I Testimoni di Giustizia. Storia di chi ha testimoniato contro le mafie

RITA

Tratto dall’ articolo del 26 Maggio 2008 di italia.panorama.it

Nuovi testimoni di giustizia: la nostra vita sotto protezione

di Gianluigi Nuzzi

Per la prima volta cresce il numero di quanti denunciano le estorsioni e i killer dei clan: parlano, si mostrano senza timore e molti di loro rinunciano a cambiare identità. Panorama li ha incontrati: qualcuno si è fatto fotografare, tutti hanno raccontato le loro storie, le speranze, le paure. E spiegato come si viva meglio senza le cosche.

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Rita: “Meglio raccontare tutto”

La vita di Rita (nome di fantasia, per motivi di sicurezza) è un almanacco siciliano di scelte non sue. Di occasioni mancate. “Finita la quinta elementare mi sono fidanzata a 11 anni e a 13 anni ho avuto la prima figlia: volevo fare la poliziotta. Poi, a 19 anni, mi chiamano i carabinieri in caserma. Mi leggono delle intercettazioni con mia cugina; parlo di suo marito, killer delle cosche. “O ci racconti tutto o ti mettiamo dentro come complice della mafia”. Avevo già tre figli e ho deciso di collaborare. Ho raccontato di lui, di quanto fosse ignorante a far fuori la gente e a vantarsene con tutte. Si faceva bello in paese: ‘Ho ammazzato tizio, ho ucciso in auto caio…’. Firmo il verbale. La mattina dopo scatta la retata: finiscono in carcere 13 persone. Arriva la polizia a casa e ci dice ‘dovete partire d’urgenza’. Da ragazzina quale ero muoio di paura. Mio marito cade dalle nuvole: ancora non sapeva, ancora non gli avevo detto nulla. Ci portano in procura dove il giudice Paolo Borsellino mette una mano sulla spalla a mio marito: ‘Andatevene, è meglio’.

“Lui, bianco in volto, scende le scale di corsa. Siamo partiti verso una vita nuova senza niente, nemmeno un ricambio. Tre piccoli che piangevano: la più grande aveva 6 anni, la più piccola 1 anno e mezzo. Cambiamo una decina di case. Mio marito per un periodo ha smesso di lavorare, ma i vicini si sono fatti sospettosi e lui per giustificare la disoccupazione racconta di essere in pensione dopo un incidente sul lavoro. Altrimenti qualcuno insinua pure che siamo mafiosi. Noi, capite? Noi, con il rischio in agguato.

“Al mio paese si dice: ‘Le cose si fanno alla scordata”: a Pesaro un giorno mio marito ha riconosciuto un mafioso fuori dall’asilo dei miei figli. La notte stessa abbiamo cambiato casa con i piccoli che mi interrogavano: ‘Mamma, perché ce ne andiamo?’. E io che nemmeno sapevo dove saremmo finiti. Con la più piccola abbiamo sbagliato. Le hanno detto: ‘Se torni in Sicilia, ti ammazzano’. È ancora turbata, in classe vuol stare vicino alla maestra. I suoi disegni sono tutti neri. A volte mi sento in colpa per i miei figli. Ma è un prezzo che pago consapevolmente.

“Lo Stato e il Servizio centrale di protezione mi hanno sempre aiutato: 3 milioni 300 mila lire al mese di assegno, affitto e bollette pagate, 5 milioni per acquistare un’auto, 70 mila euro ora per aiutarmi a comprare la casa e un altro aiuto per chiudere un negozio. Contro la delinquenza meglio raccontare le cose. Perché la mafia fa schifo: io disprezzo i mafiosi per quello che fanno”.

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