I Testimoni di Giustizia. Storia di chi ha testimoniato contro le mafie
VINCENZO CERAVOLO
Articolo del 9 luglio 2012 da ilquotidianodellacalabria.it
Ceravolo, bersaglio nudo
Lo Stato gli toglie la scorta
L’imprenditore vibonese fu il primo a denunciare il boss Pantaleone Mancuso di Limbadi, detto “Luni Scarpuni”. Ma ora che il capoclan è tornato in libertà arriva anche l’annuncio della fine del programma di protezione per il suo accusatore
di PIETRO COMITO
VIBO VALENTIA – Vincenzo Ceravolo è un sopravvissuto. La mafia gli ha fatto la guerra. E anche lo Stato. E’ in trincea da una vita. Partì da una piccola pescheria, che poi crebbe. Un punto vendita e poi un altro e un altro ancora. La pescheria si trasformò in gruppo, gruppo internazionale che dalla costa vibonese ha conquistato il mercato: dall’America latina ai Paesi dell’Asia. Un esempio per capire: il sushi sulle tavole dei giapponesi; il tonno rosso del Mediterraneo, fresco e ingrassato, è suo. Si sa, però, cos’avviene a certe latitudini del globo. La ‘ndrangheta si fa sempre sotto e, se cresci, si fa sotto ancora di più. Minacce, estorsioni, attentati, danneggiamenti, furti. Una escalation che divenne insopportabile proprio quando Vincenzo Ceravolo si mise in testa di realizzare un miracolo: rilevare e convertire il sito industriale della Nostromo, fuggita dal Vibonese a gambe levate, all’inizio del millennio, per trasferire gli affari in Spagna.
Ci riuscì, malgrado la pressione mafiosa, i risarcimenti non ottenuti e le traversie giudiziarie legate all’impresa compiuta. Da qualunque prospettiva lo si osservi, Ceravolo è un pezzo di storia dell’imprenditoria calabrese. Anche perché lui fu il primo a denunciare un boss del clan Mancuso, proprio mentre i Mancuso – disse la Commissione parlamentare antimafia – erano «il clan della ‘ndrangheta finanziariamente più potente d’Europa». E non denunciò un boss qualunque, ma Pantaleone detto “Luni Scarpuni”, figura di primaria grandezza della holding criminale calabra, che fu arrestato, processato e condannato in via definitiva, nell’ambito di un processo penale che sembrò rappresentare lo spartiacque tra il passato ed il futuro. Un futuro che improvvisamente vide il “gigante” di Limbadi vulnerabile ai colpi dello Stato, messo in ginocchio dalle successive operazioni condotte dalla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro e dalla Squadra mobile di Vibo Valentia. Altri tempi quelli. E’ da allora che Ceravolo, anche da testimone di giustizia ripetutamente vittima di attentati ed intimidazioni, vive braccato, bersaglio di una temuta vendetta e controllato a vista dagli uomini della scorta che gli era stata assegnata nel lontano 2003. Sono passati più di nove anni, ma ora, sostiene il competente Ufficio centrale interforze per la sicurezza personale, della protezione non ha più bisogno. Dal 15 luglio prossimo, quindi, niente più agenti armati ad esorcizzare ogni ritorsione nei suoi confronti: gliel’hanno comunicato pochi giorni addietro, con una nota di diciassette righe scritta in burocratese, dalla quale nulla si evince in ordine ai motivi sottesi alla decisione. D’altronde chi è stato condannato a causa delle sue denunce ha finito di scontare la pena e, oggi, è libero. D’altronde è come se questi ultimi dieci anni, trascorsi a martellare il potentissimo casato di Limbadi, non siano mai trascorsi. Perché tutto è, ora, punto e a capo. Sempre che anche un’istituzione del contrasto alla ‘ndrangheta – il sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia Roberto Pennisi – non sbagli quando sostiene che i “padroni”, dal Vibonese al Nord Italia, sono di nuovo, ancora, loro: i Mancuso. «Paura? Ne più né meno di quella vissuta in questi anni», dice l’imprenditore. E’ nello studio del suo legale, l’avvocato Antonello Fuscà. «Impugneremo questo provvedimento», spiega il noto penalista che assiste Ceravolo sin dall’inizio della sua odissea nelle aule di giustizia. Sentimenti e intenzioni non mutano lo stato dell’arte: dal 15 luglio niente più scorta. Ciò in una provincia che negli ultimi quattro anni ha visto trenta morti ammazzati, alcuni dei quali caduti – sostiene la Direzione nazionale antimafia – per aver alzato la cresta in un territorio che può avere un solo casato egemone. Comunicazione glaciale dallo Stato, che così ringrazia per i servigi ricevuti, giunta al sesto anniversario della morte di Fedele Scarcella, testimone di giustizia assassinato ad un tiro di schioppo dalle aziende del gruppo Ceravolo. Scarcella, vittima dimenticata della mafia, imprenditore agricolo che anni prima aveva denunciato una banda di malavitosi della Piana. Anni dopo la vendetta. «A dimostrazione – disse Tano Grasso ai suoi funerali, a Vibo – che la ‘ndrangheta non dimentica mai». Ceravolo lo sa. Altri invece, nonostante Scarcella, nonostante Lea Garofalo, nonostante altri morti ammazzati, scelgono d’ignorare.
Articolo del 17 luglio 2012 da ilquotidianodellacalabria.it
Ripristinata la scorta al testimone Ceravolo che aveva denunciato il boss Luni Mancuso
La notizia gli è stata comunicata dalla questura vibonese. Nei giorni scorsi l’uomo aveva lanciato l’allarme perché la protezione sarebbe dovuta terminare il 15 luglio. L’articolo del Quotidiano che lo riferiva era stato poi fatto trovare attaccato tra i manifesti funebri
VIBO VALENTIA – La Questura di Vibo Valentia ha comunicato al testimone di giustizia Vincenzo Ceravolo, 59 anni di Pizzo, la proroga del servizio di protezione personale la cui revoca, a far data dal 15 luglio scorso, gli era stata annunciata lo scorso 27 dicembre. La proroga della scorta scadrà il prossimo 15 settembre.
L’imprenditore vibonese, leader nell’export del tonno fresco del Mediterraneo, è sotto protezione dal 28 maggio del 2003, in conseguenza della sua denuncia nei confronti del boss Pantaleone “Luni” Mancuso, capo della cosca Mancuso di Limbadi e Nicotera che, insieme ad un suo affiliato, fu processato e condannato per estorsione aggravata dalle modalità mafiose.
Nel corso degli anni l’imprenditore ha denunciato danneggiamenti subiti per circa 20milioni di euro. Nei giorni scorsi il testimone di giustizia è stato vittima di un’altra intimidazione, quando il ritaglio dell’articolo del Quotidiano della Calabria, che dava notizia della revoca della scorta all’imprenditore, è stato affisso tra i manifesti funebri in una via centrale di Vibo Valentia.
Articolo del 25 ottobre 2013 da ilquotidianodellacalabria.it
Arrestati in 7, avevano costretto testimone a ritrattare
Sette persone arrestate tra la provincia di Vibo e quella di Reggio con l’acucsa di estorsione e lesioni ma per alcuni di loro c’è anche la contestazione di aver costretto un testimone di giustizia a ritrattare le accuse fatte durante un processo. Per la Dda i sette arrestati fanno riferimento al clan Mancuso di Limbadi
CATANZARO – Nuova operazione contro la ‘ndrangheta nel vibonese, sette persone sono state arrestate dalla Polizia di Catanzaro nelle province di Vibo Valentia e Reggio Calabria con l’accusa di tentata estorsione, rapina e lesioni tutto aggravato dalla metodologia mafiosa, a carico di un imprenditore di Vibo. Le attività di indagine della Squadra Mobile coordinata dalla Dda di Catanzaro hanno messo in luce, tra l’altro, come alcuni arrestati avrebbero anche costretto un testimone di giustizia, l’imprenditore Vincenzo Ceravolo, che aveva fatto condannare esponenti di spicco della cosca Mancuso di Limbadi a ritrattare le accuse in una fase successiva del processo.
MINACCIATO PER RITRATTARE – In sostanza, avrebbero minacciato Ceravolo per costringerlo a ritrattare le sue accuse contro un boss della cosca Mancuso di Limbadi. Ceravolo, imprenditore vibonese attivo nell’export del tonno fresco del Mediterraneo, è sotto protezione dal 28 maggio del 2003 dopo che denunciò un boss della cosca Mancuso che, insieme ad un suo affiliato, fu processato e condannato per estorsione aggravata dalle modalità mafiose. La condanna fu confermata in appello nel 2004 ma poi la Cassazione, per una questione tecnica, annullò la sentenza disponendo un nuovo processo che però non è stato ancora celebrato. E proprio in questo periodo si sarebbero verificate le minacce e le intimidazioni. L’imprenditore, nel corso degli anni, ha denunciato di avere subito danneggiamenti per circa 20 milioni di euro.
Nel corso dell’inchiesta coordinata dal procuratore aggiunto della Dda di Catanzaro Giuseppe Borrelli e dai pm Simona Rossi e Carlo Villani, gli investigatori della squadra mobile, come accennato in precedenza, hanno anche portato alla luce un tentativo di estorsione ai danni di un altro imprenditore del vibonese evidenziando un legame tra personaggi legati alla criminalità di Gioia Tauro e quelli di Vibo.
LE PERSONE COINVOLTE – I nomi dell epersone arrestate sono: Raffaele Fiumara detto Lello, Eugenio Gentiluomo, Rocco De Maio, Carlo Riso, Domenico Pardea, Antonio Vacatello, Massimo Patamia cuisi aggiunge anche Pantaleone Mancuso alias Scarpuni che è però già in carcere perché detenuto per altro.
Articolo del 6 gennaio 2014 da ilquotidianodellacalabria.it
Vibo, mistero nel porto: affonda il nuovo peschereccio della flotta del supertestimone che accusa i Mancuso
di Pietro Comito
L’imbarcazione era stata acquistata appena un mese fa per entrare nella flotta dell’imprenditore Vincenzo Ceravolo, patron della Marenostro e grande accusatore del boss “Luni Scarpuni”. Ora si trova sul fondale. E nessuno sembra aver visto o sentito nulla
VIBO VALENTIA – Il re del sushi non trova pace. Se è stato un attentato, il bilancio sale a trentaquattro. O forse sono trentacinque. Difficile, per Vincenzo Ceravolo, l’imprenditore ittico patron della Marenostro e testimone di giustizia, tenere il conto. Il fatto in sé, comunque, è serio e desta allarme: alla mezzonotte di sabato, nello specchio acqueo del porto di Vibo Marina, era ormeggiato uno dei motopescherecci della flotta alle dipendenze del gruppo Ceravolo; all’alba, ieri, non c’era più. Affondato. Nessuno avrebbe visto o sentito nulla. Il mistero giace sul fondale. «Attendiamo con cautela gli accertamenti che saranno esperiti – spiega l’avvocato Antonello Fuscà, legale che da anni segue le vicende giudiziarie dell’imprenditore, interpellato dalla nostra redazione -. Al momento abbiamo solo un dato, e cioé che l’imbarcazione è affondata. Non ci sono elementi per avvalorare, o viceversa escludere, un episodio doloso. Certamente è un episodio che desta tanta amarezza quanto stupore».
I sommozzatori del gruppo Ceravolo hanno provato a calarsi giù per comprendere cosa possa essere accaduto, ma la spedizione, a causa delle acque torbide, è stata infruttuosa. Sarà necessario, attraverso una costosa operazione di recupero, far riaffiorare il motopeschereccio – peraltro acquistato da circa un mese e perfettamente efficiente – per comprendere le cause di un episodio increscioso, sul quale per il momento indagano congiuntamente la Capitaneria di Porto di Vibo Marina e il Reparto aeronavale della Guardia di finanza con il coordinamento della Procura della Repubblica di Vibo Valentia.
Sul caso, d’altronde, nel volgere di breve tempo potrebbe intervenire la Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, che delle attenzioni della criminalità organizzata sul re del sushi aveva avuto modo di occuparsi in uno degli ultimi blitz del 2013. Fu chiamato “Never ending”, ovvero «senza fine», proprio come l’odissea di Ceravolo. Raccontava del tentativo degli emissari del clan Mancuso affinché il supertestimone ritrasse le accuse nei confronti di uno dei boss del colosso mafioso di Limbadi e Nicotera, Pantaleone detto “Luni Scarpuni”, lo stesso che tra il 1994 e il 2001 gli rese la vita un inferno. Ceravolo lo accusò, lo fece arrestare. E il 22 ottobre 2004 il Tribunale di Vibo condannò Mancuso a dodici anni di reclusione. Sentenza confermata dalla Corte d’Appello, per un secondo grado che giunse all’epilogo solo il 10 febbraio del 2009. La Cassazione, invece, fu rapida e l’1 dicembre 2009 annullò con rinvio. Il nuovo processo d’appello, quattro anni dopo, non è mai iniziato. E il capomafia, ritenuto il leader dell’ala militare di uno dei casati di ’ndrangheta più potenti, avrà forse pensato che ci fosse ancora tutto il tempo per rimettere il processo a posto.
Fino a quel blitz, il patron della Marenostro aveva subito trentatre intimidazioni (tra attentati, incendi, danneggiamenti e furti). Tre lustri d’inferno. Nonostante ciò, nel luglio del 2012, a Ceravolo era stata perfino revocata la scorta, poi ripristinata. Malgrado le denunce e le ritorsioni milionarie ancora attende il risarcimento dei danni.
Il mistero del peschereccio affondato, anche stavolta, potrebbe finire alla Dda e, in particolare, sulla scrivania di Rodolfo Ruperti, oggi capo della Squadra di Catanzaro, ieri a Vibo. Ruperti, il superpoliziotto, che partì proprio dalla denuncia di Ceravolo, risalente al 2001, e iniziando da “Scarpuni” finì col mettere in ginocchio tutto il clan Mancuso.
VIBO VALENTIA – Il re del sushi non trova pace. Se è stato un attentato, il bilancio sale a trentaquattro. O forse sono trentacinque. Difficile, per Vincenzo Ceravolo, l’imprenditore ittico patron della Marenostro e testimone di giustizia, tenere il conto. Il fatto in sé, comunque, è serio e desta allarme: alla mezzonotte di sabato, nello specchio acqueo del porto di Vibo Marina, era ormeggiato uno dei motopescherecci della flotta alle dipendenze del gruppo Ceravolo, acquistato appena un mese fa; all’alba, ieri, non c’era più. Affondato. E nessuno avrebbe visto o sentito nulla.
Le indagini potrebero anche passare alla Dda dato che le accuse di Ceravolo negli anni scorsi hanno permesso il superboss di Limbadi e Nicotera, Pantaleone Mancuso detto “Luni Scarpuni”, lo stesso che tra il 1994 e il 2001 gli rese la vita un inferno. Per Mancuso la sentenza di condanna è stata annullata con rinvio dalla Cassazione e ora si attende che l’Appello torni a pronunciarsi.
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