LA NOSTRA GUERRA NON È MAI FINITA di Giovanni Tizian
LA NOSTRA GUERRA NON È MAI FINITA
di Giovanni Tizian
Editore Mondadori
“Un corpo irriconoscibile abbandonato come un cane nelle campagne della Locride. L’interminabile, soffocante stagione dei sequestri di persona. E poi, nella nostra carne, le fiamme che divorano il mobilificio di nonno Ciccio, l’omicidio di mio padre. E nessun colpevole. Perché continuare a vivere in una terra che ripagava il nostro amore incondizionato con tanta spietata ferocia? Andarsene via, ovunque, purché lontano da Bovalino, fuori da quei confini diventati così angusti. Approdare in una città accogliente come Modena, nel tentativo di rimuovere, di dimenticare il passato, di trovare una normalità. Nascondendo a tutti, persino a me stesso, la rabbia e la sofferenza. E così ho fatto per tanto tempo, fino a quando, ormai ventenne, ho chiesto in lacrime a mia madre di guidarmi nel doloroso esercizio della memoria. Ho voluto sapere tutto di quella sera del 23 ottobre 1989, di quei colpi di lupara sparati contro la Panda rossa di mio padre. Dopo, per me è stato l’inizio di una nuova vita. Senza più vergogna, senza più sentirmi addosso gli sguardi di commiserazione della gente. Ma ricordare e raccontare sono atti troppo rivoluzionari, troppo scomodi per chi ha costruito il proprio impero sulla menzogna e sull’omertà. Intanto la ‘ndrangheta aveva viaggiato più veloce di noi ed era già lì, nell’Emilia terra della Resistenza, a conquistarsi sul campo il predominio della criminalità organizzata e pronta a zittire le mie inchieste giornalistiche.” (Giovanni Tizian)
Fonte: espresso.repubblica.it
Articolo del 14 marzo 2013
Vivere e morire di ‘ndrangheta
Il potere delle cosche in un racconto mai letto prima. Una vita segnata dalla ferocia della mafia attraverso i ricordi di chi è nato in Calabria. E ha pagato sulla sua pelle. Ecco il nuovo libro di Giovanni Tizian, il cronista dell’Espresso finito sotto scorta per le sue inchieste.
La ‘ndrangheta come non l’avete mai letta. Non la cronaca distaccata del giornalista che cerca di descrivere la mafia calabrese, non l’analisi fredda degli atti giudiziari ma il racconto di una vita segnata dalla ferocia delle cosche. In “La nostra guerra non è mai finita” (in libreria per Mondadori) Giovanni Tizian, cronista de “l’Espresso”, intreccia i suoi ricordi con la ricostruzione dell’ascesa dei nuovi baroni del crimine. Affronta senza retorica pagine dolorose: l’omicidio del padre, funzionario di banca assassinato in un delitto rimasto irrisolto; la distruzione della fabbrica dei nonni che non si erano piegati al racket; il trasferimento in Emilia e la scelta di dedicarsi al giornalismo d’inchiesta. Ma anche al Nord ormai i clan hanno messo radici: i suoi articoli sulla “Gazzetta di Modena” spingono i boss a progettare di «sparargli in bocca» e Tizian finisce sotto scorta. Nel libro la memoria diventa lo strumento per far capire cosa sia realmente il potere della ‘ndrangheta, con una formula narrativa molto efficace che riesce a trasportare il lettore nella dimensione dei paesini dove è nato questo impero criminale. Ecco uno stralcio del capitolo dedicato alla guerra dello Stato contro i sequestri di persona, la sorgente iniziale dei tesori delle cosche.
Non tornavo a Bovalino in dicembre da troppo tempo. Ormai abituato agli inverni emiliani, freddi e umidi, mi sento un po’ spaesato in questo tepore che sa di salsedine e ti invita a uscire per passeggiare in silenzio e riflettere. Sono gli odori, soprattutto, a riportarmi indietro nel tempo: un lieve sentore di legna bruciata nei camini che si mescola alla fragranza di arance e mandarini, di pane fatto in casa.
Gli inverni in Calabria sono dolci. La neve s’intuisce sulle cime dell’Aspromonte, di rado arriva sulle colline. E mentre cammino solitario, il ricordo di una nevicata lontana nel tempo mi riempie di malinconia.
Quasi sperso fra strade che pure conosco a memoria, mi ritrovo improvvisamente di fronte allo sfacelo di quello che è stato l’hotel Orsa, sul corso principale del paese. Sorto negli anni Sessanta sulla spinta di un promettente inizio di sviluppo turistico, adattato negli anni bui dei sequestri a caserma per poliziotti, esercito, battaglione speciale dei carabinieri. Metafora di un tempo traditore che qui scorre al contrario: dal boom economico a un medioevo di violenza e ferocia senza fine che ha il volto spietato della ‘ndrangheta.
Io conosco solo questa Bovalino.
Nato nel 1982, negli anni dominati dall’Anonima sequestri, del famoso albergo sul corso principale ho conosciuto la decadenza. Da bambino giocavo con Giuseppe e altri amici nella villa comunale, che sorgeva accanto alla struttura ormai occupata dall’esercito. Tiravamo calci a un pallone o guardavamo incuriositi i pochi pesci rossi superstiti in una vasca abbandonata. Lanciavamo occhiate impaurite agli uomini armati, chiedendoci in quale strano gioco fossero intenti. E se la palla sfuggiva dai confini della villa, facevamo la conta per stabilire chi fosse lo sfortunato a cui toccava andare a recuperarla. Quando toccava a me, il cuore mi batteva forte e camminavo a testa bassa per timore di incrociare gli sguardi dei soldati.
Vivevamo nella paura senza sapere quale fosse il vero nemico. Mia madre e Teresa vigilavano, sedute su una panchina un po’ distante, due figurette giovani vestite di colori vivaci. Quell’eterna ragazza che è mia madre, unico rifugio dalle mie paure.
L’occupazione militare è il segno di un luogo di frontiera, e Bovalino lo è stato per lungo tempo. Ma quella poliziesca è stata solo la conseguenza di un’occupazione ben più corrosiva da parte di un’organizzazione che oggi è ramificata in tutto il mondo.
È da centocinquant’anni che le truppe della ‘ndrangheta hanno militarizzato la Calabria. Hanno ucciso, saccheggiato, trafficato, sequestrato. Le ‘ndrine non si sono fatte scrupoli, a dispetto di quanto raccontano le leggende sull’onore della famiglia Montalbano o della Picciotteria, come veniva chiamata la ‘ndrangheta nell’Ottocento.
Le teorie sulla bontà della ‘ndrangheta antica sono ancora oggi numerose e molto in voga. C’è chi individua nella storia della mafia calabrese uno spartiacque e racconta una favola che suona più o meno così: c’era una volta l’uomo d’onore, che viveva nel rispetto e del rispetto del paese, ma fu scacciato da boss spregiudicati, spinti dall’avidità e dalla sete di denaro. Che i vecchi capibastone regolassero i conflitti interni alla comunità, sostituendosi alla legge e allo Stato, è vero, ma non lo facevano certo in nome di una giustizia sociale. Anche loro erano avidi di consenso e di potere. E per chi non si piegava c’era la violenza o la morte. Signorotti senza legge e senza umanità, vessavano e dissanguavano i poveri cristi, mentre stringevano alleanze con i potenti.
L’occupazione mafiosa c’è sempre stata, in passato con l’Onorata società e oggi con la ‘ndrangheta transnazionale. Un’organizzazione che si è mondializzata a piccoli passi. I sequestri di persona sono stati per i clan della Locride quello che la catena di montaggio è stata per il capitalismo. L’accumulo di denaro è iniziato con l’industria dei sequestri. Nel loro “Dimenticati”, i giornalisti Danilo Chirico e Alessio Magro scrivono che dal gennaio 1969 ai primi mesi del 1998 in Italia i rapiti sono stati 694: 81 sono morti e di soli 27 si sono trovati i resti. La Lombardia, già negli anni Settanta invasa dalle cosche della ‘ndrangheta, detiene un macabro record: 158 rapimenti. Segue la Calabria con 128 (117 solo in provincia di Reggio). Poi la Sardegna (107), il Lazio (64), il Piemonte (39) e la Toscana (26). Ebbene, un terzo del totale porta la firma delle ‘ndrine calabresi. Numeri impres- sionanti per un Paese democratico e civile. Ogni sequestro, un riscatto: circa 400 sono stati i miliardi estorti. La metà dei quali ha ingrassato i padrini dell’Aspromonte.
A ritmo incessante si sono susseguite le imboscate degli uomini della ‘ndrangheta per catturare imprenditori, figli di industriali, medici, farmacisti. Fino agli anni Ottanta, quando è stato raggiunto l’apice; poi i sequestri sono diminuiti e, infine, cessati a metà degli anni Novanta.
In quel periodo terribile, Bovalino, la Locride e la provincia di Reggio Calabria erano al centro della notizia. Telecamere e macchine della Rai sostavano nelle piazze o davanti alle case. Nel mio paese, la piazza di fronte alla chiesa era illuminata dai riflettori delle dirette televisive, e al mio sguardo di bambino sembrava uno stadio che attende l’ingresso dei giocatori. Tutta quell’attenzione e quel trambusto nelle strade del paese mi davano un brivido di eccitazione, che però si mescolava all’apprensione che percepivo negli adulti: nel viavai degli amici a tarda sera, nelle parole sussurrate e nei volti tesi. Ero piccolo e i discorsi dei grandi mi sfuggivano, ma era impossibile non avvertire la preoccupazione, l’ansia, l’incertezza.
Quando mi sedevo in braccio alla nonna davanti al camino, le domandavo il perché dei riflettori, delle telecamere, e lei, che conosceva i nomi di tutti i giornalisti impegnati nella Locride, mi abbracciava e mi parlava come se fossi adulto; mi spiegava che erano lì perché le persone rapite che avevamo visto alla tv forse erano tenute nascoste sui nostri monti e bisognava fare tutto il possibile affinché venissero liberate. «È successo anche ai nostri amici, sai? Eri piccolo, avevi tre anni. Non puoi ricordare.» Si riferiva al sequestro del farmacista del paese, Giuseppe De Sandro, amico di famiglia.
C’erano giornalisti bravi e meno bravi. Quelli che aspettavano la notizia, che cercavano i fatti, e quelli che inseguivano con ferocia lo scoop. Da mostrare a un’Italia terrorizzata da una banda di selvaggi criminali dall’accento duro e dai modi rudi. Ignara che presto, con quegli stessi banditi, avrebbe concluso affari vantaggiosi e che eminenti politici, alla ricerca di voti, ci avrebbero cenato insieme. Gli italiani non immaginavano che avrebbero diretto le loro Asl e costruito le loro case, le autostrade, gestito discoteche e ristoranti.
Nella Locride si aggiravano anche personaggi ambigui, inviati da chissà quale grumo di potere per trattare con i rapitori. E uomini armati, con mimetiche e anfibi neri sporchi del fango dell’Aspromonte, alla ricerca dei sequestrati, nascosti nei covi scavati nelle nostre montagne. Ostaggi sepolti vivi sotto le frasche che celavano una voragine trasformata in tana. Nella cronaca dei telegiornali e dei quotidiani nazionali, la mia terra assomigliava a un paese in guerra. Da una parte lo Stato, timido e impacciato, dall’altra un esercito organizzato e pronto a tutto. E in mezzo noi, legati al nostro destino, i veri sequestrati nella patria dei sequestratri. Un inferno senza via di fuga. Isolati da un’informazione sensazionalistica, fatta di approssimazione e stereotipi, che ci trattava come animali esposti allo zoo.
Fotocopertina e Articolo del 15 Marzo 2013 da repubblica.it
Chi ha ucciso mio padre?
Un cronista nel mirino della ‘ndrangheta
di Roberto Saviano
Giovanni Tizian racconta nel libro “La nostra guerra non è mai finita” la sua vita blindata e come cerca la verità sulla tragedia che lo segnò per sempre
Spesso mi chiedo se può essere definito democratico un Paese dove chi scrive, chi racconta, finisce sotto protezione. Costretto a vivere circondato da carabinieri, poliziotti o finanzieri. Un Paese dove c’è chi considera la protezione antimafia un privilegio, una medaglia al valore, un riconoscimento, una strada per fare carriera.
Una scorciatoia dall’anonimato alla notorietà. Per qualcuno addirittura un modo per risparmiare su auto e benzina. In realtà una vita vissuta sotto protezione militare è una vita che non ti appartiene più, che smette di essere tua. Eppure sembrano pochi ad accorgersene. Diventa necessario chiedere il permesso, avvisare in anticipo su qualunque spostamento, anche minimo. Devi essere autorizzato a entrare in un ristorante, persino in un bar a bere un bicchier d’acqua se ti viene sete all’improvviso. E ogni volta che mi capita di incrociare la vita di una persona finita sotto scorta, ogni volta che mi imbatto in un altro cui è stata data la protezione – testimone di giustizia, magistrato, giornalista – la mia speranza di tornare a vivere libero svanisce. Quando per la prima volta mi hanno parlato di Giovanni Tizian, mi si è stretto il cuore. Un altro cronista finito sotto protezione, un’altra vita che si blinda, che si ferma, si blocca. Un ragazzo di trent’anni, volto pulito, nelle foto uno sciarpone come unica protezione. Da quando vivo sotto scorta ho incontrato molte persone nella mia stessa condizione e per ognuno di loro ho sentito che la mia sofferenza si moltiplicava.
La nostra guerra non è mai finita è un libro di un cronista che non si sottrae alla sua ferita. Non solo per l’analisi che Giovanni Tizian fa sullo stato dell’Italia e su come, da Nord a Sud, non smetta di scontare la miopia della classe dirigente che tratta tutto ciò che è connesso alle organizzazioni criminali come problema secondario rispetto alle urgenze economiche. Ma anche per il racconto della sua vita e dei ricordi di una famiglia costretta all’auto esilio. Costretta a lasciare la propria terra. Tizian scrive: “Le storie degli emigranti sono sempre tristi. Nascondono pochi segreti, tante paure e lunghe nostalgie”. E queste storie le racconta, ma non c’è soluzione. Non c’è giustizia per l’azienda materna distrutta, per un padre assassinato. Tutto, appena entra nel regno dominato dalle organizzazioni criminali, si sfuma. Tutti i contorni diventano indefiniti. Come una sorta di incredibile pudore. Come se un omicidio o una ritorsione, se commessi dalla ‘ndrangheta, pretendessero silenzio. Ma è il dolore a meritare rispetto, il dolore di chi ha sofferto e pagato senza colpa. Le parole di Tizian si articolano con pudore, sembrano guidate da un dovere e da una rara voglia di sfogo.
La nostra guerra non è mai finita è l’educazione sentimentale di un ragazzo meridionale cresciuto al Nord e finisce col mostrare come Sud e Nord non siano affatto mondi separati, ma aspetti complementari della stessa tragedia. Come le organizzazioni criminali costituiscano, più delle autostrade, più della lingua comune, più della comune appartenenza a un’unica nazione, il vero tratto unificatore tra due mondi.
Giovanni Tizian è cresciuto a Bovalino, nella Locride, e a sette anni con la madre e la nonna si è trasferito a Modena per ricominciare una vita lontano dalla Calabria. Da adulto, dopo gli studi universitari, decide di recuperare la memoria del passato, decide di recuperarla e di cercare se possibile quella giustizia che per decenni alla sua famiglia era stata negata. Il padre di Tizian “era un funzionario integerrimo, una brava persona, limpida e senza ombre, tanto da non consentirci di rintracciare indizi dai quali partire per risolvere il caso”. Ecco cosa disse alla famiglia l’investigatore che si occupava del caso. Una vita troppo pulita perché si riuscisse a fare chiarezza su ciò che gli era accaduto. È con questa consapevolezza che Giovanni Tizian inizia a fare domande per capire perché suo padre fosse stato ucciso, e perché poco tempo prima avessero dato alle fiamme l’azienda materna.
Tutto inizia al Tribunale di Locri. Giovanni chiede il fascicolo dell’omicidio di Giuseppe Tizian e dovrà aspettare due anni perché venga trovato e gli venga consegnato. Voleva ridare dignità a suo padre e con lui a tutte le vittime innocenti dimenticate dalla società. Da lì scopre che una quantità enorme di indizi erano stati tralasciati, che le piste da seguire non erano state battute che in superficie. Capisce che quando un omicidio, una ritorsione, fosse anche una vendetta per motivi passionali, porta la firma delle organizzazioni criminali, spesso viene circondata da silenzio: che nessuno ne parli, che tutto cada nel dimenticatoio. Un mobilificio dato alle fiamme, un dipendente della filiale di Locri del Monte dei Paschi di Siena ucciso in quelle terre non erano un’eccezione, ma la regola. Troppe le piste o nessuna.
Un libro dal ritmo diaristico che si salda all’inchiesta, tassello importante di un percorso battuto da altri giovani giornalisti e scrittori meridionali trasferiti al Nord, che hanno sentito l’urgenza di raccontare il potere criminale e a cui questo libro si collega. Penso a Giuseppe Catozzella con il suo bellissimo Alveare, o a Biagio Simonetta con Faide. L’impero della ‘ndrangheta. Il Sud raccontato dal Nord. Da un Nord sempre meno diverso, il cui dna negli anni è mutato: terra di investimenti e di conquiste. Luogo in cui da vittime ci si trasforma in carnefici. Da sfruttati in sfruttatori. E Tizian lo racconta sino infondo senza risparmiarsi.
Ecco, chi vuole sapere quanto costa scrivere in Italia, può visitare il sito di Osservatorio Ossigeno (www.ossigenoinformazione.it) e vedere quante sono le intimidazioni che ogni giorno subisce chi scrive, chi informa, chi fa ricerca. Quante sono le vite minacciate note e meno note. Da lì può capire che situazione vive l’Italia. L’osservatorio, gestito con coraggio da Alberto Spampinato, raccoglie e diffonde informazioni, e da anni tutela attraverso il racconto cronisti e giornalisti che hanno osato svelare i meccanismi con qualunque mezzo.
La nostra guerra non finirà mai, ho pensato, leggendo questo libro. E l’ho pensato soprattutto se il prossimo governo, qualunque esso sia, in qualunque modo verrà formato, non affronterà come problema prioritario la lotta alle mafie nel nord Italia. Perché quella normalità che Tizian invoca e che le mafie ci hanno tolto, non appartiene solo a noi scortati, protetti, minacciati, ma anche e soprattutto a questo Paese che non ci consente di vivere come uomini liberi. Responsabilità delle organizzazioni criminali, certo, ma anche del sistema che le alimenta. Che le nutre. Che non le blocca. Che consente loro di continuare a crescere, indisturbate. La lotta alle mafie non è un corollario, una battaglia secondaria rispetto alle priorità economiche, ma l’unico modo perché il nostro sia un paese realmente democratico.
Uso la riflessione su questo libro, rifletto sulla vita di Giovanni, ennesimo giornalista che sta pagando un prezzo alto per aver fatto il suo lavoro, per fare un appello a ridare una vita normale a chi è scortato in Italia. A liberare i corpi e le parole dal pericolo. Fino a quando si continuerà a vivere circondati da persone armate solo per ciò che si è scritto e detto, non riesco a definire il mio Paese una democrazia.
Nota di presentazione da librimondadori.it
“Un corpo irriconoscibile abbandonato come un cane nelle campagne della Locride. L’interminabile, soffocante stagione dei sequestri di persona. E poi, nella nostra carne, le fiamme che divorano il mobilificio di nonno Ciccio, l’omicidio di mio padre. E nessun colpevole.
Perché continuare a vivere in una terra che ripagava il nostro amore incondizionato con tanta spietata ferocia? Andarsene via, ovunque, purché lontano da Bovalino, fuori da quei confini diventati così angusti.
Approdare in una città accogliente come Modena, nel tentativo di rimuovere, di dimenticare il passato, di trovare una normalità. Nascondendo a tutti, persino a me stesso, la rabbia e la sofferenza.
E così ho fatto per tanto tempo, fino a quando, ormai ventenne, ho chiesto in lacrime a mia madre di guidarmi nel doloroso esercizio della memoria. Ho voluto sapere tutto di quella sera del 23 ottobre 1989, di quei colpi di lupara sparati contro la Panda rossa di mio padre. Dopo, per me è stato l’inizio di una nuova vita.
Senza più vergogna, senza più sentirmi addosso gli sguardi di commiserazione della gente.
Ma ricordare e raccontare sono atti troppo rivoluzionari, troppo scomodi per chi ha costruito il proprio impero sulla menzogna e sull’omertà.
Intanto la ‘ndrangheta aveva viaggiato più veloce di noi ed era già lì, nell’Emilia terra della Resistenza, a conquistarsi sul campo il predominio della criminalità organizzata e pronta a zittire le mie inchieste giornalistiche.
Dopo avermi rubato l’infanzia, voleva portarmi via anche il presente, la libertà e – adesso lo so – la vita.
Ma la voce delle vittime innocenti che non hanno avuto giustizia è troppo forte dentro di me per rinunciare.
Ho cercato di recuperare il tempo che è passato invano, inghiottito dal silenzio. Ho riavvolto il nastro dei ricordi, ho ripercorso trent’anni di storia della mia famiglia e della ‘ndrangheta moderna. Per scrivere di una guerra lunga tre generazioni, e mai finita.”