13 settembre 1945 Corleone (PA). Ucciso Liborio Ansalone, comandante dei vigili urbani, padre di 6 figli. Il 20 dicembre 1926 Ansalone aveva guidato i militari del prefetto Cesare Mori per le vie del paese, indicando una per una le abitazioni dei mafiosi
Liborio Ansalone, 51 anni, padre di 6 figli, comandante dei vigili urbani di Corleone, fu ucciso la sera del 13 settembre 1945, mentre era diretto verso casa, colpito all’addome da tre proiettili.
Era una persona perbene, uno che si era sempre sforzato di fare il proprio dovere, e in molti, comprese le istituzioni, si chiesero chi l’avesse ucciso, ad appena 5 mesi e mezzo dall’assassinio di Calogero Comaianni. Liborio Ansalone non aveva avuto contrasti con alcuno, il delitto fu archiviato come “a carico di ignoti”.
“Dalle «voci» che circolarono in paese, Ansalone aveva pagato un conto molto lontano nel tempo. Un conto antico, datato 20 dicembre 1926, il giorno della famosa «retata» del prefetto Mori a Corleone. Fu alle prime luci dell’alba di quel giorno che l’allora giovane comandante dei vigili urbani aveva guidato i militari di Cesare Mori per le vie del paese, indicando una per una le abitazioni dei mafiosi d’arrestare. «Era arduo spiegare che il comandante difficilmente avrebbe potuto sottrarsi all’ordine del superprefetto senza finire per primo in gattabuia o al confino», ma sembra che «qualcuno era convinto che ci avesse goduto». Sarà stato questo «qualcuno», in quei convulsi mesi del secondo dopoguerra, a rivolgersi a don Michele Navarra, fresco capomafia del paese, per avere l’autorizzazione a saldare quel vecchio conto. Don Michele, evidentemente, non si fece pregare e diede il «via libera» per togliere di mezzo «uno sbirro», che si era permesso di «aiutare» Cesare Mori, mettendosi contro i «fratuzzi» di Corleone.” (Fonte: cittanuove-corleone.it)
Articolo del 5 Aprile 2009 da cittanuove-corleone.it
Delitto Ansalone, mistero irrisolto
di Dino Paternostro
Il comandante dei vigili urbani fu ucciso il 13 settembre del 1945. Nel 1926 aveva preso parte alla «retata» Mori
Anche Liborio Ansalone, comandante dei vigili urbani di Corleone, era una persona perbene, uno che si era sempre sforzato di fare il suo dovere. La sera del 13 settembre 1945 si era soffermato in piazza, davanti al municipio, chiacchierando con qualche conoscente, poi era entrato in un negozio a comprare del bicarbonato e, lentamente, col pacco sottobraccio, si stava avviando verso casa, in piazza Nascè.
All’improvviso si udì il crepitare di alcuni colpi di fucile. Ansalone cadde supino al centro della piazza, accanto alla fontanella in ghisa, dalla quale continuava a zampillare l’acqua. Era stato colpito all’addome da tre proiettili, che l’avevano ucciso. Chi aveva sparato al comandante dei vigili urbani di Corleone, ad appena di 5 mesi e mezzo dall’assassinio Comaianni? E perché? Se lo chiedevano i passanti, che guardavano quel corpo senza vita steso per terra. Ma, più ancora, se lo chiesero la polizia e i carabinieri. Non fu facile trovare la risposta, perché Ansalone pare che non avesse avuto contrasti con nessuno. Aveva 51 anni, era figlio dello storico segretario comunale, rimasto per circa 50 anni al vertice della burocrazia municipale. Da tempo era sposato, aveva avuto ben sei figli – Maria, Clara, Nicola, Fausta, Giovanni e Umberto – che però da qualche anno abitavano a Palermo, insieme alla madre, per motivi di studio. «In paese era rimasto solo lui con la figlia più grande, Maria, che stava svezzando il secondo nipotino del comandante», ci racconta Nonuccio Anselmo, nel terzo volume della sua «Corleone Novecento». E non abitava più nella vecchia casa di famiglia di via Santa Caterina, ma in un appartamento preso in affitto presso l’Istituto Canzoneri. Ma, allora, perché era stato assassinato Liborio Ansalone?
In assenza di risposte certe, che nemmeno la magistratura riuscì a trovare (dopo mesi di indagini a vuoto, il delitto fu archiviato come «a carico di ignoti»), bisogna accontentarsi delle «voci» che circolarono in paese. A quanto si disse, Ansalone aveva pagato un conto molto lontano nel tempo. Un conto antico, datato 20 dicembre 1926, il giorno della famosa «retata» del prefetto Mori a Corleone. Fu alle prime luci dell’alba di quel giorno che l’allora giovane comandante dei vigili urbani aveva guidato i militari di Cesare Mori per le vie del paese, indicando una per una le abitazioni dei mafiosi d’arrestare. «Era arduo spiegare che il comandante difficilmente avrebbe potuto sottrarsi all’ordine del superprefetto senza finire per primo in gattabuia o al confino», spiega ancora Anselmo. Anche perché «qualcuno era convinto che ci avesse goduto». Sarà stato questo «qualcuno», in quei convulsi mesi del secondo dopoguerra, a rivolgersi a don Michele Navarra, fresco capomafia del paese, per avere l’autorizzazione a saldare quel vecchio conto. Don Michele, evidentemente, non si fece pregare e diede il «via libera» per togliere di mezzo «uno sbirro», che si era permesso di «aiutare» Cesare Mori, mettendosi contro i «fratuzzi» di Corleone. Contro i «paesani». D’altra parte, nella Corleone degli anni ’40, simili regolamenti di
conti erano la norma. Pochi mesi prima, il 28 marzo 1945, non erano stati Luciano Liggio e suo «compare» Giovanni Pasqua ad assassinare la guardia giurata Calogero Comaianni? Oggi potremmo dire che Ansalone e Comaianni si erano messi dalla parte della legalità. Allora furono solo «du sbirri» in meno sulla faccia della terra.
LIBORIO ANSALONE
raccontato da Mena
Liborio Ansalone abitava a Corleone, era comandante dei vigili urbani del paese e figlio dello storico segretario comunale.
Era un padre ed aveva 6 figli che vivevano a Palermo con la madre per motivi di studio, tranne una di loro, la più grande, di nome Maria, che abitava in paese con il papà perché era in attesa di un bimbo. Egli non abitava più nella sua vecchia casa, ma in un appartamento preso in affitto.
Il 20 dicembre 1926 Ansalone aveva guidato i militari del prefetto Cesare Mori per le vie del paese, indicando una per una le abitazioni dei mafiosi da arrestare. Poi essi sfilarono incatenati per il corso principale, fino al grande spiazzo del “Piano del Borgo”, dove sostarono, in attesa di essere tradotti all’Ucciardone. Questo era lo stile del prefetto Mori, che voleva suscitare grande impressione con le sue azioni.
Ma la mafia si vendicò molto tempo dopo, il 13 settembre 1945.
Ansalone era in piazza, entrò in un negozio per comprare del bicarbonato e andò verso casa, all’improvviso si udì il crepitare di alcuni colpi di fucile, proprio nella sua direzione. Ansalone cadde al centro della piazza, accanto alla fontana di ghisa, colpito a morte. Al comandante dei vigili urbani, Liborio Ansalone, l’amministrazione comunale di Corleone ha dedicato una strada in contrada “Punzonotto”. Si tratta della traversa – ancora senza nome – che collega la via Rocco Chinnici alla via Ugo Triolo [La Sicilia, domenica 14 agosto 2005 articolo di Dino Paternostro].
Articolo del 9 dicembre 2007 da mafiazero.blogspot.it
Un po’ di storia…
Alle prime luci dell’alba del 20 dicembre 1926, Corleone si era risvegliata in stato d’assedio. Poliziotti e Reali Carabinieri, armati fino ai denti, bloccarono il paese, impedendo a chiunque di uscirne o di entrarne. Altre squadre, aiutate dal comandante dei vigili urbani Liborio Ansalone, bussavano energicamente alle porte di alcune case, segnate su fogli di carta, con tanto di numeri civici e di personaggi che vi abitavano. «Per ordine di Sua Eccellenza il Prefetto Cesare Mori, vi dichiaro in arresto!», diceva il capopattuglia. Poi, attorno ai polsi di ogni ricercato, scattavano le manette. Dovevano essere 150, ma in casa ne trovarono meno della metà. Gli altri erano fuggiti per tempo, chi a nascondersi tra le montagne e chi a cercare «protezione» in America. Tra quest’ultimi c’era anche Marcellino Francesco Binenti, con cui la locale sezione del Fascio aveva “flirtato” per lungo tempo. «Indicato come uomo di rispetto perché molto vicino al Circolo agrario che, secondo la polizia, era in realtà covo di mafiosi… Binenti… era riuscito a metterci di mezzo il mare, a trasferirsi negli States. I suoi compaesani raccontano che lì si era bene inserito ed era riuscito con altri soci a mettere in piedi una redditizia casa di funerali dove si sistemavano e imbellettavano i cadaveri prima di condurli all’ultima dimora», scrive Nonuccio Anselmo nel secondo volume del suo «Corleone Novecento» (1999).
D’altra parte, a partire dalla fine dell’800, la mafia era stata esportata negli Stati Uniti d’America proprio dai mafiosi siciliani emigrati. E sono ormai ampiamente provati gli stretti legami tra i mafiosi in America e i mafiosi in Sicilia, anche in quegli anni. Per esempio, quando, tra il 1901 e il 1904, il boss mafioso Vito Cascio Ferro dalla Sicilia si trasferì a New York, s’inserì subito nella “cosca” capeggiata da Giuseppe “Piddu” Morello, originario di Corleone. Secondo John Dickie (Cosa Nostra, Laterza Roma-Bari): «La composizione della banda Morello ci offre importanti informazioni sul livello di coordinamento tra gli uomini d’onore in Sicilia. Morello era di Corleone, Cascio Ferro della vicina Bisacquino. Fontana era di Villabate, più vicina al capoluogo regionale. Altri membri provenivano da Partinico, più lontana verso ovest. (…) La banda di Piddu Morello costituiva un avamposto per gli uomini d’onore particolarmente intraprendenti dell’intera provincia di Palermo (e non solo)».
A Corleone, invece, gli arrestati – in gran parte appartenenti al “gotha” della mafia – sfilarono incatenati per il corso principale, fino al grande spiazzo del «Piano del Borgo» (l’attuale piazza Falcone e Borsellino), dove furono fatti sostare, in attesa di essere tradotti all’Ucciardone. Un «colpo di teatro», come piaceva al prefetto Mori. I “fratuzzi” di Corleone, infatti, costituivano una delle più potenti organizzazioni criminali della provincia, che si erano macchiati di numerosi delitti. Nell’intendimento di Mori, quindi, la “retata” di Corleone doveva essere “spettacolare” e servire da monito ai mafiosi dell’intera provincia. Il prefetto, tra l’altro, elaborò anche un piano per costringere gli arrestati a confessare i loro delitti e i latitanti a consegnarsi. «Sfruttando la mentalità del siciliano, (…) arrestava i familiari… o inviava a casa, se essa era abitata solo dalla moglie o dalla madre del latitante, dei poliziotti facendoli trattenere per intere giornate, contando sull’orgoglio e il senso dell’onore del mafioso siciliano. Le retate di fatti non furono efficaci di per sé, ma lo furono utilizzando proprio questo ricatto psicologico», scrive Marzia Andretta in un saggio sui rapporti tra mafia e fascismo. In questa «caccia al mafioso», non mancarono abusi e degenerazioni da Santa Inquisizione. Bastava il semplice sospetto di appartenere ad una famiglia mafiosa, oppure una “provvidenziale” lettera anonima, per essere arrestati, torturati, processati e deportati in un’isola. Chi “pagò” a distanza di 19 anni il “crimine” di avere indicato agli uomini di Mori le case dei “fratuzzi”, durante la famosa “retata”, fu il comandante dei vigili urbani Liborio Ansalone. Il 13 settembre 1945, infatti, fu assassinato dalla mafia in piazza Nascè con tre colpi di fucile.
Fonte: La Sicilia