A Palermo per morire. I cento giorni che condannarono il Generale dalla Chiesa – di Luciano Mirone
A Palermo per morire. I cento giorni che condannarono il Generale dalla Chiesa
di Luciano Mirone
Fonte: castelvecchieditore.com
Un libro che fa luce su uno dei più clamorosi e misteriosi “buchi neri” della storia d’Italia: l’assassinio a Palermo del generale dei carabinieri Carlo Alberto dalla Chiesa, nominato dal governo prefetto del capoluogo siciliano per combattere la mafia. Vengono raccontati i suoi ultimi cento giorni in Sicilia, il contesto politico in cui maturò il delitto e le troppe ombre che ruotano intorno alla strage di via Isidoro Carini del 3 settembre 1982. Il processo sull’assassinio del generale, infatti, pur facendo riferimento a possibili «zone grigie», ha condannato soltanto il primo livello di Cosa nostra, l’ala militare, quella che ha commesso materialmente il crimine, senza addentrarsi su eventuali «mandanti esterni» che stanno dietro ai delitti eccellenti di quegli anni. Attraverso gli atti processuali e testimonianze inedite si delineano i probabili moventi sull’uccisione di Carlo Alberto dalla Chiesa che venne spedito a Palermo per contrastare la mafia senza avere i poteri necessari. Nel libro il giornalista e storico Luciano Mirone mette insieme i pezzi di un complesso mosaico che dal cuore della Sicilia porta nelle segrete stanze del potere italiano. Un unico «filo nero» che si dipana dagli anni Settanta alla stagione delle stragi di Capaci e di via D’Amelio, e che vede coinvolte costantemente le stesse entità: mafia, politica, alta finanza, servizi segreti deviati e massoneria. Nella ricostruzione molti elementi apparentemente distanti trovano una logica, che ha come punto di convergenza proprio la morte di Carlo Alberto dalla Chiesa. Dai rapporti intercorsi tra Giulio Andreotti e i politici siciliani collusi con Cosa nostra, alla scomparsa di Mino Pecorelli e la figura di Licio Gelli. Il testo si avvale delle interviste che l’autore ha realizzato con Nando dalla Chiesa, Francesco Accordino, Giuseppe Ayala, Gian Carlo Caselli, Alfredo Galasso, Riccardo Orioles, Umberto Santino e tante altre autorevoli personalità del mondo della politica, della magistratura, del giornalismo, le quali, oltre a ricordare la figura dell’ufficiale, tirano le fila sui motivi che portarono alla sua eliminazione.
Presentazione del libro del 3 Settembre 2012
Interventi di:
Antonio Ingroia
Luciano Mirone
Giuseppe Casarrubea
Riccardo Orioles
Leoluca Orlando
Prefazione al libro di Luciano Mirone
Dietro quella mano
C’è sempre una «mente raffinatissima» dietro una cassaforte svuotata, un computer manomesso, una valigetta trafugata o un’agenda rossa sparita. E dietro quella mente c’è sempre qualcuno che dà un ordine. Di svuotare quella cassaforte, di manomettere quel computer, di trafugare quella valigetta, di far sparire quell’agenda rossa. E poi di uccidere e di depistare, di omettere e di occultare. Chi si rifiuta muore. Copme nel Cile di Pinochet o nell’Unione Sovietica di Stalin.
In realtà, è dallo sbarco degli americani in Sicilia che lo Stato è sceso a patti con Cosa nostra. Uno sbarco previsto in un primo momento solo ad Anzio, nel Lazio, ma che vide un repentino cambio di strategia perché nella remota Sicilia qualcuno avrebbe potuto agevolare l’operazione attraverso apporti logistica e uomini fidati. E allora tutto fu anticipato. E allora da un carcere degli Stati Uniti Lucky Luciano – al secolo Salvatore Lucanìa, boss di Lercara Friddi in provincia di Palermo – contattò Cosa nostra siciliana su input dei servizi segreti statunitensi, che evidentemente agirono in nome della ragion di Stato.
I boss di Villalba e di Mussomeli, don Calogero Vizzini e Genco Russo, da un giorno all’altro diventarono sindaci su nomina degli americani, ed ecco che la mafia da quel momento diventò una cosa sola con la politica.
Certo, bisognava liberare l’Europa dall’esercito più sanguinario della Storia, ma da allora il legame tra Stato e mafia – esistente almeno dal secolo precedente – è stato legittimato, fino a quando è degenerato durante un altro conflitto: la Guerra Fredda tra il blocco dei Paesi occidentali e il blocco dei Paesi del comunismo sovietico.
Anche in questo caso – in un luogo strategico come la Sicilia – lo Stato ha «trattato» con la mafia, utilizzata come braccio armato e come macchina elettorale per non consentire al Partito comunista italiano di arrivare al governo mediante libere elezioni.
Ma nel frattempo lo Stato non ha visto – o non ha voluto vedere – le trasformazioni di Cosa nostra. Stavolta non erano personaggi tutto sommato paciosi come Calò Vizzini e Genco Russo a dettar legge. Stavolta d’erano i Riina e i Provenzano a comandare le stragi. E lo Stato ha continuato a comandare le stragi. E lo Stato ha continuato a «trattare» come se niente fosse. Basta leggere le risultanze processuali che scaturiscono dalle indagini su Capaci e su Via D’Amelio per comprendere.
Man mano che scrivevo questo libro mi sono addentrato negli anfratti reconditi di un contesto politico che dallo «sbarco» ai giorni nostri ha caratterizzato questi decenni.
Tante volte – mentre leggevo le sentenze dei vari processi – ho sentito risuonare nel mio cervello questa frase: «Ma in quale Stato viviamo?».
Non solo per il patto scellerato col diavolo cui la politica si è prestata, ma per i grovigli sotterrani che hanno portato uomini delle istituzioni a far parte della P2, a tollerare i depistaggi nelle stragi di Stato, ad agevolare addirittura la morte di Moro.
In nome dell’anticomunismo affaristi, faccendieri, intrallazzisti, mafiosi, hanno continuato la loro opera avvalendosi di un’impunità che le istituzioni hanno garantito per tanti decenni. E chi ha denunciato il misfatto è stato messo alla gogna. E se la gogna non ha funzionato ci sono stati sistemi ben più convincenti. Non è un caso che in Sicilia – oltre a magistrati, uomini politici, poliziotti e carabinieri – siano stati assassinati otto giornalisti, rei di essersi permessi di aver denunciato questo Stato a democrazia limitata.
Ucciderne uno per educarne cento. Colpire l’epicentro per ristabilire gli equilibri.
Il risultato terribile è che questa cultura dell’illegalità si è estesa gradualmente a una «società civile» che ha smarrito il proprio senso etico senza accorgersi dello sfaldamento dell Stato di diritto.
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La storia del generale Dalla Chiesa è emblematica perché fa comprendere che le dinamiche del potere non riguardano solo la mafia e la politica – come spesso si dice semplificando – ma entità molto più complesse collegate fra loro come in un sistema di vasi comunicanti. E allora è meglio non farsi illusioni: fino a quando questo sistema durerà, l’Italia resterà un Paese a democrazia e a modernizzazione incompiuta.
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