I Testimoni di Giustizia. Storia di chi ha testimoniato contro le mafie

 

GAETANO SAFFIOTTI

 

Articolo del 19 Novembre 2010 da giornale.sm

Chi è Gaetano Saffiotti? Colui che ha fatto arrestare 48 mafiosi..

L’azienda «Saffioti calcestruzzi e movimento terra», alla periferia di Palmi sulla strada che porta a Gioia Tauro, è un bunker: cancelli blindati, muri in cemento armato, decine di telecamere, filo spinato come nelle caserme , un’auto fissa della Finanza.

«Come a Guantanamo»: Gaetano Saffioti, 48 anni, gli ultimi otto vissuti sotto scorta per aver fatto arrestare 48 malavitosi della ‘ndrangheta che lo taglieggiavano, non ha perso il senso dell’umorismo. Da quando ha denunciato il racket, praticamente non lavora più in Calabria, è riuscito a salvare l’azienda con le commesse all’estero. «Gaetano Saffioti, ovvero la storia di un uomo esemplare» è il capitolo della sentenza del processo nato dalle sue denunce. «Sono nato cresciuto e pasciuto a Palmi. La mia famiglia aveva un frantoio. La ‘ndrangheta l’ho conosciuta a 8 anni. Ero andato in una colonia estiva a Sant’Eufemia, in Aspromonte, riservata ai più bravi della classe. Ci tenevo da morire. Dopo due giorni fui richiamato a casa. Torna perché mi manchi, disse mio padre. Anni dopo ho saputo che era stato minacciato e temeva per me. Morto mio padre, la famiglia era diventata più debole: una donna sola con sei figli minorenni. Arrivavano telefonate e mia madre piangeva. Noi chiedevamo: chi è ‘sta ‘ndrangheta?».

Nel 1981 Saffioti apre la ditta. «Ero appassionato di mezzi per movimento terra. Prima zappavo con il trattore, poi ho noleggiato la prima autopala, quindi un cingolato, un paio di camioncini. Fatturavo 5 milioni e mezzo di lire. Comincio a lavorare per i privati. Nel 1992 aggiungo l’impianto di calcestruzzo e vinco le prime gare d’appalto pubbliche». E le cosche? «Sempre tra i piedi. Fin da quando raccoglievo le olive. A loro non sfugge niente: persino i professori di scuola pagano il pizzo, costretti a dare voti alti ai figli dei boss. Quando ho cominciato a lavorare, c’era il boom dell’abusivismo: tanto lavoro, i boss lasciavano le molliche e prendevano i grossi appalti. Ora non lasciano nemmeno le molliche».

«Si presentavano a tutte le ore, io preparavo i soldi e li consegnavo a pacchi da dieci milioni. Quando ne arrestavano uno, il giorno stesso si presentava un sostituto. Erano cordiali, sapevano prima di me che mi era arrivato un accredito in banca e venivano a riscuotere la percentuale, dal 3 al 15 per cento. Quando c’era un sequestro dei beni di un boss, automaticamente bisognava “risarcirlo” pagando il doppio. Per arrivare al cantiere al porto di Gioia Tauro dovevo attraversare i territori di tre famiglie. E pagavo per tre. Come i caselli autostradali. Compravo una cava di inerti per fare il calcestruzzo? Non me la facevano usare, imponevano di comprare il materiale da loro. Così per le macchine: le mie restavano ferme e noleggiavo le loro. Pagavo anche se non mi piaceva. Io glielo dicevo: non si può andare avanti così. E loro mi sfidavano: denuncia. Avevo paura: di essere ucciso ma anche di essere considerato un prestanome dei boss e arrestato. Quindi registravo tutto: gli incontri, i colloqui, i pagamenti. Una specie di polizza vita».

L’azienda cresce a ritmi vertiginosi: 20-30 per cento l’anno. E così le tangenti ai boss. Ma anche la frustrazione di Gaetano, anche perché nel frattempo gli attentati intimidatori non cessano. In uno di questi, l’incendio di un mezzo in pieno giorno, il fratello di Gaetano rischia di morire. È la svolta: Saffioti si presenta dal procuratore Roberto Pennisi e consegna tutte le registrazioni. «All’alba del 25 gennaio 2002, all’arrivo in azienda trovo la Finanza: “Siamo qui per lei, se deve uscire l’accompagniamo noi”. Finiva un incubo e ne cominciava un altro. Da allora sono sempre con me e con la mia famiglia. In pochi giorni persi tutte le commesse, 55 dei 60 operai. Il fatturato scese da 15 milioni a 500 mila euro, le banche mi chiudevano i conti attivi, i fornitori mi chiedevano fideiussioni oltre il terzo grado di parentela perché “tu sei un morto che cammina”. Mia moglie piangeva. I clienti sparivano, nemmeno le confraternite venivano più a chiedermi i contributi per le feste patronali». Saffioti, diventato testimone di giustizia, vivrà il resto della sua vita blindato.

«Noi stasera non possiamo andare a cena, devo chiedere il permesso, bonificare il ristorante sempre che i proprietari mi vogliano, certi hotel mi respingono. Io ho rifiutato i soldi dello Stato: non sono un pentito. In Calabria non lavoro più, alle gare d’appalto arrivo sempre secondo. Le aziende che mi danno lavoro all’estero qui non mi parlano nemmeno per telefono: come gli amanti. Sopravvivo con i lavori in Spagna, in Francia (all’aeroporto di Parigi), in Romania. Ora sto lavorando a Dubailandia, il più grande parco giochi del mondo: una commessa da 55 milioni di euro battendo le multinazionali americane. Vorrei togliermi la soddisfazione di fare un chilometro della Salerno-Reggio Calabria, ma non mi è consentito. Ho offerto il materiale gratis ma non lo vogliono. In compenso i 48 che ho fatto arrestare, tutti condannati in primo grado, tra patteggiamenti e sconti di pena sono tutti liberi. E qualcuno lavora alla Salerno-Reggio. Però resto qui, anche se non cambia niente e io ho sacrificato la vita, perché io non sono solo condannato a morte, ma anche condannato a vita. Però mi basta sapere che mio figlio ventenne e sotto scorta, a cui ho rovinato la vita perché le ragazze gli dicono “tu sei figlio di un pentito”, mi capisce. E qualche giorno fa mi ha detto: “Papà, prendiamo il lato buono, io rispetto ai miei coetanei non ho mai problemi a trovare parcheggio”».

 

Articolo del 24 Febbraio 2012 da ilcarrettinodelleidee.com

Una vita in venti passi

di Claudia Benassai

Questa è la storia di un testimone di giustizia. Lui è Gaetano Saffioti, imprenditore calabrese che si è ribellato alla ‘ndrangheta.
L’azienda “Saffioti e calcestruzzi terra”si trova alla periferia di Palmi. Dal 2002 però qualcosa è inevitabilmente cambiato. Ci sono degli elementi che catturano subito il nostro sguardo, quando in una giornata piovosa, decidiamo di andare a trovare questo grande uomo, accompagnati dall’associazione antimafie Rita Atria. I cancelli sono blindati. Tutta l’area è sorvegliata. Due uomini della guardia di finanza stazionano guardinghi. Qui Gaetano Saffioti e sua moglie ci accolgono con grande calore ma nello stesso tempo lui ci dice subito qualcosa che gela l’atmosfera: “Noi facciamo venti passi”.  Quei venti passi sono lo spazio che separa l’azienda dalla loro abitazione. Uno spazio infinitamente limitato, in cui sono confinate le loro vite da quando Gaetano ha denunciato. Vite blindate, come gli infissi delle finestre da cui, affacciandosi, marito e moglie possono vedere solo la casa e l’azienda.
Parole che sicuramente ricordano il tragitto che divideva la casa di Peppino Impastato al boss Tano Badalamenti e che in maniera assai lapidaria racchiudono un mondo: quello di un uomo che si è trovato a convivere con la propria libertà personale e familiare violata. I toni quasi tragici sono subito smorzati dal grande senso di umorismo di questo grande omone calabrese che tra una battuta e l’altra ci ha fatto subito accomodare nel suo studio. L’orgoglio e l’amore per il proprio lavoro sono tali che su tutti i mobili dell’ufficio di Gaetano Saffioti campeggiano escavatrici giocattolo. A un certo punto ci chiede a bruciapelo “Volete vedere quando sono andato a Scommettiamo che?”. Con l’escavatrice, naturalmente. E sul suo iPad per qualche minuto abbiamo visto un uomo (con qualche anno in meno, qualche chilo in meno, ma con lo stesso amore per il suo lavoro) prendere tre olive con una forchetta attaccata alla pala dell’escavatore. Un’altra scommessa vinta nella vita di Gaetano Saffioti, insieme a quella per battere i suoi estorsori. La scrivania di Gaetano è piena di targhe che testimoniano l’impegno civile. Qualcuna recita così: “Chi denuncia non è lasciato solo”. Per l’imprenditore però uno dei gravi problemi è la disattenzione nei confronti della ‘ndrangheta. Le vicende di mafia sono sempre accompagnate dal silenzio dell’informazione e gli spazi sono occupati dalle vicende di Belen, Corona e le escort di Berlusconi. “Non è vero –dice-che le persone non si interessano a determinati problemi. Magari la collettività si interessa e vorrebbe saperne di più solo che nella nostra società è l’audience che conta”.L’imprenditore di Palmi continua il suo racconto ripercorrendo i momenti di grande difficoltà sul lavoro. Gli operai sono scappati via. Da sessantacinque sono scesi a cinque.
Ma ora il problema è di carattere diverso: ”In tanti lavori non mi vogliono non perché hanno paura delle ritorsioni. All’inizio forse era così; ma perché hanno paura che io denunci qualche situazione irregolare. Molte persone si celano dietro la convinzione che si è persona perbene solo perché non si è mafiosi, non si è assassini o ladri. La cosa più grave è autogiustificarsi per la propria condotta sbagliata. Quindi ad esempio si è evasori per colpa dello Stato che mette troppo tasse. Questo gesto e altri vanno a incidere nell’illegalità diffusa, e rappresentano anche un brutto esempio per i giovani che non hanno modelli che stanno dalla parte giusta. Questo è il passo che si dovrebbe fare, anche se non possiamo pensare che la situazione cambierà da un giorno all’altro”. La loro vita in venti passi, dunque, è un sacrificio per le generazioni future, ma non è una vita facile. Lo sa bene la moglie di Gaetano, a cui chiediamo se ha ricevuto solidarietà da parte dei concittadini.
La risposta è chiara e diretta: “Solidarietà? Ma quando mai?”. E ci racconta che ha dovuto cambiare tre volte parrucchiere da quando suo marito ha denunciato: “Dopo qualche mese mi viene puntualmente chiesto di non andare più al negozio per non creare problemi”. Parla a bassa voce, ma non le manda a dire la signora Saffioti. Non vuole apparire, ma sta sempre al fianco del marito. Poi chiediamo a Gaetano perché nel suo ufficio ci siano tre bandiere. Una dell’Europa, una dell’Italia con in mezzo quella della sua azienda: “La mia azienda ha questi modelli di riferimento. Io ho costruito tutto dal nulla. Mio padre però mi ha lasciato il buon nome. Era una persona onesta e corretta. Io ho avuto credito grazie a lui e desidero a mia volta lasciare la strada spianata per mio figlio. Credo che non avrei potuto agire diversamente dal non sottostare al regime del pizzo” Chiudiamo l’incontro con l’imprenditore coraggioso chiedendo se si sente più libero oggi o prima. La risposta non lascia margini di dubbio: “Assolutamente oggi. Perché voi non avete idea di cosa significhi essere portato al cospetto di un mafioso latitante ricercato dalle forze dell’ordine, in piena notte, tra uliveti e campagne con il rischio di non tornare più a casa, o vedere incendiato il mezzo, o sentire il potentato di turno dettare legge sui lavori che si possono o non possono fare. Il problema non è il pagamento del pizzo a Natale o santo Stefano, ma la vessazione continua tutti i giorni”. Da quel giorno  della ribellione sono passati undici anni. Quando gli estorsori sono finiti alle sbarre, quando la moglie di Gaetano guardando il telegiornale ha scoperto insieme a tutta Italia che suo marito ha sfidato la mano nera del racket.
Oggi, la famiglia Saffioti vive in venti passi. Eppure è libera.

 

 

 

Palmi (RC) – Gaetano Saffioti, imprenditore coraggio si racconta (18.03.11)

Palmi (Reggio Calabria) – Gaetano Saffioti è un imprenditore che opera nel settore edilizio da circa trenta anni. Nel 2002, con le sue denunce, ha fatto scattare l’operazione “Tallone d’Achille” contro i clan Bellocco e Piromalli. Da allora vive in regime di protezione da parte delle forze dell’ordine, che lo seguono in ogni spostamento che compie. Nel video di sopra, registrato il 18 Marzo 2011, in occasione della visita fattagli dai giovani dell’associazione Santuario Madonna di Briano e del comitato Don Peppino Diana, è intento a raccontare della sua vita da testimone di giustizia e di cosa rappresenti la ndrangheta per chi vive in Calabria. (18.03.11

 

 

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