Donne e mafia: tra vittime dimenticate e aguzzine idolatrate – di Chantal Castiglione

Donne e mafia: tra vittime dimenticate e aguzzine idolatrate
La storia di Emanuela Sansone prima vittima innocente di mafia e il ruolo della donna
di Chantal Castiglione

Fonte:  calabriadirettanews.com
Articolo dell’11 aprile 2019

 

27 dicembre 1896. Due giorni dopo Natale. Palermo. Emanuela Sansone ha diciassette anni. La troviamo per terra in una pozza di sangue, colpita mortalmente alla tempia da un colpo di fucile. Accanto a lei, solo ferita ad un braccio e al fianco, c’è Giuseppa Di Sarno, madre della giovane ed oste. Da una prima ricostruzione dei fatti pare che Emanuela sia stata uccisa perché aveva rifiutato la corte di un pretendente. Illazioni. Come emerge dal rapporto del questore Sangiorgi, la verità è un’altra. La condanna a morte era stata emessa per sua madre, che secondo la cosca mafiosa di Falde, li aveva denunciati per fabbricazione di banconote false. La presunta colpa della Di Sarno sarebbe stata la violazione di omertà, una colpa, si scoprirà, mai commessa. Emanuela Sansone diventa, così, la prima donna vittima innocente di mafia e sua madre la prima donna a collaborare con la giustizia per verità e amore.

Le mafie non guardano in faccia nessuno. Uomini d’onore li chiamano. Uomini d’onore che non torcerebbero un capello a donne e bambini si racconta. Le vittime ci chiedono costantemente il conto di questa grande bugia. Salvaguardare l’onore della “famigghia” col sangue pazzo di chi osa andare contro i “comandamenti dei padri”, ancora di più se è femmina buona solo per curare le faccende di casa, saziare i vari appetiti dei mariti e mettere al mondo figli. Mute, sorde e cieche.

La storia delle donne vittime di mafia fa parte molte volte di quella memoria accantonata, una difficoltà di fare memoria del e per il femminile, come se la lotta al malaffare sia prerogativa solo maschile. Come un rosario del dolore snocciolato distrattamente in quell’elenco in costante aggiornamento ritroviamo i nomi di giovani donne che hanno deciso di ribellarsi, vittime inconsapevoli di vendette trasversali, ammazzate per amore, torturate, suicidate. La memoria come campo minato, incidentato, stereotipato. Tanti i vissuti che andrebbero riscoperti, narrati, affinché la dimenticanza non li cancelli definitivamente.Le donne rappresentano da sempre il motore in grado di rivoluzionare il quotidiano con atti di estremo coraggio e di amore incondizionato. Donne-madri di nuove rivendicazioni e di nuove battaglie. Pronte al sacrificio più grande. Il donarsi e donare la vita anche quando la si perde.

L’antimafia è donna e penso ai visi dolci di: Gelsomina Verde (22 anni, torturata e il corpo dato alle fiamme nella sua auto dalla camorra), Rita Atria (suicida a 17 anni pochi giorni dopo la Strage di via D’Amelio, testimone di giustizia), Graziella Campagna (ammazzata a 17 anni da cosa nostra), Maria Concetta “Cetta” Cacciola (31 anni, suicidata dalla propria famiglia appartenente alla ‘ndrangheta), Ida Castelluccio in D’Agostino e il bimbo che portava in grembo (moglie dell’agente Nino, uccisi in un agguato da cosa nostra), Lea Garofalo (uccisa e fatta sparire dall’ex e padre di sua figlia affiliato alla ‘ndrangheta, perché aveva osato la strada dei testimoni di giustizia); ma anche quello di Felicia Bartolotta Impastato, mamma di Peppino che invece di chiedere vendetta pretese giustizia per l’assassinio di suo figlio, rompendo definitivamente i legami con i parenti mafiosi, di Liliana Esposito Carbone che ancora chiede verità e giustizia per l’uccisione a Locri di suo figlio Massimiliano.

In antitesi a queste Donne, ne troviamo altre, le donne-boss che gestiscono gli affari di famiglia per conto dei propri familiari finiti in carcere. Messaggere di amore e pizzini. Crudeli. Ambiziose. Avide di potere. In questi anni i media ci hanno raccontato anche di loro. E le fiction e i film del genere “mafia”, le hanno consacrate ad eroine di un mondo al contrario, in cui si racconta e si idealizzano troppo i carnefici, mentre le vittime vengono cancellate perché un po’ sfigate (diciamola tutta). Fa più audience forse raccontare le gesta della mafiosa di turno, che forse si redime o forse no. Bella e dannata. Quasi da emulare, che riesce a prendersi quello che vuole e che importa se lo fa in modo sanguinario e cruento.

Mentre parlare, denunciare, opporsi è da perditempo, tanto così è sempre stato e sempre sarà. Non è così e la storia di tante donne ammazzate dalle mafie perché hanno osato disobbedire e ribellarsi ce lo dimostra. Loro che hanno offerto la propria esistenza al vento del cambiamento che prima o poi spazzerà l’odore nauseabondo del malaffare. Porterà a un cambiamento di mentalità e una presa di coscienza. Non dimentichiamole e non lasciamole sole.

E a me vengono in mente le parole di Umberto Santino nella sua preghiera laica “Ricordati di ricordare”: «Ricordati d ricordare i nomi delle vittime e i nomi dei carnefici (i notissimi ignoti di ieri e di oggi) perché tutte le vittime siano strappate alla morte per dimenticanza e i carnefici sappiano che non finiremo mai di condannarli anche se hanno avuto mille assoluzioni».