Il quarto comandamento La vera storia di Mario Francese che osò sfidare la mafia e del figlio Giuseppe che gli rese giustizia di Francesca Barra
Ed. Rizzoli, 2011
Giuseppe Francese ha dodici anni quando sente sei colpi di pistola, scende in strada e vede il cadavere del padre Mario Francese, uno dei primi giornalisti che aveva osato scrivere dell’organizzazione e degli interessi imprenditoriali della mafia. È il 1979, a Palermo, e nei successivi vent’anni Giuseppe cerca testimonianze fino a diventare giornalista investigativo egli stesso per regolare i conti col passato. E alla fine riesce a far condannare mezza Cupola: Bagarella, Riina, Provenzano, esecutore e mandanti. Ottenuta giustizia, a 35 anni, nel 2002, Giuseppe si uccide, come se ormai la sua vita, portata a termine quella missione, non avesse altro senso. In questo libro, realizzato in collaborazione con la famiglia Francese, Francesca Barra ricostruisce la vicenda che portò all’uccisione di Mario, raccontando al contempo la storia di un’intera famiglia spezzata dalla violenza mafiosa.
Articolo del 17 Giugno 2011 da Corleone Dialogos.it
QUANDO LA MAFIA UCCIDE UN PADRE E SUICIDA IL FIGLIO, LIBRO SUL GIORNALISTA MARIO FRANCESE E SUL FIGLIO GIUSEPPE
Questa è la storia di Mario Francese e del figlio Giuseppe che gli rese giustizia. Storia di un giornalista ucciso a Palermo per aver raccontato il male della mafia e del figlio che anni dopo riesce a strappare l’inchiesta dai banchi di sabbia nella quale era stata sepolta e fa condannare gli assassini di suo padre, prima di togliersi la vita per non essere mai riuscito a superare quell’assenza cupa.
A raccontarla, in un libro tenero e struggente che si legge tutto d’un fiato è la giornalista Francesca Barra.
La storia comincia il 26 gennaio 1979: Mario Francese, cronista di ”nera” del Giornale di Sicilia, per primo aveva osato scrivere della trasformazione imprenditoriale di Cosa nostra, degli interessi mafiosi intorno alla ricostruzione del Belice terremotato e alla realizzazione della diga Garcia. Suo figlio Giuseppe quel giorno ha dodici anni. Sente sei colpi di pistola, ma non sa che giù in strada giace il corpo di suo padre. A distanza di vent’anni ha cercato testimonianze, ha raccolto materiali, si è fatto giornalista investigativo per regolare i conti col passato. E alla fine è riuscito a far condannare mezza Cupola: Bagarella, Riina, Provenzano, esecutore e mandanti della morte del primo cronista a fare il nome di Toto’ Riina su un giornale. Ma purtroppo anche per Giuseppe è in agguato un terribile epilogo. Come due fili intrecciati, le vite di Mario e suo figlio seguono una traiettoria simile, un percorso che condurrà entrambi a una morte prematura.
Con grande maestria e sensibilità, Francesca Barra ricostruisce la vicenda che portò all’uccisione di Mario Francese, raccontando al contempo la storia di un padre e di un figlio – e di un’intera famiglia – spezzata dalla violenza della mafia. E restituisce alla coscienza collettiva un patrimonio di onestà che il tempo non può e non deve cancellare. Barra mette mano con giusta misura e senza dietrologia alla vita della famiglia Francese a partire da quella notte di infamia da cui ci separano oltre trent’anni e sino al suicidio del figlio Giuseppe da cui pure sono passati quasi dieci anni. Scrive tracciando una curva, un tragico semicerchio che va dalla morte del padre a quella del figlio, focalizzando, senza enfasi né forzature, il percorso inevitabile che dovrebbe stare, oggi come oggi, sotto gli occhi di tutti, dei più attenti almeno. Ricominciare dal ’79, dalle stanze della famiglia Francese, dai rapporti tra genitori e figli, incentrati sulla figura del padre.
Francesca Barra va con mano leggera ma dice tutto sul destino di Giuseppe che pare, sin dall’inizio forse, senza che né lui né i suoi cari possano intuirlo, tragicamente segnato. Sin da quell’attimo brutale in cui per primo percepì dalla strada i colpi della morte che di lì a poco, li avrebbe travolti. Poi arriva il silenzio e la lunga trafila degli eventi, molti dei quali consentono fatalmente che questo silenzio continui. Come quello che per anni la famiglia Francese subì. Come quello che, a processo ultimato, dopo tanta cronaca di mafia, dopo le ricorrenze che in onore di Mario Francese, hanno cercato di aprire una costante vigilanza sul tema, non hanno potuto mettere a fuoco l’entità del danno, cioè la morte che Giuseppe Francese ha voluto darsi. La Barra racconta e implicitamente esorta a rileggere, a ripensare. Da giornalista, scrupolosa nella ricerca, propone le carte di Giuseppe, il suo cammino, breve ma intenso. E non si esclude che una verità, o ciò che abbiamo archiviata come tale, manchi di qualcosa, di qualcuno. Che all’interno di una famiglia sia rimasto qualcosa di inaccettato, probabilmente di inaccettabile. Come se la verità avesse ancora qualcosa da rivelare, come se al danno di un padre troppo presto perduto si assommasse quello di una società che non sempre il suo, di danno, riesce a misurarlo.
Articolo del 23 Luglio 2011 da antimafiaduemila.com
di Lorenzo Baldo.
Mondello (Pa). “Michele Greco ci ha fornito la scorsa udienza, la sua verità, o meglio, ci ha dimostrato, se mai ve ne fosse bisogno, come si possa uccidere un uomo determinandone innanzitutto la sua eliminazione fisica e poi provocandone anche la morte nella memoria, avvilendone il ricordo, sminuendone le imprese, introducendo il tarlo della calunnia, che genera il dubbio e provoca lo sconcerto”.
Con le parole scritte nella memoria conclusiva di Laura Vaccaro, pubblico ministero al processo per l’omicidio di Mario Francese, l’autrice del libro “Il quarto comandamento – La vera storia di Mario Francese e del figlio Giuseppe che gli rese giustizia”, Francesca Barra, introduce la presentazione del suo volume. “In questi venti e più anni, che ci separano dall’uccisione di Mario Francese – prosegue la vincitrice del premio Mario Francese 2010 per il suo programma ‘La bellezza contro le mafie’ leggendo il documento processuale –, abbiamo dovuto, noi operatori della giustizia, molto più i familiari, gli amici – quelli veri -, di Mario Francese, ingoiare l’amara pillola di un omicidio del quale appariva chiara, ai più, la matrice mafiosa, ma al quale nessuno poteva dare un nome. Per venti anni, la moglie ed i figli di Mario Francese, hanno dovuto convivere con una morte non riconosciuta, soffocando in un silenzio che appariva (ma tale non è stato), come un abbandono delle istituzioni, il bisogno legittimo di giustizia di verità”. “Ce lo dicevano i fatti, ce lo diceva la vita di Mario Francese, ce lo dicevano soprattutto i suoi scritti, che la chiave di lettura andava cercata nel suo impegno professionale, nella sua tenacia nel ricercare la verità e comunicarla attraverso le pagine di un Giornale all’epoca non coraggioso come il suo cronista; ce lo dicevano questi fatti, che la morte di Mario Francese era stata opera di quelli che, sul finire degli anni 70, erano i veri ‘padroni’ delle nostre città, della nostra terra, di questa città. Ma non avevamo prove per fare di tutto ciò un processo, non avevamo elementi per richiedere una affermazione di verità giudiziaria”. La gente ascolta in silenzio. Il luogo scelto da Libera Palermo per la presentazione di questo libro sembra quasi un omaggio alla memoria di Giuseppe Francese. Dietro il tavolo dei relatori sistemato nello spazio ampio di uno chalet della spiaggia di Mondello quel mare azzurro che tanto amava Giuseppe brilla lucente sotto il sole pomeridiano. Con estrema semplicità Francesca Barra spiega di aver scritto questo libro perché non l’aveva fatto nessun altro. Poche parole per illustrare la contraddittorietà di una terra che di fronte al martirio dei suoi figli si ostina ad infierire ulteriormente nei confronti delle vittime e dei suoi familiari in un perverso gioco di isolamento contrassegnato da dietrologie striscianti e intriso di oblio, indifferenza e complicità. La forza e la bellezza struggente di questo libro emerge in ogni sua pagina. La storia del giornalista del Giornale di Sicilia ucciso da Cosa Nostra il 26 gennaio 1979 si unisce a quella di suo figlio Giuseppe che la notte del 3 settembre 2002, a 36 anni, decide di morire dopo essere riuscito a rendere giustizia a suo padre. Due storie intrecciate tra loro che entrano prepotentemente nel cuore e nella mente del lettore per emozionarlo, scuoterlo e soprattutto per renderlo testimone della vita e della morte di questi due uomini. Senza alcuna vena polemica, ma basandosi essenzialmente su un dato di fatto, l’autrice evidenzia come proprio il Giornale di Sicilia, che per primo avrebbe dovuto raccontare ampiamente la storia del suo giornalista, a tutt’oggi non lo ha ancora fatto. Il ricordo di Giulio Francese, primogenito del cronista siracusano, parte dal periodo vissuto all’interno della redazione del Gds subito dopo la sua assunzione avvenuta successivamente l’omicidio di Mario Francese. Ed è proprio lì che Giulio rivive quel senso di solitudine già respirato dal padre in quegli stessi stanzoni. Nelle parole del figlio del giornalista assassinato vibra a tratti l’amarezza per la lettura di un vecchio articolo de l’Ora che dipingeva la figura del padre quasi come un malato di protagonismo della storia giudiziaria. Ma è un’amarezza in parte alchimizzata, lontana, resa parzialmente inoffensiva dal riscatto messo in atto da Giuseppe. “Questo libro – afferma con serena convinzione Giulio Francese – è un dono del Cielo che restituisce un pezzo di storia della mia famiglia”. Ed è proprio quella storia, vera, autentica, che esce dalle pagine del libro e va a sbattere in faccia a quella parte di Palermo che volutamente ha dimenticato il cronista del Gds perfino ogni anniversario del suo omicidio. L’immagine di Mario Francese che solleva un lenzuolo bianco messo pietosamente per coprire un cadavere buttato in terra rappresenta l’essenza del suo essere un giornalista “che voleva guardare da vicino” al di fuori da qualsiasi forma di mero cinismo professionale. “Giuseppe Francese – prosegue Giulio parlando del fratello – è stato un gigante, un gigante fragile che voleva rendere giustizia a suo padre”. L’inarrestabile sete di giustizia di Giuseppe pulsa ancora nelle parole dell’autrice del libro che con grande tatto e altrettanto rispetto dei fatti narrati riesce a trasmettere tutta l’angoscia, la rabbia e il dolore del figlio di Mario Francese fino al tragico epilogo. Ma è soprattutto l’opera straordinaria di Giuseppe Francese quella che ha il sopravvento sulla sua tragedia. A lui va il merito di essere riuscito a rimettere insieme i pezzi mancanti del puzzle sulla morte di suo padre riuscendo ad ottenere la riapertura dell’inchiesta giudiziaria archiviata anni prima, sfociata poi in un vero e proprio processo. Il procedimento svolto con rito abbreviato si conclude l’11 aprile del 2001 con la condanna a 30 anni di Totò Riina ed altri boss di Cosa Nostra di prima grandezza come Leoluca Bagarella (esecutore materiale), Francesco Madonia, Antonino Geraci, Giuseppe Farinella, Michele Greco e Pippo Calò (nel processo bis, con rito ordinario, l’altro imputato Bernardo Provenzano viene condannato all’ergastolo). Nella motivazione della sentenza i giudici evidenziano che dagli articoli e dai dossier redatti da Mario Francese emerge “una straordinaria capacità di operare collegamenti tra i fatti di cronaca più significativi, di interpretarli con coraggiosa intelligenza, e di tracciare così una ricostruzione di eccezionale chiarezza e credibilità sulle linee evolutive di Cosa Nostra, in una fase storica in cui oltre a emergere le penetranti e diffuse infiltrazioni mafiose nel mondo degli appalti e dell’economia, iniziava a delinearsi la strategia di attacco di Cosa nostra alle istituzioni”. “Una strategia eversiva che aveva fatto – si legge tra l’altro nel documento – un salto di qualità proprio con l’eliminazione di una delle menti più lucide del giornalismo siciliano, di un professionista estraneo a qualsiasi condizionamento, privo di ogni compiacenza verso i gruppi di potere collusi con la mafia e capace di fornire all’opinione pubblica importanti strumenti di analisi dei mutamenti in atto all’interno di Cosa Nostra”. L’impianto accusatorio regge fino alla Cassazione confermando i 30 anni di carcere per Totò Riina, Leoluca Bagarella, Raffaele Ganci, Francesco Madonia e Michele Greco; vengono invece assolti Pippo Calò, Antonino Geraci e Giuseppe Farinella “per non avere commesso il fatto”. Dopo il ricordo affettuoso di Egle Palazzolo, ex collega di Mario Francese al Giornale di Sicilia, è la volta di Alessandra Dino, docente universitaria nonché scrittrice. L’autrice del libro “Gli ultimi padrini” ripercorre la sua “conoscenza” di Mario Francese avvenuta attraverso l’incontro con la mamma di Peppino Impastato. Prima di morire Felicia Bartolotta aveva raccontato ad Alessandra Dino di aver capito che doveva uscire dal timore che le impediva di parlare grazie all’intervista che le aveva fatto Mario Francese dopo l’omicidio di Peppino. La carica di umanità e di grande professionalità del cronista del Giornale di Sicilia aveva permesso a Francese di comprendere il dolore di una madre alla quale avevano appena ucciso un figlio contribuendo notevolmente al suo riscatto. Nella citazione di Sofocle “L’offesa alla verità sta all’origine della catastrofe” la professoressa Dino ribadisce il “valore salvifico della parola”. La capacità di Mario Francese di raccontare storie semplici, di riuscire a dare voce agli ultimi, ai deboli, così come di mettere in risalto le nefandezze dei “grandi” rappresenta un punto fermo nell’intervento della docente universitaria. E’ un ricordo bruciante quello di Alessandra Dino quando sottolinea che l’omicidio di Mario Francese matura “all’interno del suo modo di concepire il mestiere”, evidenziando che negli atti processuali sono contenute le testimonianze dei pentiti come Gaspare Mutolo e Totuccio Contorno che raccontavano delle “connivenze”, così come delle “strane amicizie” dentro il Giornale di Sicilia. Testimonianze dirompenti che si intersecano con quelle di alcuni giornalisti come Francesco La Licata o Lino Rizzi che hanno confermato il clima pesante all’interno del Giornale di Sicilia nel quale lo stesso Francese si trovava a dover scrivere. Parafrasando la frase di Gesù Cristo “Non sono venuto a portare pace, ma la verità che è come una spada che divide” Alessandra Dino prende a simbolo quella spada come una verità che anche in questo caso fa male e scuote da quella complice indifferenza che per troppo tempo ha avvolto la storia di Mario Francese. Ed è proprio la verità ottenuta da Giuseppe Francese attraverso il prezzo più alto che un uomo può pagare quella che riflette la sua figura nel quarto comandamento.