Così Rocco Chinnici svelò la “mafia spa” di Umberto Santino
Così Rocco Chinnici svelò la “mafia spa”
di Umberto Santino
Articolo del 29 Luglio 2014 da palermo.repubblica.it
Tratto da: lesiciliane.org/casablanca
Capì che il delitto Impastato non era il gesto di un terrorista. Iniziatore del pool intuì il peso finanziario di Cosa nostra
Ho cominciato a frequentare Rocco Chinnici dopo l’assassinio di Peppino Impastato. L’inchiesta era stata subito chiusa, in base alla convinzione, diffusa dalle forze dell’ordine e condivisa da gran parte della magistratura, che si fosse trattato di un atto terroristico compiuto da un suicida o da un attentatore inesperto, ma le denunce dei compagni di militanza, dei familiari di Peppino, che rompevano con la parentela mafiosa, di noi del Centro siciliano di documentazione, che aveva cominciato a operare già nel 1977, l’avevano fatta riaprire. E abbiamo trovato subito in Chinnici un magistrato attento alle nostre istanze e impegnato, con intelligente tenacia, nella ricerca della verità.
Ma Chinnici non era soltanto un grande magistrato, era anche, naturaliter, un maestro di vita. Non solo nel palazzo di giustizia, ma in un contesto più ampio. Per anni ha partecipato a incontri nelle scuole, a seminari, convegni e dibattiti, aprendo una strada che allora non era molto frequentata. E molto spesso mi sono trovato al suo fianco. Così, nell’aprile del 1982, nell’ambito dei seminari su droga e tossicodipendenza, organizzati all’Università di Palermo dal Centro di documentazione intitolato dal 1980 a Peppino Impastato (una scelta che in molti ambienti produsse più isolamento che approvazione), ha svolto una relazione sullo sviluppo della tossicodipendenza in Italia, e nell’aprile del 1983, nel corso di un seminario sulla legge antimafia, ha parlato del problema della prova nel processo penale. Il suo contributo era sempre lucido e appassionato. E anche quando avevamo vedute diverse, come per esempio sul problema del proibizionismo, il dibattito con lui era all’insegna del rispetto e della volontà di trovare un terreno comune.
Per l’inchiesta sull’assassinio di Peppino Impastato il ruolo del consigliere istruttore Chinnici è stato decisivo. Sua è in gran parte la sentenza che riconosceva che si era trattato di un omicidio di mafia, completata e firmata dal suo successore, Antonino Caponnetto, e pubblicata nel maggio del 1984. Senza quella sentenza sarebbe stato difficile, se non impossibile, continuare le indagini, che portarono all’individuazione dei mandanti e alla loro condanna. In quella sentenza c’era anche un accenno al depistaggio delle indagini, che farà da base per la richiesta alla Commissione parlamentare antimafia di accertare le responsabilità delle forze dell’ordine e della magistratura.
Negli anni successivi alla strage del 29 luglio 1983 l’immagine di Chinnici è stata spesso posta in ombra, eppure il suo ruolo ha lasciato il segno. Il pool antimafia, che portò al maxiprocesso del 1986, fu formalizzato da Caponnetto, ma era stato avviato da Chinnici. Sua l’idea che le indagini sulla mafia dovessero ripercorrere la catena che salda le singole vicende criminali in un contesto unitario. Sua la rigorosa ricostruzione dell’evoluzione della mafia in quegli anni, con al centro l’impero economico-finanziario dei Salvo e l’interazione con settori delle istituzioni e della politica. A chi sosteneva che questi rapporti ormai facevano parte del passato, in una relazione presentata a un incontro con i magistrati, svoltosi nel giugno del 1982, rispondeva: “Oggi, più di ieri, la mafia, inserita com’è nella vita economica dell’Isola, non può fare a meno di tali rapporti”. E in quella relazione sottolineava il ruolo crescente a livello internazionale della ‘ndrangheta e della camorra, allora e anche dopo ignorate o sottovalutate.
Sua la scelta di raccogliere nel pool magistrati che sono entrati nella storia del nostro paese, non solo per la tragica fine ma per il livello di professionalità maturata all’interno di un lavoro collettivo. Grazie alle sue scelte, Giovanni Falcone ha potuto dedicarsi alle indagini finanziarie, con risultati che restano ancor oggi un punto di riferimento a livello internazionale.
La memoria di un movimento antimafia maturo, di cittadini consapevoli di vivere una storia di liberazione, che ha senso solo se è corale e condivisa, dovrebbe evitare di erigere altari per alcuni e dimenticare gli altri. Forse a Chinnici non è giovata la grande sobrietà che lo contraddistingueva. Ma in un mondo in cui troppo spesso si fa a gomitate, la sobrietà è un merito e una virtù. Ricordo i colloqui con lui in una stanza a pianterreno del palazzo di giustizia, con una grande vetrata. Mi diceva che quando era stata collocata era a prova di proiettile (ma nel frattempo gli arsenali si erano aggiornati). E alla mia domanda su quanti fossero i magistrati impegnati in inchieste sulla mafia, rispondeva: “Pochi, meno di dieci”.
Ora sono di più, ma l’azione di guerra con cui nell’estate del 1983 hanno voluto falciare la vita di Rocco Chinnici, di Salvatore Bartolotta e Mario Trapassi, di Stefano Li Sacchi, facendo di Palermo una succursale di Beirut, voleva anche sottolineare la solitudine di chi allora si batteva contro la mafia, registrando l’indifferenza e l’avversione di tanti, qualcuno indicato con nome e cognome in un diario, e non arretrando di fronte a pericoli e minacce. Forse l’immagine più efficace di come lavoravano i magistrati in quegli anni è l’ascensore nel palazzo di giustizia in cui Chinnici si incontrava con il procuratore Gaetano Costa, per non far sentire quel che avevano da dirsi a orecchie indiscrete. Costa, isolato dai sostituti che non firmarono un suo provvedimento, doveva cadere su un marciapiedi di via Cavour il 6 agosto del 1980. E se per Chinnici, dopo varie disavventure, si è fatta in qualche modo giustizia, per Costa stiamo ancora ad agitare ombre.