I Testimoni di Giustizia. Storia di chi ha testimoniato contro le mafie

MARIA STEFANELLI

Articolo del 19 Gennaio 2013 da  narcomafie.it

Maria Stefanelli al processo Minotauro, “Ecco la mia vita come moglie di un boss”

di Manuela Mareso

Ci sono storie che restano sepolte nei faldoni delle procure, dimenticate negli archivi dei giornali, ma ancora vive e sanguinanti nell’animo di chi le ha vissute.

E’ una di queste la vita di Maria Stefanelli, classe 1965, testimone di giustizia contro la ‘ndrangheta in Piemonte dal 1998, costretta tutt’oggi a vivere sotto protezione per la ferocia della famiglia dei Marando che di lei, invece, non si è dimenticata.

Una vita spezzata dalle assurde regole dell’organizzazione, dalla rigidità dei protocolli dell’onorata società, dalla violenza del vivere mafioso. Vita raccontata, in ore di dolorosa deposizione, proprio in questi giorni a Torino nell’ambito del processo Minotauro scaturito dall’operazione che l’8 giugno del 2011, sotto il coordinamento della procura di Torino guidata da Gian Carlo Caselli, ha sgominato 9 locali di ‘ndrangheta nel capoluogo e in provincia.

Non piace che racconti, Maria. In alcuni momenti della deposizione, gli imputati dietro le sbarre si innervosiscono e il giudice Paola Trovati è costretta a richiamarli al silenzio. Un avvocato si lamenta con i giornali: “La Stefanelli non ha più nessun contatto con le persone di cui parla dal 1998, perché chiamarla a testimoniare in un processo le cui indagini sono state condotte dal 2007?”.

Le ragioni, invece, ci sono eccome. Foss’anche per portare davanti alla corte una testimonianza che faccia capire che cos’è e come opera la ‘ndrangheta, visto che troppi processi nelle regioni settentrionali stanno registrando preoccupanti assoluzioni da parte di una magistratura giudicante che, dopo sessant’anni di mafie al nord, appare ancora titubante di fronte alla natura delle organizzazioni criminali di stampo mafioso. Ma quello che racconta Maria riguarda invece da vicino la storia di molti di coloro che si trovano imputati nel maxiprocesso. E la sentenza sull’omicidio di suo fratello e del suo patrigno, per cui nel 2000 sono stati condannati Domenico Marando e Giuseppe Leuzzi, è agli atti del dibattimento in corso.

Maria Stefanelli è la sorella di Antonino Stefanelli, e figliastra dell’omonimo Antonio, i due esponenti della cosca ‘ndranghetista di Varazze (Sv) che con Francesco Mancuso il 1° giugno 1997 caddero in una trappola a Volpiano (To) a casa di Domenico Marando, che voleva vendicare la morte del fratello Francesco avvenuta nel 1996 di cui i tre erano supposti responsabili: l’ipotesi è che non avrebbero saldato con lui un debito per una partita di droga e, consapevoli dei rischi che quella mancanza comportava, lo avrebbero preceduto nell’eliminarlo. Si salvò, quella sera, solo Roberto Romeo, rimasto di guardia, che sull’alta scalinata di un noto centro commerciale dell’hinterland torinese raccontò alla stessa Stefanelli le dinamiche della scomparsa. Romeo nel 1998 sarebbe poi caduto a Rivalta (To) in un’imboscata di Antonio Spagnolo, con la collaborazione di Rocco Varacalli, uomo di fiducia dei Marando, con un ruolo chiave nell’attuale processo dell’aula bunker delle Vallette perché è stato proprio il suo pentimento nel 2006 a togliere il coperchio sugli affari delle cosche in Piemonte e a rendere così possibile l’operazione Minotauro.

Ma, soprattutto, Maria Stefanelli è la moglie di quel Francesco Marando vendicato nell’agguato di Volpiano, ucciso nel 1996.­ Il cadavere carbonizzato fu ritrovato nei boschi di Chianocco (To).

Della morte del marito Maria venne a sapere dal telegiornale: “E’ stato ritrovato il corpo carbonizzato di un uomo di origine marocchina. Portava al dito una fede nuziale con inciso “Maria 9 giugno 1990””. La donna, all’epoca trentunenne e con una bambina piccola, si stupì della coincidenza con il nome e la data delle sue nozze, ma solo quando alla porta si presentò la lunga processione per le condoglianze capì che l’anello era il suo.

“Mi crollò il mondo addosso, ma non posso negare che quella notizia fu per me una liberazione”.

Quando Maria Stefanelli pronuncia queste parole, chi il 16 gennaio 2013 era in aula comprende le ragioni dello sfogo di cui la donna sente ancora di doversi giustificare, perché ha già ascoltato la sua storia, che il pubblico ministero Monica Abbatecola le aveva chiesto di raccontare. Maria Stefanelli parla del fidanzamento combinato dalle famiglie, a cui lei aveva ceduto per la necessità di lasciare la casa materna (fidanzamento avvenuto al carcere delle Vallette, dove Francesco Marando si trovava recluso, e matrimonio in Comune a Torino, con il promesso sposo che arriva in blindato e firma gli atti con le manette ai polsi); della vita da reclusa a cui suocera e cognati la costringono, in un appartamento senza acqua, luce e riscaldamento, il cibo contato, uniche uscite ­- sempre sotto sorveglianza – le visite quotidiane al marito e la spesa per la necessità della famiglia da cui era trattata come una serva; dei pizzini che deve portare fuori dal carcere per la prosecuzione dei traffici dei Marando; delle riunioni al giardino dei Perre (un’altra famiglia affiliata) a Volpiano, dove ha assistito a riunioni di affari e a ingressi nell’“onorata società” suggellati da brindisi e grandi mangiate, da cui le donne erano escluse, buone solo per servire al tavolo. Racconta della paura quotidiana, delle corse dagli avvocati per trovare il modo di fare uscire dal carcere il marito, dell’organizzazione della rocambolesca fuga dall’ospedale psichiatrico di Genova dove Francesco Marando riuscì a farsi ricoverare fingendosi depresso.

Da quella fuga l’inizio della latitanza, il periodo più duro per lei, costretta a trasferirsi a Platì (Rc), in una casa in cui subiva continue incursioni nel cuore della notte da parte delle teste di cuoio, che entravano sfondando porte e finestre che lei aveva smesso di riparare, tanto nessuno a Platì l’avrebbe mai toccata, lei, moglie del super ricercato Francesco Marando. Che infatti si trovava ospite a poca distanza, e con cui riusciva ad avere fugaci incontri, prelevata dagli uomini che ne supportavano la latitanza, che la conducevano nelle case in cui si nascondeva, o nei bunker nel bosco, in cui lui era “attrezzato e armato di tutto punto tanto da sembrare Rambo. A volte sentivamo i cani e i passi di chi lo cercava proprio sopra le nostre teste. Ma io non ero complice, non potevo che fare così, mi avrebbero ammazzata”.

L’ultima volta che lo vede è il 6 aprile 1996, compleanno di Marando: erano stati insieme nascosti una settimana, e proprio quell’ultimo giorno lui l’aveva massacrata di botte, perché dovendo andare a portare le condoglianze per una morte si era permessa di lasciare la bambina a una vicina di casa anziché alla suocera. Botte da sanguinare, senza potersi curare da nessuna parte. Lei, che doveva anche sopportare che lui avesse un’amante.

Dopo la morte di Francesco Marando, Maria Stefanelli torna a casa dalla sua famiglia, a Varazze, in Liguria. Sola con la sua bambina, piena di debiti lasciatigli dal marito che trafficava droga per centinaia di milioni di lire. Non un soldo, costretta a lavorare nei cantieri edili per tirare avanti: “Ma volevo che mia figlia crescesse con dignità”.

L’anno dopo avviene l’omicidio di suo fratello Antonino e dello zio Antonio Stefanelli, fratello del padre morto di infarto con cui la madre si era risposata in seconde nozze.

Poi l’incontro con Roberto Romeo, che le rivela i retroscena del delitto.

Lei, intanto, continua a subire le pressioni della famiglia acquisita: “Vogliamo vedere la bambina, è nostro diritto. Devi scendere in Calabria per la messa di ricordo di tuo marito”.

Quando viene a sapere che anche Romeo è stato ucciso, si decide per la scelta più difficile. Lo dice ancora piangendo: “Ho fatto la scelta della mia vita, quella più giusta, anche se ho perso tutto, la mia famiglia che mi ha chiamata infame, mia madre che ho potuto rivedere solo quando era già morta in una cella di frigorifero. Ho scelto di dire quello che sapevo, perché altrimenti sarei stata assassina anch’io”. Preparerà di corsa una valigia con poche cose lasciandosi tutto alle spalle. Il giudice Marcello Tatangelo raccoglierà la sua testimonianza.

Ma la sua storia non è ancora finita: “Loro mi danno la caccia tuttora. Coi Marando non si scherza”.

Articolo del 2 Luglio 2013 da  narcomafie.it

Io, tradita dai giudici

di Manuela Mareso

Quindici anni di solitudine. Di fuga, di isolamento. Per lei e sua figlia. Nessun contatto con la famiglia, nessun amico. Per loro ormai è un’“infame”, e l’hanno cancellata dalle loro vite. Nessuno a cui poter raccontare il suo passato. Un nuovo nome, una nuova identità. È la storia di Maria Stefanelli, testimone di giustizia contro la ‘ndrangheta dal 1998, dopo una vita di violenze e brutalità. Una voce che fuori dai tribunali nessuno ha mai sentito, e oggi, per la prima volta, decide di spezzare il silenzio. Il motivo è la decisione dei giudici di Torino – Paola Trovati, Diamante Minucci e Alessandra Salvadori, chiamate a emettere il verdetto di primo grado nel maxi processo sulla ‘ndrangheta in Piemonte ora alle battute finali – di revocare l’ordinanza di custodia cautelare per Rosario Marando, elemento di spicco della famiglia di Platì (Rc) che da 30 anni comanda a Volpiano, nell’hinterland torinese. “Sono molto preoccupata per l’incolumità della mia cliente”, dice l’avvocato Cosima Marocco. “Rosario Marando ha più volte espresso un fortissimo livore nei suoi confronti, sia al processo Minotauro, dove è imputato per associazione mafiosa, sia al processo Stefanelli, in cui è accusato di omicidio. Era detenuto per narcotraffico, sarebbe dovuto uscire nell’aprile del 2014, invece con un cumulo di pena è riuscito a estinguere i mesi residui e dunque ora è fuori”. Nel processo riaperto per la morte di Antonio e Antonino Stefanelli e Francesco Mancuso – per il quale nel 2000 era già stata pronunciata una condanna per il fratello Domenico Marando e per Giuseppe Leuzzi, condannati all’ergastolo –, Rosario Marando è stato protagonista di un colpo di scena: “So dove sono sepolti i tre cadaveri, ce li ho messi io”, ha affermato lo scorso aprile, interrompendo l’udienza e portando giudici, pm e avvocati nel boschi della Vauda, a Volpiano. Ad oggi le ricerche non hanno portato risultati.

Signora Stefanelli, come ha reagito alla notizia della liberazione di Marando?

Sono terrorizzata. Non dormo e non mangio da giorni, sono ripiombata nell’incubo di anni fa. Rosario Marando appartiene a una famiglia potente di ‘ndrangheta, una famiglia di assassini oltre che di grandi trafficanti di droga. E lo so perché sono sua cognata. Ne ho sposato il fratello, il boss Francesco Marando, di cui sono rimasta vedova nel 1996, quando è stato ammazzato e bruciato nei boschi di Chianocco (To) dai miei familiari, con cui era finita l’intesa negli affari. Il nostro era stato un matrimonio combinato, come avviene nelle famiglie mafiose calabresi. Non ho mai pensato che i Marando dal carcere si fossero dimenticati di me, ma ora mi preoccupa il fatto che Rosario e Domenico si siano palesemente riavvicinati dopo la grossa rottura dovuta alla spartizione del tesoro del loro mitico – in ambienti criminali – fratello Pasqualino. Dalle sue deposizioni ai processi Rosario ha lanciato palesi messaggi, l’ultimo interrogatorio con il pm Roberto Sparagna sembrava un duello. Bisogna interpretarlo il linguaggio della ‘ndrangheta. Sapere che i fratelli Marando sono tornati in sintonia per me è una notizia angosciante. Eppure non è neanche questa la cosa che mi deprime maggiormente.

Che cosa allora?

Ancor più del fatto che sia libero, mi inquietano le motivazioni addotte. Suonano chiaramente come un’anticipazione di una sentenza di assoluzione, e temo non solo per Rosario. Si trattasse di un processo a Reggio Calabria penserei male. Siamo a Torino, voglio credere che semplicemente le tre giudici non sappiano che cos’è la ‘ndrangheta. Mi sembra che non colgano la caratura criminale di questi imputati, che li considerino solo dei bifolchi, dei cafoni, non delle menti più evolute come la guida di un’associazione di stampo mafioso impone. Del resto è un atteggiamento ricorrente nella magistratura giudicante di molti processi al nord. La mia era una sensazione maturata seguendo le udienze a distanza, e questo provvedimento sembra darmi ragione.

Perché è così severa nel suo giudizio?

In quella revoca si mettono in discussione le dichiarazioni mie, di Rocco Marando – il fratello pentito – e di Rocco Varacalli, il collaboratore che ha fatto scoppiare Minotauro. Il punto è questo: io, forse ingenuamente, ho sempre detto la verità. E la verità è che nessuno di loro, non Rosario e neanche mio marito, mi ha mai confessato “sono un affiliato”. Ma io ho assistito a molti rituali, ai “battesimi”, ai brindisi per i nuovi membri. Certo, non ho assistito a quelli dei Marando, anche perché loro erano già dentro l’organizzazione quando sono entrata nella famiglia. E sulla contestazione che non me ne abbiano mai fatto esplicito cenno, bisogna chiarire che nella ‘ndrangheta non funziona così, dell’appartenenza non si parla apertamente, figuriamoci alle donne poi, che sono bistrattate, sottomesse, umiliate, picchiate. Moltissime vanno avanti a psicofarmaci, per sopportare la morte di figli e mariti, o anche solo la prigionia in cui di fatto vivono. Io ero costretta a portare i pizzini fuori dal carcere per conto di mio marito, raggiungerlo nei suoi bunker sull’Aspromonte mentre era latitante. Perché ero la moglie di un mafioso. Se un giudice non capisce questo, non può capire la ‘ndrangheta.

Lei ha scelto di abbandonare quel mondo.

Sì, e l’ho pagato caro. Ma da quel momento nella giustizia ho sempre creduto, per questo quando mi hanno richiamata per i processi Stefanelli e Minotauro, dopo anni in cui mi ero rifatta una vita, benché misera come può essere quella di una fuggiasca sotto protezione, non ho avuto dubbi sull’accettare di testimoniare. E mi sono seduta su quella sedia da cui le giudici hanno visto uomini tremare di paura, imprenditori vessati sconfessare quello che avevano denunciato, addirittura persone rinnegare la propria identità e dire: “Non sono io, è un caso di omonimia”. Si è visto di tutto in quel processo. Purtroppo capita spesso che i giudici dei tribunali del nord sottovalutino la pericolosità e il livello di infiltrazione della ‘ndrangheta nel tessuto sociale ed economico, vanificando il lavoro dei magistrati inquirenti.

Che cosa pensa di fare ora?

Non lo so. Volevo essere dimenticata e dimenticare tutto. E’ stato impossibile. Quello che ho detto nelle aule di tribunale, e che già mi sembrava molto, è un centesimo di quello che ho vissuto. Capisco solo ora come una mancanza di conoscenza delle dinamiche dell’organizzazione possa influenzare le decisioni giudiziarie. Forse è il momento di raccontare come vive una donna di ‘ndrangheta e pubblicare il libro sulla mia vita che da tempo alcune persone di fiducia custodiscono con il mandato di divulgarlo nel caso mi fosse successo qualcosa. Lea Garofalo, Maria Concetta Cacciola e tante altre donne uccise per aver parlato non hanno fatto in tempo. Lo devo anche a loro.

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