I Testimoni di Giustizia. Storia di chi ha testimoniato contro le mafie

Antonino Candela e Francesca Inga

 

Articolo del 27 Maggio 2008 da bennycalasanzio.com

Siamo Antonino Candela e Francesca Inga, testimoni di giustizia

Da più di dieci anni siamo costretti a questa insolita vita, con una nuova identità, dopo aver preso una delle decisioni più difficili della nostra vita, così faticosa da prendere, così irrevocabile, così dolorosamente necessaria, per salvaguardarci da un imminente rischio di morte. Viviamo dentro un’insolita vita, da esiliati con un titolo: “Testimoni di Giustizia”. Inizia così il lungo racconto di Antonino Candela e Francesca Inga, marito e moglie, originari di Villafranca Sicula, vicino Lucca. Antonino e Francesca oggi vivono in località protetta, e come Pino Masciari sono tra i 67 testimoni di giustizia in Italia. E’ una storia sconosciuta quella di questi due “eroi poveri”, una storia fatta di soprusi e sopraffazioni da parte di Cosa Nostra, di prepotenze e di umiliazioni, fino al giorno del “basta!”. Nel 1993 Antonino e Francesca tornano dalla Germania per lavorare e vivere nella loro terra d’origine. Aprono un bar e un ristorante, con un sostanzioso investimento economico. Lavorano, e in breve tempo i loro locali diventano punti di ritrovo e di aggregazione non solo per i cittadini di Villafranca ma dell’hinterland. Erano imprenditori di successo, lavorano bene ed erano appagati, anche dalla bambina che cresceva splendidamente. Un quadretto troppo perfetto che i vermi mafiosi non possono tollerare. Loro, uomini del nulla, senza arte nè parte, spettri che vivono grazie alle paure altrui. Antonino e Francesca, persone libere, vive. “Questi animali erano certi del nostro assenso al silenzio, sicuri che non potevamo denunciare facilmente alle loro prepotenze disumane, ma solo subire senza impedimenti i loro soprusi quotidiani, terrore psichico, vessazioni, lo sbatacchiare di cose vergognose dalle loro bocche, urla e allusioni pesanti alla nostra sfera privata.Ormai non c’erano altro che tumulti e scenate in quel locale, ma anche rompere sedie e tavoli, e non solo, perché facevano a pezzi anche le aste del biliardo.Una di queste stecche, fu puntata dritta in fronte a me (Antonio), per farmela penetrare in testa”. Questi vermi oltre a sbeffeggiare i due proprietari, proprietari di qualcosa che loro non avrebbero saputo creare perchè incapaci cronici, continuavano a consumare e non pagare, ad alzarsi ed andarsene senza lasciare moneta. A quanto pare il boss della situazione era proprio Emanuele Radosta, figlio dell’ex capomafia di Burgio, killer di mio nonno, ora a marcire in carcere, da sconfitto, da nuddu ammiscatu cu nienti. La situazione andò avanti per tre lunghissimi anni, e precipitò nel 1996. Nel marzo del 1996. Un gruppo di persone stava mangiando nel loro ristorante. Antonino esce per accompagnare la figlia dalla nonna, e due minuti dopo la sua partenza, il gruppetto che stava pranzando esce dal ristorante. Il tempo di raggiungere l’auto, e uno di loro viene raggiunto da un killer che lo ammazza come un cane. “Era con la testa penzoloni e aveva nel volto la smorfia disumana, penosa che mi fece togliere il respiro. Erano passati pochi giorni, quando dentro il Ristorante si fece rivedere il Killer della carneficina, a rivisitare il luogo del delitto.Questo appena entrato, aveva dato un sorso alla birra, e senza perdere tempo già aveva fatto il giro del locale, guardando attentamente dentro e fuori alcuni punti, come se scorgesse qualcosa di compromettente, un elemento che sbadatamente aveva trascurato e doveva far scomparire per essere più sicuro. Soddisfatto della verifica, ritornava verso il bancone-Bar, terminava la birra, pagava e usciva dal locale tranquillamente”. Antonio e Francesca erano sicuri che fosse il killer. Ma non ebbero nemmeno il tempo di rielaborare, di capire, di prendere decisioni. Dopo soli 40 giorni dal primo omicidio, la scena si ripete. Un gruppetto di persone mangia al loro ristorante, il tempo di uscire e un killer li raggiunge e uccide uno di loro. “Ebbe solo il tempo di entrare nella propria autovettura, quando all’improvviso fu tempestato da una raffica di proiettili esplosi da un mitra di un Killer, che si era trovato lì all’improvviso, di nascosto”. Antonino e Francesca rimango paralizzati, immobili di fronte a quella scena, di cui divengono, loro malgrando, testimoni oculari. Il killer li fissa negli occhi, certo del terrore che avrebbe trasmesso, certo dell’omertà che si sarebbe assicurato. Aveva sbagliato persone però. Antonino e Franscesca decidono di abbandonare quel posto maledetto, ma non da vittime, da sconfitti, ma da vincitori. Decidono di raccontare tutto alla magistratura, diventano testimoni di giustizia ed entrano nel programma di protezione. Loro tra i 67 eroi dimenticati da questa nazione prostituta. Vengono mandati fuori dalla Sicilia, sotto falso nome, senza lavoro, come altri testimoni. Ma non si fermano qui. Partecipano addirittura alle udienze dei processi, mandano gente all’ergastolo, grazie a loro è proprio Radosta che viene arrestato per l’omicidio di un commerciante di arance, Tramuta, ucciso con la stessa mitraglietta usata con mio nonno. Oggi vivono, e non si lamentano. Vorrebbero una vita più normale, vorrebbero che qualcuno li ricordasse per quello che hanno fatto. Non posso anticipare niente, ma vedrete che qualcosa accadrà. Qualcosa farò. Hanno un blog (http://antonioefrancescatestimonidigiustizia.blogspot.com), che aggiornano spesso, con il quale comunicano col mondo esterno. Inondateli di commenti, visitatelo ogni giorno. Loro sono l’elite, l’orgoglio dell’Italia, ricordateglielo.

 

Fonte: it.netlog.com

Blog / TESTIMONI DI GIUSTIZIA

Articolo di Benny Calasanzio dal Giornale di Sicilia

Antonino Candela unitamente alla moglie Francesca Inga, sono due Testimoni di Giustizia, vittime della mafia, Testimoni oculari di due omicidi successi davanti al loro Ristorante in Sicilia, uno il 17 Marzo e l’altro il 27 Aprile 1996, (a distanza di circa quaranta giorni).

Da quasi undici anni sono in un Programma di Protezione, dopo aver fatto il proprio dovere. Il dovere di due onesti cittadini, che si sono ribellati alla prepotenza della mafia (Cosa Nostra), per poi presentarsi davanti alle corti di Giustizia per fare condannare tre mafiosi all’ergastolo e altri soci a varie condanne, con tre gradi di giustizio in soli tre anni. Hanno fatto capire, soprattutto allo Stato, che la vera Giustizia in quel momento erano proprio loro, mentre facevano un regalo allo stesso Stato, un dovere civico, che in pochissimi fanno, anche perché una grande fetta della gente meridionale non ha il coraggio di denunciare, piuttosto rimane omertosa e non cambia mai mentalità.
Durante questa loro inusuale vita da isolati, Antonino e Francesca, sono rimasti come ombre (che hanno un’anima), in una località protetta. Dal Febbraio 2006 hanno un ricorso al TAR del Lazio, e purtroppo aspettano ancora i loro diritti.

La drammatica storia di Antonino e Francesca.

Quando si parla di Burgio, Lucca e Villafranca, profonda provincia di Agrigento, alla gente non viene in mente né l’olio, né le mandorle né le arance, tipiche di quei luoghi. Per tutti coloro che si occupano di cronaca quello è il triangolo della morte, un territorio di pochi chilometri quadrati insanguinato da decine di omicidi, avvenuti tra l’indifferenza e l’omertà della gente cui hanno tolto anche la possibilità di reazione, di presa di coscienza. Un sistema perfetto di sangue, soldi e impunità. Pochi ricordano però che in quel triangolo di sangue, dodici anni fa ci furono due schiene che rimasero dritte e non si piegarono al peso del compromesso, dell’umiliazione morale. Nel cuore del mandamento della Ribera dei Colletti e dei Capizzi, tra la Lucca degli Imbornone e il Burgio e la Villafranca in mano ai Radosta, tornano dalla Germania due emigrati, due che se ne erano andati in cerca di fortuna e tornano con un buon capitale da investire nella loro terra d’origine. E’ il 1993 e loro si chiamano Francesca Inga e Antonino Candela. Giusto il tempo per avere le licenze per la ristorazione e Antonino e Francesca aprono un Bar, a Villafranca, e un ristorante, sul territorio di Lucca. Il ristorante lo chiamano Charleston, come il ballo del jazz, veloce e brillante: “un posto in cui chiunque entrava, rimaneva affascinato -dice Antonino Candela- perché aveva un grande salone dall’ambiente esclusivo, elegante, dove la gente, non sapendo dove andare, aveva un punto di riferimento per passare le serate, per gustarsi la pizza e la cucina siciliana”. E’ una vita perfetta la loro, invidiabile. Così invidiabile che rode parecchio a chi non ha capacità, a chi è inabile. Parliamo degli uomini di Cosa Nostra, gli uomini del nulla. Ma andiamo con ordine. I due locali non vanno bene, vanno benissimo. In poco tempo il bar diviene un grosso punto di incontro soprattutto per i giovani, un posto dove vedersi e bere qualcosa; conosciamo bene il ruolo “sociologico” che ha un bar in un piccolo centro come Villafranca. Tutto va bene, troppo bene, fino a quando cominciano a farsi vedere nel locale strani individui, che Candela descrive come “personalità fumose, membri di una cosca mafiosa che si comportavano in modo grave, con una serie di mascalzonate pesanti e umilianti sulla nostra pelle. Questi animali erano certi del nostro assenso al silenzio, sicuri che non potevamo denunciare facilmente alle loro prepotenze disumane, ma solo subire senza impedimenti i loro soprusi quotidiani, il terrore psicologico, vessazioni e pesanti allusioni alla nostra sfera privata”. Dalle umiliazioni però si passa presto alla devastazione fisica del bar, delle sedie, del biliardo e delle stecche, e quando Antonino protesta, gliene puntano una alla testa e gli dicono: “Non fiatare più sennò sei bello e morto”. Sembrava non volessero il bar, né soldi: volevano solo annientare moralmente Antonino e Francesca, volevano ristabilire la loro supremazia sul loro territorio. In realtà volevano indurli a svendere l’attività e spazzarli via. Per questo presidiavano dall’apertura fino alla chiusura il bar, scoraggiando la gente ad entrare, e rendendo infernale la vita dei due proprietari. Era tutta gente che faceva capo ad Emanuele Radosta, Peppuccio per gli amici, figlio di Stefano, vecchio capo bastone ucciso nel 1991, ormai disabile, spedito prima del tempo al Creatore a colpi di pistola. Ora era il figlio a tenere in piedi quel circo della morte, lo spaccio di droga, il controllo del territorio. “E lì fermo, c’era sempre lui, il capo autoritario oltre misura, il pezzo da novanta, un giovane avido, figlio di un noto boss assassinato dalla mafia nel 1991. Il figlio aveva ereditato il suo potere, così l’impronta mafiosa era passata di generazione in generazione. Era un dovere trasferirla da padre in figlio, e si sapeva, lo sapevano tutti da dove proveniva e dove pretendeva di andare”. Nel ristorante la situazione era ormai la stessa del bar. I soliti noti si presentavano, mangiavano quello che volevano a tutte le ore, e, naturalmente, non pagavano mai. Una volta uno di loro, Antonino Perricone, vice di Radosta, entra nel bar e prende un caffè. Lo beve, con calma, ed esce. Antonino è stanco di far finta di nulla, si fa coraggio e richiama lo scagnozzo del boss: “Ma com’è andata a finire qui? Tutti mangiano, bevono e non paga nessuno?”. L’uomo si blocca, fissa Antonino e gli si scaglia contro prendendolo per il collo. Gli sputa in faccia, due volte prima di essere allontanato da un terzo. La vita di Antonino e Francesca, che hanno anche due figlie piccole, si è trasformata in un inferno senza uscita. Sanno cosa vuole quella gentaglia, ma sanno anche che denunciare non sarebbe servito a nulla, perché non sarebbero riusciti a dimostrare nessun reato, sarebbe stata solo una provocazione che avrebbero pagato a caro prezzo. Vanno avanti, senza molte speranze di cambiamento, senza novità fino alle venti e trenta del 17 marzo1996. Dentro al ristorante c’era già un buon numero di clienti. Tra questi c’era anche un gruppo di persone che arrivava da Burgio. Per la bambina piccola ormai è tardi, il sonno comincia a farsi sentire. Antonino decide di accompagnarla dalla nonna che vive poco distante, mentre Francesca rimane al ristorante. Il marito ha solo il tempo di salire in auto con la bambina e uscire dal parcheggio del Charleston. Non sa cosa sta per accadere. “Il momento tragico fu poco dopo, quando quei clienti venuti dal paese vicino avevano pagato la loro pizza ed erano usciti dal locale. Ebbero il tempo di salire sulle loro macchine, quando un uomo sbuca dal nulla e si mette a sparare diversi colpi di pistola contro la vittima predestinata, un certo Carmelo Pinelli, strappandogli la vita senza che questo poveretto avesse il tempo di reagire, o almeno di sfuggire all’attentato”. Pinelli era arrivato qualche giorno prima dall’Inghilterra, dove viveva con la moglie, peraltro incinta. Antonino, avvertito dell’omicidio, torna subito al ristorante temendo per la moglie e la figlia grande rimaste nel locale. Quando arriva non lo lasciano entrare. “Solo quando avevo detto di essere il titolare del ristorante, i carabinieri mi permisero di varcare il cancello. E mentre passavo il porticato, rimasi a guardare con gli occhi terrorizzati, un’automobile messa di traverso adiacente all’uscita. Stavo vedendo la figura esamine della povera vittima dentro la macchina, che aveva incrociato numerosi colpi d’arma da fuoco. Era con la testa penzoloni e aveva nel volto la smorfia disumana, penosa che mi fece togliere il respiro”. Antonino e Francesca sono stravolti. Francesca ha anche visto chiaramente il killer mentre scappava. Francesca ora è una testimone oculare che ha notato bene molti particolari dell’uomo. Qualcosa è drammaticamente cambiato. Lentamente la situazione nei giorni successivi si normalizza. La gente comincia a tornare al Charleston, e anche Francesca e Antonino sono più tranquilli fino ad un pomeriggio: Francesca è dietro alla cassa, sta preparando le ultime cose per la serata. Dalla porta entra un uomo. Lei riconosce subito quella postura, quello strano modo di camminare. E’ lo stesso uomo che aveva visto scappare dopo l’omicidio. Non si scompone e fa finta di nulla. L’uomo va al bancone e ordina una birra. Tra un sorso e l’altro perlustra palmo a palmo tutto il locale, alla ricerca di tracce, di qualcosa che possa averlo tradito. Dopo qualche minuto, soddisfatto, paga la birra ed esce dal locale. Dalla sera dell’omicidio erano passati pressappoco quaranta giorni. Tutto sembrava essere lontano. Anche i mafiosi avevano allentato la presa sui loro locali e si facevano vedere sempre meno. E anche la serata del 27 Aprile era normale, come le altre. La solita clientela, i soliti movimenti. E’ tardi, e Antonino e Francesca sono seduti proprio di fronte all’entrata del locale. Stanno aspettando che i clienti lascino il locale per poi chiudere e raggiungere casa. Davanti al Charleston c’è ancora un gruppetto di persone, tra le quali Calogero Tramuta, ex agente della Guardia di Finanza in pensione che ora commercia arance. I tre erano usciti circa due ore prima ed erano rimasti fuori a parlare. Finita la chiacchierata, Tramuta ha solo il tempo di arrivare all’auto e mettersi alla guida: “Ebbe solo il tempo di entrare nella propria autovettura, quando all’improvviso fu tempestato da una raffica di proiettili esplosi dal mitra di un killer, che si era trovato lì all’improvviso”. Questa volta è diverso. Questa volta Antonino e Francesca non solo intravedono, non solo sentono, ma vedono direttamente. Tuttoavviene perfettamente di fronte a loro. Il killer, scaricato il caricatore sul corpo di Tramuta, fa qualche passo per controllare di averlo ucciso. Si gira verso Antonino e Francesca e li guarda dritto negli occhi e poi, lentamente, molto lentamente, si allontana verso un veicolo che lo attende. Il killer è certo del silenzio dei due coniugi, sa di averli convinti, sa di averli terrorizzati. I due lo riconoscono perfettamente, nonostante indossasse un passamontagna: era Said Aziz, cittadino marocchino, uomo di Emanuele Radosta. Il boss è titolare di un’azienda di agrumi, e avrebbe ordinato ad Aziz di uccidere Tramuta perché contrastava i suoi interessi. Contrasti sorti per una partita di arance commercializzata in Toscana e per l’acquisto di un terreno. La vita di Antonino e Francesca era stata completamente travolta da questi due eventi. “Restare omertosi era l’unica cosa da fare, sennò poteva cambiare in peggio il segno del nostro destino”. Marito e moglie sono confusi. Se rimarranno a Villafranca dovranno sempre temere una ritorsione, un ritorno dei killer, una chiusura del conto. Dovranno convivere tutta la vita con quel peso sullo stomaco, dovrebbero convivere per sempre con quello stile di vita che per molti è perfettamente normale, l’omertà. I parenti consigliano loro di stare zitti, di dimenticare tutto e far finta di nulla. Ma non ce la fanno. Quando tornano nel locale, qualche giorno dopo, trovano dei fiori davanti all’ingresso. Non sono per la vittima, sono per loro. Si convincono che quello non è più il loro posto. Quello non era più il Charleston e quella non era più la terra per la quale avevano lasciato la Germania. Era stata sporcata di sangue innocente, era stata barbaramente stuprata da quattro balordi che l’avevano trasformata in un cimitero, in una campo di battaglia. Antonino e Francesca lasciano momentaneamente l’Italia, abbandonano i loro due locali e vanno all’estero. Qui, lontano da quella terra maledetta, matura in loro la scelta a cui fin dall’inizio avevano pensato. “Tornare in Italia per presentarci con il ruolo di testimoni chiave presso una caserma dei carabinieri davanti alle autorità giudiziarie”. Decidono di diventare Testimoni di Giustizia, entrare nel programma di protezione e lasciare per sempre la Sicilia. Cominciano a parlare con i magistrati, forniscono testimonianze così impeccabili che sono praticamente mandati di cattura per Radosta e soci. Francesca in particolare, dà agli inquirenti una collaborazione fondamentale, descrive con lucida minuziosità tutti i particolari di entrambi gli omicidi con una calma impressionante. I mesi passano, e presto per i due coniugi arriva il tempo delle testimonianze ai processi, in cui si ritrovano faccia a faccia con i killer e con il mandante. Senza paura. Loro sui banchi dei testimoni, gli assassini in gabbia. Durante le udienze le aule sono terribilmente piene. Tutti amici e familiari degli imputati che lanciano sguardi minacciosi contro i due. Francesca mostra un coraggio disarmante. Durante un udienza è chiamata a riconoscere il killer del primo omicidio. I due sono faccia a faccia. Il pm chiede alla donna se è in grado di riconoscere il killer nell’uomo che ha di fronte. Lei lo fissa negli occhi e dice con tranquillità: “Certo, è lui, ma evidentemente il carcere gli fa bene visto che è ingrassato”. Grazie a loro Emanuele Radosta viene condannato a 28 anni di carcere. Ma per lui non è finita. Una perizia dice che con la mitraglietta usata da Aziz per l’omicidio Tramuta è stato ucciso nel 1992 anche Giuseppe Borsellino, l’imprenditore che stava indagando sull’uccisione del figlio Paolo, ammazzato solo otto mesi prima, e stava portando alla luce un comitato d’affari che metteva nei guai amministratori e politici locali. Radosta viene condannato ad altri 30 anni di carcere. Ergastolo arriva anche per Aziz e per il killer del primo omicidio. Con tre gradi di giudizio in soli tre anni di processi, la cosca capeggiata da Radosta viene messa in ginocchio e schiacciata dalla Giustizia, grazie soprattutto alle testimonianze di Francesca e Antonino.

La vita di Antonino e Francesca oggi è radicalmente cambiata. Le loro due figlie oggi sono grandi, hanno diciannove e quattordici anni. Vivono in località protetta, nel Nord Italia. Percepiscono una discreta mensilità e lo Stato li assiste in altre incombenze. Non si lamentano. Nonostante questa “nuova vita” cercano di essere persone serene. Li contatto telefonicamente qualche settimana fa e si rendono subito disponibili ad un incontro. Ci vediamo nel giro di qualche giorno in una città del Nord. I loro spostamenti sono coordinati dal sistema di protezione, viaggiano su un’auto blindata e sono protetti durante ogni tragitto da una scorta armata. E’ la tranquillità di Antonino e Francesca, Nino e Franca, la spensieratezza della loro figlia piccola, che ti fa comprendere quanto la scelta di affidarsi allo Stato, di schierarsi dalla parte delle Istituzioni ti renda sereno, nonostante le delusioni, nonostante le difficoltà quotidiane. Mi raccontano che l’unico loro rammarico è il lavoro, l’impossibilità di avviare un’attività. Non possono richiedere prestiti, non hanno garanzie da offrire alle banche. Mi inteneriscono quando mi dicono che per occupare il tempo vanno nei bar o ristoranti a gustarsi una buona pizza, e che si dedicano anche al ballo frequentando una scuola di liscio e ogni tanto vanno con gli amici nelle sale da ballo della città: “Lo facciamo per fare qualcosa, per non stare tutto il giorno con le mani in mano” mi dice Francesca. Parlo con loro per tre ore abbondanti. Lui è un uomo in forma, curato e signorile. La moglie, Francesca, è una bella donna che nonostante tutte le prove che ha affrontato in questi ultimi anni dimostra meno della sua età. La loro figlia, 14 anni, è appassionata di musica rock e adora il gruppo tedesco dei Tokio Hotel, nuovi idoli giovanili. “Ho un blog anch’io, dedicato a loro!” mi dice. Lei, anche se ha solo 14 anni è perfettamente cosciente della scelta che hanno fatto i suoi genitori, la condivide e mi racconta orgogliosa alcuni episodi. E’ una combattente, come mamma e papà. Le chiedo: “Hai capito che genitori speciali hai?” Lei mi sorride e si vede il suo apparecchio per i denti, decorato bianco-nero in onore della Juventus. La sorella 19enne, che non è venuta all’incontro, non ha ancora superato lo shock. Quando si parla di questi temi si alza e abbandona la conversazione. Ha sofferto una vita diversa dal normale, e come la sorella più piccola ha lottato contro la depressione, come e più dei genitori. Loro capiscono e sperano che in futuro entrambe comprendano fino in fondo la portata della loro scelta, che hanno fatto per garantire un avvenire migliore anche a loro. Se li incontri, vedi solo una famiglia normale. Non cercano onori, né riconoscimenti. Vorrebbero, lentamente, ricominciare a vivere, allacciare rapporti umani, impegnare la loro abilità nella ristorazione, o in qualche altre attività. Sono persone semplici, e lo dico fino alla noia. Prima di salutarci mi raccontano che hanno aperto un blog su internet http://antonioefrancescatestimonidigiustizia.b… .Un diario di viaggio per rapportarsi con l’esterno, per conoscere gente nuova. E’ tardi, ci salutiamo. So che per questioni di sicurezza, non ci rivedremo mai più. Mi tornano in mente le parole che Antonino affida al suo blog:
“Mai ha traballato il nostro dovere, come anche il dovere degli altri veri Testimoni di Giustizia, che hanno denunciato la mafia. Sarebbe più positivo se ci fossero dei liberi, futuri nuovi testimoni di giustizia, che faranno un primo passo, utile per cambiare se stessi, liberare la loro coscienza dal peccato “Omertà”, in questa terra martoriata da tanto tempo, dimenticata dalla legalità. Può succedere da adesso! Forse tra pochi mesi! L’importante è che diventi una prassi nel futuro. Allora si che la parola “omertà” scomparirà dal vocabolario”.

Chi sono i Testimoni di Giustizia

“Sono coloro che occupano posizioni nel tessuto economico e sociale, impegnati in attività imprenditoriali”. Costoro sono spesso vittime delle organizzazioni criminali e assumono il ruolo di testimoni dopo aver subito estorsioni o aver assistito a eventi criminosi, come Testimoni Oculari. La loro testimonianza è decisiva consentendo l’individuazione dei colpevoli e la successiva condanna penale. Sono persone che hanno sentito il dovere di testimoniare per ragioni di sensibilità istituzionale e rispetto delle esigenze della collettività, esponendo se stessi e le loro famiglie alle “reazioni degli accusati e alle intimidazioni della delinquenza”. Vivono in uno speciale Programma di Protezione in una località protetta, dopo che con enorme sacrifico, sono stati costretti a lasciare la propria comunità e i propri affetti. Non sono più messi in condizione di rientrare nel loro luogo di origine, ma di rifarsi una nuova vita,ma come esiliati, per questo lamentano anche la difficoltà di svolgere il ruolo di “Testimone di Giustizia”. L’attuale legislazione in materia di Testimoni di Giustizia resta piuttosto lacunosa in quanto alle misure di protezione e di assistenza “nei confronti di queste persone, che sono esposte a grave e attuale pericolo, per effetto della loro denuncia e collaborazione con le autorità giudiziarie, o anche quando hanno dichiarato le loro accuse ai mafiosi nel corso delle indagini preliminari e del giudizio”.

 

http://antonioefrancescatestimonidigiustizia.blogspot.it

 

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