I GATTOPARDI NON MUOIONO MAI di Giovanni Falcone
I GATTOPARDI NON MUOIONO MAI
di Giovanni Falcone
Fonte: archiviolastampa.it
Articolo del 23 ottobre 1991
Che cosa resterà delle due settimane cominciate con la fuga del boss Vernengo dall’ospedale Civico di Palermo, dove si trovava in stato di arresto, e finite con l’annuncio da parte del governo dell’istituzione di un’«Fbi» italiana e di una «Superprocura» specializzata nelle inchieste antimafia?
C’è da sperare che tutto non si esaurisca nel solito strascico di polemiche, e da ciò che è accaduto possa venire almeno una lezione per il futuro. Ma senza entrare nel merito dei fatti, ancora al vaglio delle autorità competenti, qualche riflessione si può accennare fin d’ora.
Davanti al nuovo allarme per la ripresa della criminalità, in un momento che avrebbe richiesto forte responsabilizzazione e consapevolezza del pericolo, si è assistito a uno scarico di responsabilità, a richiami ai limiti formali delle leggi e dei compiti dei singoli; s’è parlato di Palermo come di una qualsiasi città, come se non fosse, appunto, la capitale di Cosa Nostra.
Al governo che non ha fatto nulla per nascondere i rischi di un abbassamento della guardia in una situazione così grave, gli operatori giudiziari hanno risposto con la difesa delle loro prerogative di indipendenza e autonomia. Formalmente, tutto è a posto: è la Costituzione a garantire che il potere esecutivo e quello giudiziario siano posti sullo stesso piano e salvaguardati da reciproche ingerenze. Quel che resta da capire è se un confronto sul da farsi si possa aprire o debba essere condannato, prima di cominciare, a una rigida contrapposizione fra la difesa del «vecchio» che non si può toccare e la ricerca del «nuovo» che non riesce a farsi strada.
Prendiamo ad esempio, tanto per fare un discorso più generale, il nuovo processo penale. Si tratta della più rilevante riforma giudiziaria dal dopoguerra a oggi. Si può pensare, come molti operatori non fanno mistero di pensare, che sia stata fatta solo per eliminare il rischio di nuovi maxi-processi o limitare le ambizioni dei «giudici-sceriffi»?
E si può credere veramente che avendo la riforma messo a nudo la crisi dell’apparato giudiziario, fino a quando lo Stato non sarà in grado di adeguare le strutture alle nuove norme, la giustizia sarà destinata a restare paralizzata?
Ovviamente anche interpretazioni del genere, benché paradossali, sono plausibili. O almeno, lo diventano sul terreno formale. Ma la verità è un’altra; e si può solo fingere di ignorarla. Il nuovo processo penale ha introdotto una serie di cambiamenti ai quali, presto o tardi, bisognerà adeguarsi. Ha sancito una differenziazione fra il ruolo della pubblica accusa e quello del giudice giudicante. E prima o poi porterà diversificazioni, specializzazioni, necessità di addestramenti e professionalità mirate.
L’idea che tutto possa finire nel vortice di un eterno gattopardismo, in cui si fìnge di cambiare e poi tutto resta uguale, non regge.
Così, riconoscere che il nuovo processo penale chiude un’era della giustizia italiana, e ne apre un’altra, non vuol dire rinunciare a garanzie e autonomie; né aprire il varco a una rivoluzione, che del resto nessuno vuole. Piuttosto, e più semplicemente, serve a capire che un muro di Berlino è caduto anche nel campo della giustizia italiana.
La difesa dei «punti fermi» non basta più davanti a una situazione mutata e segnata da nuovi allarmi, come l’attuale. E se non serve cambiare tutto, bisogna accettare almeno che tutto sia rimesso in discussione, o battere strade conosciute ma con diversa consapevolezza.