29 ottobre 1986 Locri (RC). Ucciso il giovane Rocco Zoccali, 19 anni, per un motorino.

Il 29 ottobre 1986, alle quattro del pomeriggio, Rocco Zoccali, 19 anni, viene ammazzato con due colpi a bruciapelo. Attorno al suo corpo si crea il vuoto. Nessuno ha visto niente. Tocca al padre, dipendente della Regione Calabria, che ha sentito i colpi, avvicinarsi per primo e trasportarlo all’ospedale. La madre, professoressa delle medie, non si dà pace e, nonostante minacce ricevute, si costituisce parte civile nel processo e depone contro i presunti assassini del figlio.

Non abbiamo notizia di come, e se, si è concluso il processo vanificato in varie udienze per errori procedurali, rinunce e ricusazioni di giudici. La nostra ricerca si conclude con una interrogazione parlamentare del 16 gennaio 1990, in cui l’allora ministro della giustizia Vassalli promuove delle azioni disciplinari.

 

 

Articolo del 28 Maggio 1987 da archiviostorico.unita.it
Locri in stato d’assedio
È il nuovo vivaio dei killer
di Aldo Varano
I carabinieri di Locri hanno sottoposto a fermo di polizia giudiziaria, per l’aggressione a Carmelina Conte, un giovane di 24 anni, Gaetano Panetta. La conte è stata picchiata e poi seviziata con un grosso cacciavite la notte di sabato scorso da due giovani. Panetta era stato scarcerato lo scorso venerdi, prosciolto dall’accusa di aver aggredito due anziani coniugi e di avere violentato la donna.

LOCRI. “Quando dopo avermi incappucciata e buttata sul letto mi hanno stretto per il collo ho avuto paura che mi ammazzassero. Non so perché, ma sono tempi brutti, quello che è entrato per primo era alto, bruno, pieno di cattiveria. Dietro di luic’erano altri”. Carmelina Conte, 78 anni, il giorno dopo racconta così la sua terribile avventura. Dei giovanissimi entrati in casa sua verso la mezzanotte di sabato l’hanno bastonata poi seviziata con un grosso cacciavite.

Vivace, i capelli vagamente rossicci di una tintura che si indovina casareccia, la signorina Conte è ora ricoverata in ospedale.
“Sono stati in casa mia quasi un’ora. Hanno messo tutto sottosopra, rovistato in tutti gli angoli, finché non hanno trovato i soldi. Li tenevo li per il mio funerale, perché fossero trovati subito. In banca vi sarebbero state complicazioni e, nel caso, come mi avrebbero seppellito? Capisce?”

È terrorizzata. Ha paura di tornare nelle due stanzette in cui abita da quarant’anni, da quando le morì la madre, comandante delle guardie femminili del carcere di Locri. “No, non perdono niente” continua a ripetere mentre una giovane signora sua vicina continua a carezzarla per farle coraggio.

Locri è travolta da una violenza di tipo nuovo che si somma, moltiplicandone gli effetti di condizionamento sociale, a quella mafiosa. Giovanissimi organizzati in bande terrorizzano la popolazione, con bravate e prepotenze, negozi e scuole bruciate in continuazione (l’ultima l’altra notte); colpi di arma da fuoco contro le saracinesche e le abitazioni quando si fa sera.
“Una specie di vivaio armato per le cosche mafiose”, dice un ufficiale dei carabinieri. Ed infatti il passaggio dalle bande al mestiere di killer (lo scorso anno in questa zona si sono registrati 22 omicidi, quest’anno si è già arrivati a 13, pare continuo e frequente.

Lo scorso novembre, alle quattro del pomeriggio, Rocco Zoccali, venti anni, viene ammazzato con due colpi a bruciapelo. Attorno al suo corpo si crea il vuoto. Nessuno ha visto niente. Tocca al padre, dipendente della Regione Calabria, che ha sentito i colpi, avvicinarsi per primo e trasportarlo all’ospedale, mentre la madre, professoressa delle medie, non riesce a darsi pace. Dell’omicidio è accusato un altro ventenne.

Tra Locri e Portigliola, tre chilometri più in là, la notte del 28 marzo dell’86, giovanissimi penetrano nell’abitazione di due anziani coniugi. Lui ha 85 anni, lei 81. Vengono legati alle sedie, bastonati e derisi mentre gli aggressori banchettano per tutta la notte. Infine rubano quel che trovano ed usano violenza alla donna.

Ma può anche capitare che alle tre del pomeriggio, a ridosso di un funerale, da due macchine ci si spari come nei film americani, mentre la gente impaurita urla e scappa. Le cosche vivono in maniera contraddittoria questo fenomeno. Da un lato ne provano fastidio perché turba la pax mafiosa; dall’altro intervengono per disciplinare, riappacificare, egemonizzare. Paura chiama paura ed il terrore rende possibile il controllo sociale del territorio.

“Ci sono ripetuti fatti allarmanti da ascrivere a giovani e giovanissimi – dicono in Procura dove i giudici Macri e Arcadi, a ranghi ridotti, tentano di tener testa alla violenza di una delle zone più calde della Calabria – talvolta le bande si mescolano ai vecchi gruppi di mafia. Nei nuovi si danno prove di coraggio e si stilano biglietti di presentazione per i giri mafiosi che contano”. Una violenza cupa, che modifica la vita quotidina della gente. L’altra sera chi tornava da Locri verso Reggio ha incontrato 11 posti di blocco. Il sequestro di Varacalli sembra annunziare nuove rotture tra i gruppi della mafia e nuovi regolamente di conti.

 

 

 

Articolo da La Stampa del 6 Aprile 1989
Una madre accusa la mafia ma la denuncia «non vale»
Ha parlato per tre ore contro gli assassini del figlio
di Diego Minuti

LOCRI (Reggio Calabria) — Una donna racconta e accusa la mafia per tre ore: ma alla fine i giudici le dicono che non è servito a nulla: tutta da rifare per un errore. Dopo Marianna Rombolà, la moglie del sindaco di Gioia Tauro che ha dichiarato guerra alla ‘ndrangheta, un’altra madre, è scesa in campo per combattere la violenza mafiosa. E come Marianna Rombolà sa di poter diventare un bersaglio. È la professoressa Giulia Bova che due anni fa nella piazza di Locri si è vista uccidere, quasi sotto gli occhi, il figlio maggiore, Rocco Zoccali, 19 anni. Un omicidio feroce — del quale rispondono Giuseppe Alecce, 24 anni, pregiudicato, ed Antonino Dieni, 23 anni, resosi latitante subito dopo l’agguato — davanti al quale Giulia Bova ha voluto ribellarsi.

E quando ieri mattina nella prima udienza del processo si è presentata per deporre davanti ai giudici della Corte d’assise di Locri, ha spiegato quello che voleva fare: «Dirò tutto quello che so — ha detto non tradendo l’emozione — anche se sono cosciente che le conseguenze di questa mia decisione potranno essere pericolose. Comunque, se per quanto sto per dire dovesse accadere qualcosa a me o ai miei figli, sappiate che saranno stati loro, i parenti degli imputati, i Cordì».

Una denunzia, ma quasi una «testimonianza a futura memoria» di una madre che ha deciso di andare avanti, di non limitarsi a piangere il figlio ucciso, ma di fare tutto, perché chi le ha strappato il suo Rocco, paghi.

Ma prima di poter vedere verbalizzato le sue affermazioni, Giulia Bova — accanto alla quale si è subito schierato il pubblico ministero Macrì — ha dovuto sconfiggere la posizione del presidente della corte, Cotrona, che appena poche ore prima aveva sostituito il presidente della sezione, Frammartino, che adducendo motivi personali, aveva deciso tra la sorpresa di tutti, di astenersi. Uno scontro duro in un clima di estrema tensione che alla fine ha visto finire sulle pagine dei verbali d’udienza le parole di Giulia Bova. La sua deposizione è stata lunga, dettagliata, ricca di momenti toccanti, cosi come di verità segrete. Come quando ha ricordato cosa le diceva il figlio, le sue paure, le sue speranze, i suoi segreti. Così come il «pestaggio» selvaggio al quale Rocco fu sottoposto una ventina di giorni prima d’essere ucciso e del quale la donna ha indicato i responsabili nei due imputati.

Un «pestaggio» che Rocco, nell’irruenza dei suoi 19 anni, non volle subire. Chissà come, trovò una pistola e ferì ad una gamba Giuseppe Alecce, esattamente sette giorni prima di venire fulminato con un proiettile alla testa, tra la gente, nella piazza principale di Locri. Un odio che, secondo Giulia Bova, nacque alcuni anni or sono, quando la sua famiglia chiese ai Dieni la restituzione di un magazzino che avevano in affitto.

Oggi Giulia Bova è una donna in pericolo. “Anche oggi, così come nei giorni successivi alla morte di mio figlio — ha detto — sono minacciata, e con me tutta la mia famiglia intorno alla quale è stato creato un clima d’intimidazione». Una donna coraggiosa che però ha visto vanificato da un incredibile errore procedurale la sua volontà di andare fino in fondo. È stato il p.m. Macrì a rilevare che i giudici popolari (quasi tutti inesperti di codici e procedure e quasi tutti di prima nomina), contrariamente a quanto prescritto dalla legge, non avevano prestato giuramento. Un’incredibile dimenticanza — stigmatizzata dal pubblico ministero — ma che, nei fatti, ha reso totalmente nulle le dichiarazioni e il coraggio di Giulia Bova.

«Tutto ciò—ha commentato il dott. Macrì, rivolto alla Corte — significa che abbiamo scherzato per tre ore e che ora rimandiamo a casa una donna che si espone per avere giustizia». Più duro ancora il commento di Giulia Bova che ha espresso la sua volontà di chiedere d’essere ricevuta dal Consiglio superiore della magistratura: “Che vedano e sappiano cosa è veramente il caso Calabria».

 

 

 

Articolo da La Stampa del 3 Maggio 1989
A Locri, dopo la seconda udienza per l’omicidio del figlio
Madre antimafia ricusa giudice
di Enzo Laganà

«Non ho più fiducia nel presidente della corte» – Un errore procedurale aveva vanificato una deposizione della donna che contesta anche il ritardo nell’inizio del processo

LOCRI — Ricusazione: un’iniziativa pesante per il presidente della Corte di assise di Locri, Luigi Cutrona. A sottoscrivere la domanda è la madre di Rocco Zoccoli, un ragazzo di 19 anni ucciso nella piazza principale del paese, che ha avuto il coraggio di costituirsi parte civile nel processo ai presunti assassini del figlio.

Giulia Bova Zoccali, insegnante di lettere in una scuola media, ha dovuto far togliere il proprio nome dall’elenco telefonico per non sentire più minacce anonime («ne ho ricevute moltissime»), ma non ha smesso di chiedere giustizia per la morte del figlio. «Ma non ho fiducia nei confronti del giudice Cutrona», dice dopo quel che è accaduto nelle prime due udienze, praticamente inutili nonostante una lunga deposizione della donna.

Due i motivi che stanno alla base della sua richiesta: il giudice ha avuto parte in un processo per fallimento della ditta del padre di uno degli attuali imputati, quindi secondo la donna sarebbe coinvolto nella vicenda dalla quale ha tratto origine il delitto. Inoltre la professoressa Bova critica il comportamento del giudice nelle prime due udienze. «Quando, sfiduciata, ho detto che la gente fa bene a non costituirsi parte civile, lui mi ha risposto: certo». Anche per questo nella ricusazione parla fra l’altro di «grave inimicizia con il presidente».

Il processo a Giuseppe Alecce, 24 anni, ed Antonio Dieni, 23, è incominciato tra mille problemi. Intanto è stato fissato ad appena due giorni dalla scadenza dei termini di detenzione preventiva, nonostante che il rinvio a giudizio fosse stato deciso un anno e mezzo prima. Poi c’è stata la rinuncia del presidente titolare della Corte, Frammartino, che ha costretto Cutrona ad assumere la presidenza; quindi le due udienze contestate. Nella prima, Giulia Bova per tre ore ha raccontato particolari nuovi («Mio figlio fu pestato dagli imputati e per questo si procurò una pistola e sparò un colpo alle gambe di Alecce»), e le sue paure («Voglio deporre, ma se dovesse capitare qualcosa a qualcuno dei miei figli, sappiate che sono stati i parenti loro, i Cordì»). Ma al termine l’udienza fu dichiarata nulla perché i giudici popolari non avevano prestato il prescritto giuramento. La donna protestò: «Voglio essere sentita dal Consiglio superiore della magistratura. Che vedano e sappiano cos’è il caso Calabria».

Inutile anche l’udienza successiva, durante la quale il p.m. ha rilevato che, non essendosi proceduto alla costituzione delle parti e alla dichiarazione di contumacia dell’imputato latitante, l’aggiornamento del dibattimento era nullo. Nel frattempo, l’imputato detenuto è stato rimesso in libertà per decorrenza di termini. Ieri, la ricusazione del presidente. Mentre Cutrona leggeva l’atto, si è rivolto alla signora Bova: •Come fa a parlare di inimicizia se nemmeno mi conosce?», il p.m. Macrì ha fatto notare a Cutrona come non fosse ammessa la discussione in merito alla ricusazione ed ha ottenuto che la sua osservazione fosse messa a verbale. Ora l’incartamento è stato trasmesso alla corte d’appello di Reggio che dovrà decidere.

 

 

 

Articolo da La Stampa del 9 Novembre 1989 
Nessuno vuole presiedere il processo

LOCRI. Nessun giudice vuole guidare quel processo di mafia, rendere giustizia a una madre che accusa i presunti killer del figlio. Come avevano fatto i suoi due predecessori, anche il magistrato Enrico Scaglione ha rinunciato a presiedere il tribunale che dovrà giudicare due giovani pregiudicati. Giuseppe Alecce, di ventiquattro anni, e Antonino Dieni, di ventitré, sono accusati dell’omicidio di Rocco Zoccali, diciannove anni, assassinato a Locri in un agguato il 29 ottobre del 1986.

Prima di Scaglione avevano rinunciato il presidente della corte d’assise di Locri, Francesco Frammartino, e il magistrato Luigi Cotrona. Il primo aveva motivato la sua decisione con i rapporti di lontana parentela che lo legano con il padre di Rocco Zoccali. Cotrona, invece, si era ritirato dal processo a causa di contrasti con la madre della vittima, Giulia Bova, che aveva presentato tra l’altro un’istanza di ricusazione contro il magistrato. L’istanza era stata respinta dal presidente della corte d’appello di Reggio Calabria, Giuseppe Viola. Ma Cotrona decise ugualmente di ritirarsi dal processo.

Dopo il terzo rifiuto, adesso a guidare il collegio è stato chiamato il presidente del tribunale di Palmi, Francesco Marra, che ieri mattina, dovendo ancora beneficiare di un periodo di ferie, ha disposto il rinvio del dibattimento all’11 dicembre prossimo. Dei due imputati, uno, Dieni, è latitante, mentre l’altro — da qui la polemica tra il presidente Cotrona e Giulia Bova — è stato scarcerato per scadenza dei termini di custodia cautelare. [r. cri.]

 

 

 

RISPOSTE SCRITTE AD INTERROGAZIONI
Seduta del 16 Gennaio 1990
Fonte:  camera.it

ANDÓ e VIOLANTE.  Al Ministro di  grazia e giustizia.

Per sapere:

se corrisponda al vero che presso la corte d’assise di Locri nell’udienza del 5  aprile il presidente si sia rifiutato di verbalizzare le dichiarazioni della signora  Bova, parte civile nel processo per l’omicidio del figlio, che aveva formulato nomi dei probabili assassini e di alcuni testimoni;  se abbia notizia delle ragioni per cui  il processo è stato fissato solo due giorni  prima della scadenza dei termini di custodia cautelare dell’unico imputato detenuto;  se non ritenga che comportamenti di  questo tipo, ove tali notizie si rivelino  fondate, possano scoraggiare la volonta  della società civile di schierarsi contro  la mafia e finiscano quindi col favorire  il prepotere delle organizzazioni mafiose.

(4-12792)

Risposta

Il 29 ottobre 1986 veniva  ucciso in Locri il giovane Rocco Zoccali.
Per il reato di omicidio, ed altri minori, si  instaurava procedimento penale a carico di  alcune persone.

Conclusa l’istruzione formale, il giudice  istruttore di Locri, in data 7 ottobre 1987,  ordinava il rinvio a giudizio dinanzi alla  corte di assise di quella sede, di tutti gli imputati per rispondere dei reati loro rispettivamente ascritti.

Il 28 settembre 1988 il presidente della  corte d’assise, dichiarava formalmente di  volersi astenere dalla trattazione del processo, essendo lontano parente della famiglia della vittima, ed il presidente della  corte di appello di Catanzaro, con provvedimento del 7 Ottobre 1988, autorizzava   astensione.

Il 24 febbraio 1989 il presidente della corte d’assise emetteva decreto di citazione  a giudizio per udienza del 5 aprile 1989,  con eventuale prosecuzione nei giorni immediatamente successivi (l’inizio del secondo processo era previsto nel ruolo per il  14 aprile).

All’udienza del 5 aprile, presieduta dal  dottor Luigi Cotrona (presidente del Tribunale) la signora Giulia Bova, madre della  vittima, si costituiva parte civile contro alcuni degli imputati. Dopo la costituzione delle parti, il pubblico ministero dottor  Carlo Macrì, chiedeva che il processo fosse  definito entro il 7 aprile, data di scadenza del termine di custodia cautelare di uno degli imputati.

Espletato l’interrogatorio degli imputati presenti (gli imputati assenti erano dichiarati conturnaci con ordinanza del presidente), veniva esaminata la parte Civile Giulia Bova, la quale in parte confermava le deposizioni istruttorie, in parte le modificava e  riferiva nuove circostanze. Alle ore 12,30 la  corte si ritirava in camera di consiglio per decidere in ordine ad alcune istanze istruttorie delle parti e rientrava in aula alle ore 12,50. Il Presidente rilevava che i giudici popolari non avevano prestato il giuramento prescritto dall’articolo 30 della legge 27 dicembre 1956, n. 1441, e li invitava a prestarlo.

Dopo il giuramento, la corte dichiarava la nullità di tutti gli atti processuali compiuti in dibattimento e ne disponeva la rinnovazione; indi, per l’ora tarda (circa le ore 13,15) sospendeva il dibattimento, aggiornandolo al 7 aprile, ore 9,30, ed invitava le parti presenti a comparire in detta udienza, senza altro avviso.

AIl’udienza del 7 aprile la Bova rinnovava la Costituzione di parte civile; risultavano assenti due degli imputati.

Preliminarmente il pubblico ministero chiedeva che, attesa l’assenza dei detti due imputati, fosse reiterato il decreto di citazione nei loro confronti e la corte, dato atto che il dibattimento aveva avuto effettivamente inizio nella udienza in corso e che  agli imputati e agli altri soggetti processuali assenti non era stato notificato un
nuovo decreto di citazione, ordinava che il decreto di citazione fosse rinnovato nei confronti delle parti, dei difensori e dei testimoni assenti, per l’udienza del 2 maggio 1989, ore 9, alla quale rinviava il processo; diffidava gli imputati, i testimoni e i difensori presenti a ricomparire in detta udienza  senza ulteriore avviso.

Frattanto uno degli imputati veniva scarcerato.

All’udienza del 2 maggio la parte civile  a mezzo del suo difensore, ricusava il presidente della corte, dottor Cotrona, ed il processo era rinviato.

Tali essendo le circostanze allo stato emerse, si comunica che questo ministero  ha disposto sui fatti accertamenti ispettivi  volti a chiarire compiutamente la vicenda e ad individuare eventuali comportamenti  contrari ai doveri di ufficio.

In esito all’indagine espletata,  stata promossa in data 5 Ottobre 1989 azione disciplinare nei confronti dei dottori Luigi Cotrona, presidente del tribunale di Locri, Francesco Frammartino, presidente di sezione dello stesso tribunale, e Carlo Macrì, sostituto procuratore della Repubblica di Locri.

Il Ministro di grazia e giustizia:
Vassalli.

 

 

 

 

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