne uccise a Genova, nuova pista
Sarebbe stata la ‘ndrangheta a spingere il giovane ad ammazzare madre, nonna e cugina
GENOVA. Caccia ai complici. Si sta accreditando l’ipotesi che non abbia potuto fare tutto da solo: Francesco Alviano, accusato di aver ucciso la madre, la nonna e la cugina nell’alloggio di via Scarpanto a Genova Pegli, deve essere stato aiutato da qualcuno.
Per scambiarsi le informazioni acquisite in 48 ore di rapidissime indagini, è telefono rosso fra i magistrati calabresi che hanno confermato il fermo del giovane e quelli liguri titolari dell’inchiesta. Manca qualche tassello nel puzzle e qualche particolare sembra in contraddizione con altri. Il giovane (sospettato di appartenere al clan della ‘ndrangheta guidato dal boss Pesce) ha ucciso per difendere un malinteso senso dell’onore della famiglia. La madre, Maria Teresa Gallucci, flirtava con un commerciante del paese, Francesco Arcuri. Era vedova da dieci anni, libera per la legge di Dio e degli uomini ma non per quella dei clan che dalle donne pretende fedeltà anche quando il marito non c’è più. Perciò il figlio ha deciso di troncare col sangue una relazione sgradita.
Prima l’uomo, il 4 novembre scorso, e, l’altro giorno, la madre. Forse non sono estranee le minacce del boss e dei parenti della prima vittima i quali, secondo un’altra consuetudine altrettanto forte e altrettanto rispettata dagli uomini d’onore, avrebbero dovuto vendicarsi della morte del familiare. A meno che Francesco Alviano non avesse completato la sua vendetta uccidendo anche la donna. Un delitto compiuto su istigazione, se non proprio obbligato. E questo è il primo elemento attorno al quale gli inquirenti devono fare chiarezza.
Giunto a Genova da Rosarno di Reggio Calabria, probabilmente in aereo, il giovane ha potuto contare sull’aiuto di un conoscente che l’ha aspettato all’aeroporto, l’ha accompagnato in via Scarpanto e l’ha infine riportato indietro per consentirgli di riprendere un volo utile per ritornare a casa in serata. I testimoni infatti hanno visto due persone con la motocicletta. I proiettili che hanno massacrato Maria Teresa Gallucci, vittima predestinata, e le altre due donne, Nicolina Cerano e Marilena Bracaglia, diventate testimoni da eliminare, sono stati sparati da due rivoltelle: una calibro 22 semiautomatico e una 38 a tamburo. La stessa persona con due armi o due persone con un’arma ciascuno?
Infine il piccolo mistero del settimo letto. La casa di via Scarpanto disponeva di tre camere: in una hanno dormito i padroni di casa, i coniugi Dante e Concetta Bracaglia, nell’altra le due donne madre e figlia, Nicolina Cerano e Teresa Gallucci, nella terza il figlio dei Bracaglia, Pino, mentre l’altra ragazza, Marilena, è adattata a dormire sul divano in salotto. I Bracaglia hanno un altro figlio, Angelo, 14 anni, che però proprio perché non c’era posto a sufficienza è stato ospitato a Sestri da altri parenti. È vivo per miracolo perché all’ora del delitto sarebbe stato quasi certamente in casa e non sarebbe sfuggito alla furia dell’assassino. Però, nella stanza di Pino Bracaglia, c’era una brandina con delle coperte sfatte. Un’altra persona, un maschio, ha dormito là quella notte. Silenzio di tomba degli inquirenti. Sembra escluso che si tratti di Francesco Alviano. Ma allora chi? In un delitto che sembrerebbe spiegato quanto a responsabilità, dinamica e motivazioni, alcune domande restano senza risposta.
Fonte: archiviolastampa.it
Articolo del 22 marzo 1994
Solo indizi, non è lui il «mostro di Pegli»
di Guido Coppini
Torna in libertà Francesco Alviano, chi ha ucciso le tre donne?
Si ripiomba nel mistero. Franceso Alviano, 23 anni, fino a ieri principale indiziato del massacro avvenuto in un appartamento del palazzo rosa sulle colline di Pegli, è stato rimesso in libertà dai giudici della procura di Palmi. Versione ufficiale: mancanza di indizi. Ma lo aveva già anticipato il sostituto procuratore di Genova Mario Morisani, che ha diretto le indagini: «Non esistono riscontri sulla responsabilità di Alviano».
Non tutti sono convinti di questa «innocenza»: si sa che la polizia sta mostrando foto dell’indiziato in aeroporto e alle stazioni, indagando su come Alviano potrebbe essere ripartito da Genova venerdì, dopo la strage, per tornare in Calabria.
C’è un aereo che parte dal «Cristoforo Colombo» ed arriva a Lamezia Terme alle 18. Poiché alle 19,30 il giovane si è presentato a firmare il registro alla caserma dei carabinieri di Rosarno (come è previsto per tutti i pregiudicati, e lui lo è) potrebbe aver avuto il tempo – si era pensato – di sparare alle tre donne e ritornare la stessa sera in Calabria. Ma la decisione della procura di Palmi impone ora di ricominciare da zero.
Le indagini, dunque, al punto di partenza. Non solo sull’autore del delitto di Maria Teresa Galluccio, sua madre Nicolina Celano e la cuginetta Marilena Bracaglia, ma su quanti furono presenti sulla scena del crimine. A sparare, secondo i carabinieri, non fu uno solo. C’era anche un complice. Lo si è desunto dai bossoli trovati nella stanza dove avvenne la micidiale sparatoria. Fecero fuoco due pistole. Una «P38», con proiettili dagli effetti devastanti, nota non sole alle sanguinose faide della Piana di Gioia Tauro, ma tristemente famosa anche in altre parti del Paese, negli anni del terrorismo. E c’era una «calibro 22». L’assassino aveva un complice nella stanza, un basista che aveva spiato le mosse delle donne e poi era salito con il killer, pistola in pugno?
Insorge la comunità calabrese in Liguria, che ieri sera ha fatto conoscere il suo pensiero: «Siamo tanti emigrati in questa regione, siamo onesti, non abbiamo mai avuto alcun legame mafioso». È un giudizio largamente condiviso anche sulle colline di Pegli dove molti meridionali hanno trovato un lavoro onesto. Ma ora incombe la paura. Se l’assassino non è venuto dalla Calabria, se ha davvero un complice, chi può sentirsi veramente sicuro nelle villette isolate oltre la «città giardino», nei casermoni dell’Istituto case popolari, nelle «lavatrici», che sembrano non appartamenti, ma loculi a mezza costa?
Nessuno a Pegli accetta di parlare, si dice anche che qualcuno sia scappato. Parla un’inquilina del palazzo della strage, la signora Celeste, che abitava vicino all’appartamento delle donne uccise: «Certo, abbiamo paura. Non intendiamo esporci, temiamo la vendetta. Ecco perché se lei suona in quegli appartamenti nessuno risponde. La gente preferisce spiare dalle persiane, io sono meridionale, vivo da oltre quarant’anni a Pegli. Ora io e la mia famiglia pensiamo di cambiare casa».
L’ipotesi di un killer venuto dalla Calabria era parsa del resto a molti un po’ macchinosa, una missione di morte che aveva tempi estremamente stretti, dovendo il presunto assassino trovarsi la sera stessa a firmare il registro dei carabinieri di Rosarno. E pareva anche un evento troppo crudele. «Ma come si chiedeva ieri un’anziana signora – uno fa 1200 chilometri per venire ad ammazzare la madre, solo colpevole – lei vedova, giovane e piacente – di aver avuto una relazione? Ma quale cosca proteggerebbe mai un’azione del genere e come un clan troverebbe alibi per uno che uccide anche la nonna e la cugina perché testimoni? Io credo che l’assassino (e forse il suo complice) vadano cercati molto più vicino».
Articolo da LA STAMPA del 6 Aprile 1994
STRAGE DI PEGLI Erano due i killer
Due killer nella strage di via Scarpanto a Pegli. Ieri mattina, infatti, il sostituto procuratore Mario Molisani ha ricevuto la consulenza tecnica in cui si evidenzia come due delle vittime Maria Teresa Gallucci, 40 anni, e sua nipote Marilena Bracaglia, 22 anni, sono state uccise con una pistola dotata di silenziatore, mentre la nonna Nicolina Celano, 74 anni, è stata freddata con un revolver «P38» in un’altra stanza dell’abitazione. Secondo quest’ultima ricostruzione, uno degli assassini sarebbe entrato in camera da letto e utilizzando il silenziatore ha ucciso le due donne più giovani. Quando è arrivata inavvertitamente la nonna e ha scoperto il delitto l’altro killer ha esploso i colpi con la sua arma per farla tacere. In un primo tempo era stato fermato e accusato del delitto Francesco Alviano, 23 anni, figlio della Gallucci, ma poi era stato scarcerato per mancanza di indizi. [a.l.]
Articolo da LA STAMPA dell’1 Dicembre 1995
Strage di Pegli, delitti senza colpevole
di Attilio Lugli
Una studentessa calabrese di 22 anni, la zia di 40 e la nonna di 79 erano state uccise a colpi di pistola.
Archiviata l’inchiesta sul triplice omicidio del ’94 in via Scarpanto.
GENOVA. Era stata una strage di donne la mattina del 18 marzo dello scorso anno in un appartamento di via Scarpanto a Pegli: una ragazza di 22 anni, una sua zia e la nonna erano stati uccisi a colpi di pistola. I sospetti erano caduti su tre nipoti della donna più anziana. Ma ora il giudice delle indagini preliminari Massimo Todella, su richiesta del sostituto procuratore della Repubblica Anna Canepa, ha archiviato il caso per la totale mancanza di indizi nei confronti degli indagati.
Movente ed esecutori del triplice delitto rimangono quindi sconosciuti. Uno degli indagati, Francesco Alviano, (difeso dall’avvocato Salvatore Bottiglieri) era stato addiritura arrestato pochi giorni dopo e successivamente scarcerato. Altri due suoi cugini Domenico Leotta e Francesco De Marte (tutti abitanti a Rosarno in Calabria) erano stati indagati a piede libero.
La più giovane delle vittime si chiamava Marilena Bracaglia, 22 anni, studentessa universitaria, iscritta al secondo anno di achitettura, era molto attiva e conosciuta tra i volontari della Comunità di Sant’Egidio. In via Scarpanto abitava con tutta la famiglia, composta dal padre Dante, «palista» alle dipendenze di un’impresa edile in Val Bisagno, dalla madre Concetta Galluccio, collaboratrice domestica, e dal fratello Pino, 29 anni, tappezziere.
Insieme a lei nella stessa spaventosa esplosione di follia avevano perduto la vita la zia Maria Teresa Galluccio, 40 anni, da poco tempo vedova, e la nonna Nicolina Celano, 74 anni, che residenti a Rosarno erano arrivate a Genova dalla Calabria da alcune settimane e si erano sistemate nell’alloggio sulle alture di Pegli.
Secondo le prime spiegazioni degli inquirenti, poi smentite dal decreto di archiviazione del giudice Todella, gli omicidi sarebbero maturati nell’ambito familiare. Francesco Alviano sarebbe giunto a Genova per uccidere la madre Maria Teresa Gallucci per vendicarsi di una relazione che la donna aveva con un tal Franceso Arcuri, ucciso a colpi di lupara il 4 novembre del ’93 a Rosarno. Ipotesi accusatorie che non hanno trovato alcun riscontro, tanto è vero che lo stesso pubblico ministero ha chiesto l’archiviazione delle indagini nei confronti dei tre indagati.
Fonte stopndrangheta.it (12/02/2012)
Gli orfani del muratore Alviano e “u Zi Peppi”. Dalla strage di Genova all’ascesa di Pino “u Rospu”
di Francesca Chirico
Nel biglietto sequestrato a Francesco Pesce Testuni, alla base dell’operazione Califfo e del fermo di 11 presunti affiliati alla cosca, c’è il nome di Giuseppe Alviano, braccio destro del reggente della famiglia. La protezione dei Pesce: il padre muratore è morto mentre costruiva la casa del superboss “Zi Peppi” Pesce e da allora dei tre fratelli s’è fatta carico la famiglia ‘ndranghetista. Vincenzo Alviano è l’ex marito di Marina Pesce, sorella della pentita Giusy. E su Francesco Alviano pesano le recenti accuse del pentito Salvatore Facchinetti: ha ucciso l’amante della madre. Per l’omicidio di Francesco Arcuri nessuno ha pagato. Così come per la morte di Maria Teresa Gallucci in Alviano, uccisa negli anni ’90 a Genova insieme alla madre Nicolina Celano e alla giovane nipote Marilena Bragaglia. Per lungo tempo è circolata una storia sulla strage, mai confermata e dunque solamente verosimile: gli Arcuri avrebbero chiesto la testa di Ciccio Alviano, ritenuto l’assassino del loro parente, ottenendo un rifiuto dai Pesce. Ma per mettere le cose a posto, come si raccconta nel libro Dimenticati, s’è dovuto lavare col sangue l’onore della famiglia.
ROSARNO – “Pino rospo”, quando il padre volò dall’impalcatura, aveva tre anni. L’asse di legno si era spezzata sotto il suo peso e l’uomo, un muratore di Rosarno, era venuto giù di schianto lungo il ponteggio, morendo di fronte alla casa in costruzione. In paese ci fu dolore per la sua brutta sorte e commozione per la giovane e bella vedova, Maria Teresa Gallucci in Alviano, rimasta a crescere, da sola, Francesco (5 anni), Giuseppe (3 anni) e Vincenzo Alviano (1 anno). Dubbi che la sfortunata famiglia potesse restare senza sostegno, però, a Rosarno non ne ebbe mai nessuno. Alviano era stramazzato al suolo mentre lavorava ad un appalto importante: stava costruendo la nuova casa di Peppe Pesce, il capobastone del paese. Su quei tre maschi, un po’ per il senso di colpa, un po’ per il dispiacere, avrebbe vegliato lui.
Arriva da lontano, e ha origini da melodramma, la presenza di Giuseppe Alviano (36 anni), alias “Pino Rospo”, tra i sei “fedelissimi” ai quali Francesco Pesce “Testuni” intendeva affidare, attraverso il pizzino sequestrato nel carcere di Palmi, la protezione e promozione a reggente del fratello minore Giuseppe. Destinatario di un decreto di fermo emesso dalla Dda di Reggio Calabria nell’ambito dell’operazione “Califfo”, non c’è solo quel pizzino a dire che Giuseppe Alviano è uomo dei Pesce. Anche il pentito Salvatore Facchinetti ricostruisce, parlando con i magistrati il 26 giugno 2007, la storia di un legame saldato dall’infortunio mortale del capofamiglia. “Il padre di Alviano è morto nella casa di Giuseppe Pesce, quando la stavano costruendo allora, ha avuto un incidente sul lavoro questo qua, e lo ha sempre accudito Peppe Pesce, perché sono tre fratelli questi Alviano”. Sotto le ali protettive del vecchio capobastone, dunque. Che cosa significasse “accudire”, nel vocabolario dei Pesce, lo raccontano le vicende tragiche e i trascorsi giudiziari che negli anni hanno investito i tre fratelli rimasti orfani, il 18 marzo 1994, anche della madre. Per Maria Teresa Gallucci non è stato, come per il marito, un sfortunato incidente. Le hanno dato la caccia fino a Genova e l’hanno ammazzata a colpi di pistola, insieme con l’anziana madre e con una giovane nipote, studentessa universitaria. Una strage di donne, rimasta senza colpevoli. Una strage che ha visto indagato il figlio maggiore, Francesco Alviano, all’epoca ventenne. Il capitolo, tragico, lo riapre sempre Salvatore Facchinetti nel decreto di fermo dell’inchiesta Califfo: “Ad Arcuri Francesco lo ha ucciso Alviano Francesco… perché era l’amante di sua madre…”.
“Un uomo, Francesco Arcuri, di 33 anni, è stato ferito gravemente a colpi di pistola in un agguato, questa sera, a Rosarno, mentre si trovava nella boutique del cognato. Arcuri, colpito dai proiettili all’addome, è stato portato nell’ospedale di Polistena, dove è stato giudicato con riserva della prognosi” (Ansa, 5 novembre 1993, ore 20:45). Morirà undici giorni dopo, Francesco Arcuri, raggiunto da nove colpi di pistola spalmati tra testa e genitali. Messaggio chiaro: questione di donne. Di donne che non bisognava neppure guardare. Per molti, a Rosarno, quel messaggio è anche una firma: Francesco Arcuri aveva una relazione con Maria Teresa Gallucci, vedova a 25 anni, madre premurosa e attenta dei tre fratelli Alviano e, a quasi vent’anni dalla morte del marito, donna che aveva riscoperto l’amore. E’ per questo che di Francesco Alviano, figlio maggiore della donna, e protetto di “zi Peppi” Pesce, sospettano subito tutti: i carabinieri che lo interrogano, ma senza cavare elementi sufficienti ad incriminarlo, e i parenti di Arcuri che giurano vendetta sulla sua tomba. Facchinetti racconta i retroscena: “Hanno chiesto l’autorizzazione di ammazzare uno degli Alviano ma non hanno ricevuto il benestare dei Pesce dato lo strettissimo rapporto esistente tra questa famiglia e gli Alviano”. I ragazzi non si toccano. Per il sangue del padre muratore volato giù davanti a casa Pesce. E anche perché sono ormai di “famiglia”. Francesco, il maggiore, è cresciuto al fianco di Angelo Tutino, il nipote preferito di don Peppino, e di sapersi assumere responsabilità da adulto lo dimostrerà nel febbraio 1994 patteggiando otto mesi per favoreggiamento personale: l’avevano arrestato per aver nascosto alcune pistole del boss latitante Antonino Pesce. E’ in quei giorni che Maria Teresa Gallucci scappa da Rosarno con l’anziana madre, rifugiandosi a Genova presso parenti. Ha paura. Teme che dopo l’amato possa toccare a lei, ma da quale fronte possa spuntare la pistola forse non lo sa: da una parte ci sono i parenti dell’Arcuri in cerca di vendetta, e dall’altra la legge rosarnese dell'”onore” che per le donne non prevede pietà e comprensione. Se quello di Arcuri era stato un delitto d’onore ora, al killer, chiunque fosse, toccava andare fino in fondo.
Sussurrano anzi in paese che proprio quello era stato il patto con cui i Pesce avevano salvato dalla vendetta i fratelli Alviano (la storia della strage di Genova è raccontata nel libro Dimenticati). Ipotesi. Di certo c’è solo che la mattina del 18 marzo 1994 a Pegli, nel ponente genovese, una calibro 22 e una calibro 38 firmano una strage di donne: nella casa popolare di via Scarpanto dove Maria Teresa è ospite della sorella, vengono ammazzate la donna, la madre settantenne Nicolina Celano, accorsa al rumore degli spari, e la 22enne Marilena Bracaglia, nipote delle due, freddata mentre si trova ancora sotto le coperte del divano letto. A distanza di 10 ore dal triplice omicidio di Genova Francesco Alviano si presenta alla tenenza dei carabinieri di Rosarno per il consueto appuntamento con l’obbligo di firma. E lì lo ammanettano. Anche questa volta è lui il primo e unico indiziato. Anche questa volta sarà scarcerato dopo pochi giorni. Stessa fine per le indagini, archiviate di lì a qualche mese.
Cresciuti senza padre, rimasti senza madre, ai fratelli Alviano ora non sono rimasti che i Pesce. Vincenzo, il più piccolo, sposerà Marina Pesce, sorella della collaboratrice di giustizia Giuseppina, e figlia di Salvatore Pesce, insieme al quale finirà in carcere per reati legati al traffico di stupefacenti. Giuseppe, “Pino il rospo”, diventerà inseparabile di Francesco Pesce “Testuni”, tanto da essere menzionato nel suo pizzino e finire, anche per questo, in galera per associazione mafiosa. Secondo il pentito Facchinetti, poi, “…sono tutti e tre i fratelli che sono… che gestiscono sul ruolo delle arance pure. Uno fa i veci di Turi u babbu (Salvatore Pesce, ndr), il genero, gli altri due fratelli sono, per dire, uno CU TESTUNI, i ‘sti Alvianu, e uno cu Angelo Tutino che gestiscono ‘sti cooperative….”. Gli orfani del muratore sono diventati grandi.
Fonte: stopndrangheta.it (24/05/2012)
La strage di Genova e il racconto di Giusy Pesce: fu delitto d’onore
La mattina del 18 marzo 1994 a Pegli, nel ponente genovese, una calibro 22 e una calibro 38 compiono una strage di donne: in una casa popolare di via Scarpanto vengono ammazzate la vedova rosarnese Maria Teresa Gallucci, la madre settantenne Nicolina Celano, accorsa al rumore degli spari, e la 22enne Marilena Bracaglia, nipote delle due, freddata mentre si trovava ancora sotto le coperte del divano letto. Primo e unico indiziato, il ventenne di Rosarno Francesco Alviano, uno dei tre figli di Maria Teresa, poi scagionato. Nel corso della sua deposizione nell’ambito del processo All Inside, la collaboratrice di giustizia Giusy Pesce ha fornito una nuova ricostruzione della strage, puntando l’indice sui presunti responsabili: “Fu delitto d’onore ma a sparare non fu Francesco”.
LO STRALCIO DEL VERBALE DEL 24 maggio 2012.
TRIBUNALE DI PALMI – RITO COLLEGIALE SEZIONE PENALE
STRALCIO DEL VERBALE DI DEPOSIZIONE DI GIUSEPPINA PESCE
UDIENZA 24/05/2012
AULA BUNKER TRIBUNALE DI ROMA – P.n.R.G.TRIB.819/11 – R.G.N.R.4302/06
PROCEDIMENTO A CARICO DI ARMELI SIGNORINO + 62
Presidente CONCETTINA EPIFANIO
P.M. ALESSANDRA CERRETI
P.M. GIULIA PANTANO
(…)
P.M. DOTT.SSA PANTANO – Senta, Leotta Domenico fa parte della cosca Pesce?
IMP. PESCE – Sì.
P.M. DOTT.SSA PANTANO – Come fa a dirlo?
IMP. PESCE – Perché persona di fiducia di mio cugino Pesce Francesco e anche lui nell’ambito del traffico della droga insieme a Di Marte Francesco.
P.M. DOTT.SSA PANTANO – Ascolti, oltre che legato a suo cugino Francesco ha altri legami con altri componenti della cosca Pesce, se le risulta? Qualcuno dei suoi zii?
IMP. PESCE – Legami di amicizia con tutti, nel senso tipo di rispetto e di… cioè se deve essere a disposizione lo è anche di mio zio Vincenzo, insomma di tutti.
P.M. DOTT.SSA PANTANO – Ah, quindi di tutti? IMP. PESCE – Sì.
P.M. DOTT.SSA PANTANO – Quindi è un uomo a disposizione…
PRESIDENTE – E lei come lo sa questo?
IMP. PESCE – Perché è un riferimento Leotta per loro.
P.M. DOTT.SSA PANTANO – Eh, ma lei come fa a fare questa affermazione? Se lo sa da chi lo sa?
IMP. PESCE – Lo so perché in qualsiasi situazione, in qualsiasi occasione, insomma in qualsiasi cosa è come uno di famiglia per la famiglia Pesce, quindi per me che ci vivevo dentro vedevo che era una persona fidata della famiglia, di tutti in generale e…
P.M. DOTT.SSA PANTANO – Senta, Leotta Domenico frequentava l’abitazione di Pesce Francesco, classe ‘78?
IMP. PESCE – Nelle occasioni sì, ma giornalmente no, non l’ho… io non l’ho mai visto, però…
P.M. DOTT.SSA PANTANO – Lei dove ha visto insieme Leotta Domenico e Pesce Francesco, classe ‘78?
IMP. PESCE – Più frequentemente quando andavo a questo Lido Delfino che… l’estate, quindi là erano sempre insieme. Va beh, poi nelle occasioni… ripeto, perché io non è che li vedevo tutti i giorni, però quando li vedevo erano spesso insieme, sì.
P.M. DOTT.SSA PANTANO – Senta, sa se Leotta Domenico avesse rapporti di frequentazione con Alviano Vincenzo?
IMP. PESCE – Sì.
P.M. DOTT.SSA PANTANO – C’erano anche rapporti per quanto concerne attività criminali?
IMP. PESCE – Diciamo che Alviano Vincenzo più che altro con Di
Marte era il rapporto e siccome poi Di Marte… P.M. DOTT.SSA PANTANO – Di Marte quale, signora?
IMP. PESCE – Francesco.
P.M. DOTT.SSA PANTANO – Sì.
IMP. PESCE – E siccome Di Marte Francesco e Tetenna diciamo che erano in simbiosi, erano sempre insieme, quindi automaticamente aveva il rapporto sia con l’uno che con l’altro.
P.M. DOTT.SSA PANTANO – Ma in concreto sa, al di là della droga, di qualche attività criminale compiuta da Leotta Domenico?
IMP. PESCE – Scusi, non ho sentito.
P.M. DOTT.SSA PANTANO – Sa di ulteriori attività criminali compiute da Leotta Domenico, al di là della droga di cui ha già parlato?
IMP. PESCE – Sì.
P.M. DOTT.SSA PANTANO – Ecco, se mi spiega in quale contesto lo inserisce e come fa ad avere questa notizia?
IMP. PESCE – Sì. Siccome la madre di Alviano Vincenzo è stata uccisa so che quell’omicidio è stato fatto da Leotta e da Di Marte.
P.M. DOTT.SSA PANTANO – Quindi muore la madre di Alviano Vincenzo, per questo è a sua conoscenza, per mano di Leotta Domenico e Di Marte Francesco e qual è il motivo di questa uccisione, se lo sa?
IMP. PESCE – Sì, una relazione extraconiugale… no extraconiugale perché la signora era vedova, una relazione con un’altra persona, insomma.
P.M. DOTT.SSA PANTANO – E lei come ha appreso di questa notizia?
IMP. PESCE – Perché mia sorella era sposata Alviano Vincenzo. P.M. DOTT.SSA PANTANO – Quindi lo sa, voglio dire, da sua sorella, mi sta dicendo?
IMP. PESCE – Sì, dal contesto familiare, insomma sapevamo il motivo perché era stata uccisa la madre.
P.M. DOTT.SSA PANTANO – Okay. Altre attività criminali di Leotta Domenico?
IMP. PESCE – No.
P.M. DOTT.SSA PANTANO – Che lei sappia aveva un lavoro lecito Leotta Domenico?
IMP. PESCE – Aveva qualche negozio di abbigliamento, sì.
P.M. DOTT.SSA PANTANO – Aveva qualche negozio di abbigliamento dove, a Rosarno?
IMP. PESCE – Sì.
P.M. DOTT.SSA PANTANO – Ma era intestato… questi negozi di abbigliamento erano intestati a Leotta Domenico?
IMP. PESCE – Non lo so se erano intestati, però ci lavoravano lui, la moglie e le figlie e anche una ludoteca aveva.
P.M. DOTT.SSA PANTANO – Ho capito. Senta, la signora che è stata uccisa lei sa come si chiamava?
(…)
IMP. PESCE – Il nome lo ricordo, Maria Teresa. Mi sfugge un attimo il cognome, però…
P.M. DOTT.SSA PANTANO – E il padre di Alviano Vincenzo lei sa come si chiamava?
IMP. PESCE – Non mi ricordo in questo momento.
P.M. DOTT.SSA PANTANO – Sa a quanto tempo fa risale l’uccisione?
IMP. PESCE – Di chi?
P.M. DOTT.SSA PANTANO – Di questa signora, della signora Maria Teresa di cui le sfugge il cognome?
IMP. PESCE – Verso il ‘92/’93, se non sbaglio. PRESIDENTE – ‘92/’93?
IMP. PESCE – Sì, io ero una ragazzina. Forse anche prima. Forse ‘90/’91, perché mi ricordo che io tornai da scuola quando vidi il telegiornale che parlava di questa cosa.
PRESIDENTE – E quindi sua sorella glielo disse dopo questo?
IMP. PESCE – Sì, quando poi c’è stato il fidanzamento col ragazzo. Ma non me l’ha detto mia sorella comunque, l’ho saputo a casa, da mia madre… insomma se ne parlava a casa.
PRESIDENTE – Ma, dico, la giustizia li aveva perseguiti questi due soggetti?
IMP. PESCE – No, no, perché il delitto non è stato poi… cioè non si sono trovati…
P.M. DOTT.SSA PANTANO – Signora, mi scusi, come… voglio dire, per quale motivo sono proprio loro due che eseguono materialmente questa uccisione, se lo sa?
IMP. PESCE – Diciamo che la madre di questo ragazzo aveva un legame con la moglie del Di Marte, sarebbe la zia della moglie del Di Marte.
PRESIDENTE – Dico, questo era motivo per ucciderla? IMP. PESCE – La cugina, la cugina.
PRESIDENTE – E questo legame era un motivo per ucciderla? Non abbiamo capito.
IMP. PESCE – Praticamente è come se lui fosse subentrato per togliere il disonore.
P.M. DOTT.SSA PANTANO – È un delitto d’onore.
(…)
P.M. DOTT.SSA PANTANO – Signora, ma lei sa come venne uccisa questa signora?
IMP. PESCE – A colpi di arma. Entrarono delle persone in casa e quando aprì la porta spararono e uccisero anche la madre, se non sbaglio; la madre e una cugina.
P.M. DOTT.SSA PANTANO – Quindi ci fu un duplice omicidio in quella situazione?
IMP. PESCE – Sì, non ricordo se duplice o triplice, cioè la cugina adesso non lo so se è morta o se è stata ferita, però erano in casa queste donne, è entrato qualcuno e ha sparato.
P.M. DOTT.SSA PANTANO – La cugina della madre di Alviano Vincenzo? Quando dice la cugina, la cugina della madre, di questa signora morta?
IMP. PESCE – Sì, se non sbaglio era la cugina di questa signora e la madre di questa signora.
AVV. MERCURIO – Presidente, forse sarebbe bene che i nomi li facesse la teste e non venissero suggeriti dal Pubblico Ministero. C’è opposizione su questo teste.
PRESIDENTE – Non ha fatto dei nomi, Avvocato Mercurio. È stata lei a dire che in quella occasione erano state colpite la madre e la cugina e naturalmente il Pubblico Ministero ha detto: “Ma la cugina di chi e la madre di chi”. Avevamo capito, insomma avevamo intuito che fossero parenti cugina e madre dell’uccisa di cui stavamo parlando…
AVV. MERCURIO – Sì, ma la testa non ha fatto i nomi. È un riscontro (inc.).
PRESIDENTE – Sì, ma nessuno l’ha detto il nome.
P.M. DOTT.SSA PANTANO – Avvocato, non lo conoscevo neanch’io il nome, quindi non potevo suggerire.
PRESIDENTE – Ha capito male Avvocato, perché non è stato fatto nessun nome.
P.M. DOTT.SSA PANTANO – No, il nome è stato fatto, ma è stato fatto dalla signora Pesce.
IMP. PESCE – Maria Teresa, ma io ho detto che non ricordo il cognome.
PRESIDENTE – Maria Teresa sarebbe la madre di Alviano Vincenzo. Ora stavamo parlando di queste due congiunte della madre di Alviano Vincenzo, una cugina e una madre. Il Pubblico Ministero ha chiesto la cugina di chi e la madre di chi per capire quello che… per rendere più esplicito quello che già comunque era chiaro e cioè le tre donne erano: la madre di Alviano Vincenzo, la nonna di Alviano Vincenzo e una cugina della madre, va bene così?
IMP. PESCE – Sì.
PRESIDENTE – Okay, Maria Teresa era la madre.
P.M. DOTT.SSA PANTANO – Signora, lei sa se ci fu un incarico per eseguire questo omicidio?
IMP. PESCE – Mi ricordo che… da quello che mi è stato raccontato che doveva farlo il figlio grande, il figlio maschio, insomma Francesco e che però non lo ha fatto perché era ragazzo e poi subentrarono loro a questo.
P.M. DOTT.SSA PANTANO – Francesco sarebbe il fratello di Alviano Vincenzo?
IMP. PESCE – Sì, il grande.
P.M. DOTT.SSA PANTANO – Okay. E sa chi aveva preso la decisione dell’eliminazione di questa signora?
IMP. PESCE – Di Marte e Leotta.
Articolo del 9 Settembre 2012 da omicronweb.it
L’articolo di Matteo Indice su Il Secolo XIX
Tre donne uccise a Genova nel ’94. Secondo la collaboratrice Giuseppina Pesce fu ‘ndrangheta
Ci sono due donne, due magistrati, che sgranano gli occhi nell’aula bunker del tribunale di Roma, che ascoltano il racconto d’una pentita e hanno un sussulto. Perché Giuseppina Pesce, ex componente dell’omonima cosca di Rosarno, sta parlando di un omicidio irrisolto; sta svelando chi lo compì, davvero, e perché.
E quel delitto, lo capiscono nel giro di pochi minuti,è avvenuto a Genova nel 1994, quando in una casa di Pegli furono uccise tre donne a colpi di pistola. Da qualcuno che conoscevano, cui aprirono la porta offrendo di condividere la colazione poiché era mattino presto. Quelle dichiarazioni, raccolte nel maggio scorso e durante un processo su tutt’altra storia, sono state trasmesse in gran segreto alla Procura genovese.
Il cui capo Michele Di Lecce, coordinatore della Direzione distrettuale antimafia, ha formalmente riaperto l’indagine archiviata alla fine del 1995, affidandola a uno dei suoi pm più esperti, Patrizia Petruzziello. «Sono stati Domenico Leotta e Francesco Di Marte», spiega Giusy Pesce, nominando due boss calabresi e inafferrabili, «non il figlio d’una delle vittime al contrario di quel che si pensò all’inizio».
E conferma, come gli inquirenti intuirono ai tempi senza tuttavia trovare indizi sufficienti, che si trattò d’un delitto d’onore: della necessità di punire Maria Teresa Gallucci, all’epoca quarantenne, che aveva osato intrecciare un’altra relazione dopo essere rimasta vedova di un ’ndranghetista.
Insieme a lei furono freddate la madre Nicolina Celano, ultrasettantenne che con la figlia aveva raggiunto il capoluogo ligure pensando di scampare a una vendetta primitiva, e una cugina di vent’anni, Marilena Bracalia, inconsapevole di tutto. Marilena era una studentessa universitaria, faceva volontariato in un’associazione di carità. E la straziò una faida della quale forse, a quasi un ventennio di distanza, si potranno individuare i colpevoli.
Per riannodare tutti i fili occorre esplorare molto più che un caso giudiziario, ma una storia intera: di amore, di morte, di mafia. Maria Teresa Gallucci, l’obiettivo della mattanza, è una donna bella, prima di tutto. Vive a Rosarno, e la sua vita è impastata di ’ndrangheta come quella di molti che abitano nella piana di Gioia Tauro. Rimane vedova a 25 anni: il marito, che fa il muratore e dal quale ha avuto tre figli, vola da un ponteggio, le impalcature non erano fissate bene.
Il codice primitivo della cosca non contempla per lei alcuna possibilità di rifarsi una vita. Anche se è una buona madre, anche se cerca di dedicarsi ai figli, non riuscendo tuttavia a tenerli lontani dalla malapianta. Maria Teresa Gallucci non può morire dentro, così giovane. E s’innamora, ricambiata, d’un commerciante del paese, Francesco Arcuri. Nessuno dovrebbe sapere, ma non è così. E gli affiliati decidono che quell’onta dev’essere cancellata, che Maria Teresa non può avere nessun altro. Anche perché il marito era a sua volta un membro della famiglia, così come l’uomo con cui si vede.
Ma soprattutto, ed è il cortocircuito dell’intera storia, nella ’ndrangheta ha deciso di entrare presto il figlio maggiore, Francesco. Quello che è stato riformato dal servizio militare per una crisi di nervi, che ha studiato Economia all’università ma alla fine ha deciso di trasformarsi in gangster. L’amante, come lo chiamano loro, di sua madre, Francesco Arcuri, viene colpito da nove pallottole la sera del 4 novembre 1993. Muore dopo undici giorni di agonia.
E Maria Teresa Gallucci capisce che per lei a Rosarno non c’è più posto. Deve scappare dalle vendette incrociate. O meglio: andare il più lontano possibile, ma in un posto dove abbia qualche appoggio, dove non debba ricominciare da sola. Ecco come finiscono in via Scarpanto numero 14, ingresso G, quartiere di Pegli. È un grande condominio popolare pieno d’immigrati, al primo piano vive già sua sorella Concetta, all’ombra della Lanterna si sono insediati altri fratelli: uno fa il tipografo, un altro l’operaio.
È un modo per ricominciare e a Genova va a vivere definitivamente anche la madre Nicolina: soffriva di diabete, qui si era fatta operare e già vi trascorreva diversi mesi all’anno. Sulle prime, nell’appartamento che le ospita, stanno in sette. Maria Teresa e la mamma che conducono una vita «riservatissima», insieme alla cugina Marilena che sa poco e niente di quel che si sono lasciate alle spalle.
La loro storia – compresa la descrizione del massacro per come lo raccontarono i giornali dell’epoca – è una delle più toccanti fra quelle ripercorse da Danilo Chirico e Alessio Magro nel libro “Dimenticati – ottanta innocenti uccisi dalla mafia e dall’indifferenza dello Stato”, e dalla rivista on-line Stop’ndrangheta.it. Prima che lo Stato avesse un sussulto grazie a un pentito, riaprendo un’indagine che pareva sepolta.
Maria Teresa Gallucci e sua madre Nicolina Celano, allora. E Marilena Bracalia la studentessa di vent’anni. Quest’ultima sta ancora dormendo su un divano-letto, la mattina del 18 marzo 1994. In due, oggi lo sappiamo con certezza, suonano e li fanno entrare, sono volti familiari. Poi è l’orrore: una pioggia di proiettili non dà neppure la possibilità di abbozzare una reazione, i killer scappano e nessuno, intorno, sembra aver visto o sentito qualcosa di strano.
Sulle prime, i sospetti cadono tutti su Francesco Alviano, il figlio maggiore che ha buttato la sua esistenza entrando nella criminalità organizzata. Era a Genova, in quei giorni, e lo arrestano appena torna in Calabria. E però con il trascorrere dei mesi troppe cose non tornano, l’inchiesta su Alviano viene archiviata, la strage resta senza colpevoli sebbene i pm genovesi avessero capito che c’erano altri mafiosi dietro. La scossa risale al maggio scorso, quando le parole della pentita Giusy Pesce rimbalzano fino alla Procura di Genova: «Doveva farlo Francesco, ma non se la sentì. E allora lo fecero loro», cioè Di Marte e Leotta. Ce n’è abbastanza per ripartire.
Fonte: mafie.blogautore.repubblica.it
Articolo del 23 febbraio 2020
Maria Teresa e il triplice omicidio d’onore
di Sara Carbonin
Quando si parla di mafia, non v’è certezza neppure del naturale e profondo legame tra una madre e i propri figli.
Maria Teresa Gallucci era una bella donna di Rosarno, ancora giovane ma con una vita sfortunata. Perse il marito molto presto. È stata assassinata tragicamente, assieme alla madre Nicolina e alla nipote Marilena, il 18 marzo 1994 a Genova, dove si era trasferita da poco, ospite della sorella Concetta.
La donna probabilmente era fuggita dalla Calabria per paura, qualcosa o qualcuno la turbava.
Marilena quella mattina era rimasta a letto e non era andata all’università, frequentava la facoltà di architettura e aveva solo 22 anni, venne uccisa per prima mentre ancora stava dormendo, poi la stessa sorte toccò a Maria Teresa ed infine alla nonna Nicolina, lei era ancora in vestaglia.
Una vera e propria strage, eseguita in modo lucido e calcolato, della quale è sempre stato difficile intravedere una spiegazione logica.
Tra le varie piste investigative seguite, a risultare più attendibile fu quella che legava i tre omicidi a Francesco Alviano, figlio di Maria Teresa, aspirante ‘ndranghetista del clan Pesce.
Ma cosa c’era dietro a tutta questa efferatezza?
Il disonore che la donna avrebbe procurato alla sua famiglia innamorandosi e frequentando clandestinamente l’uomo sbagliato, più giovane di lei e che alcuni presumono collegato alle grandi cosche di Gioia Tauro. Quell’uomo probabilmente era Francesco Arcuri, che venne assassinato con nove colpi diretti al basso ventre la sera del 4 novembre 1993 e il cui maggiore sospettato dell’omicidio sarebbe stato proprio Alviano.
Per recuperare l’onore della famiglia il giovane uccise prima l’amante della donna, ma per non scatenare una guerra tra famiglie rivali e dato che per le leggi mafiose, chi uccide per onore non può essere punito anche se a morire è un ‘ndranghetista, la “salvezza” del vendicatore doveva passare attraverso la morte della donna infedele, quindi attraverso la morte di sua madre.
Alviano proprio in quel periodo era agli arresti domiciliari e per compiere l’omicidio avrebbe dovuto partire da Rosarno, arrivare a Genova e ritornare entro le 20 per l’obbligo di firma in caserma.
Il giorno dell’omicidio il ragazzo adempì al suo obbligo alle 19:30. Una volta interrogato, provò a costruirsi un alibi che gli inquirenti fecero cadere facilmente. Le prove raccolte contro di lui, però, erano troppo poche e le indagini vennero archiviate.
Oggi restano solo ipotesi; un processo non c’è mai stato e quelle tre morti sono rimaste senza giustizia, senza un colpevole certo.
Nel 2010 è stato arrestato il boss Domenico Leotta, considerato al vertice della cosca Pesce. Leotta, imputato nel processo “All Inside”, è stato accusato da Giuseppina Pesce, dell’omonima cosca di Rosarno divenuta poi collaboratrice di giustizia, di aver preso parte al triplice omicidio “d’onore” di Genova.
La pentita sostiene che ad uccidere Maria Teresa, la madre e la nipote, sarebbero stati Francesco di Marte e Domenico Leotta, quest’ultimo deciso ad agire al posto di Alviano perché lui non se la sarebbe sentita, alla fine, di uccidere materialmente la propria madre. Ma il figlio non si oppose al tragico destino che la mafia aveva stabilito per lei. Restò inerme, la lasciò comunque morire.
Ed ecco come il rapporto naturale tra una donna e il proprio figlio viene superato da quello “malato” che unisce un uomo ad una organizzazione mafiosa. Un rapporto che trascende l’immaginabile, razionalmente non comprensibile, come se i codici della ‘ndrangheta non si potessero infrangere, come se fossero stati scolpiti su una pietra ancestrale ancor prima della nascita dell’essere umano, come se l’onore venisse prima di ogni altra cosa, anche di chi ci ha donato la vita.