IL CITTADINO BOSS di Giovanni Falcone

Il cittadino boss
di Giovanni Falcone
Se il magistrato torna a casa

Fonte:  archiviolastampa.it
Articolo del 17 giugno 1991

Agli inizi degli Anni Settanta, specialmente dopo l’assassinio del procuratore della Repubblica di Palermo, Pietro Scaglione, si fece ricorso in modo massiccio alle misure di prevenzione come rimedio all’insuccesso di importanti processi di mafia. I soggetti ritenuti più pericolosi vennero inviati al soggiorno obbligato in sperduti centri del territorio nazionale, o addirittura in lontane isolette come l’Asinara o Ustica, mentre numerosi altri personaggi in odore di mafia furono costretti ad abbandonare la Sicilia per l’imposizione del divieto di soggiorno.

Il risultato fu esattamente contrario alle aspettative. Il metodo mafioso fece la sua apparizione in zone fino a quel memento indenni e i soggiornarti, lungi dal recidere i legami con la terra di origine, strinsero nuove e pericolose alleanze con la malavita dei centri dove erano stati relegati.

In altri termini, si favorì la diffusione della mafia in tutto il Paese.

Nonostante la negatività dei risultati, non fu facile accertare che il ricorso alle misure di prevenzione era stato rimedio peggiore del male. Si pervenne, comunque, ad un cambiamento di rotta anche sotto la spinta delle vivaci proteste dei Comuni, generalmente siti in zone turistiche, scelti come sedi di soggiorno obbligato.

Ne è trascorso di tempo. Eppure non mi sembra che le idee si siano chiarite se, nonostante l’infausta esperienza del passato, si continuano a riproporre questioni ormai superate. È necessario, allora, rifuggendo da banali e contingenti polemiche su scelte di politica criminale, cercare di fissare alcuni punti fermi.

Una strategia di contrasto al crimine organizzato fondata sulla centralità delle misure di prevenzione personali, quali il soggiorno obbligato o il divieto di soggiorno, è certamente inefficace e addirittura controproducente, perché, come è stato dimostrato da numerose inchieste giudiziarie, oltre a non affievolire gli originari vincoli associativi, favorisce la diffusione delle attività illecite della mafia.

Mi sembrano di estrema attualità, ancor oggi, le parole di quel mafioso palermitano il quale, sorridendo ironicamente, ebbe a confessarmi candidamente che, proprio grazie a quel divieto di soggiorno in Sicilia, era riuscito finalmente a fissare la propria residenza a Napoli, potendo così proseguire indisturbato la sua attività nel contrabbando di tabacchi, del quale era uno dei maggiori esperti.

Né sembra praticabile la via della utilizzazione, come luoghi di soggiorno, di piccoli centri urbani o isolette, poiché, a parte le immancabili e fondate proteste dei Comuni interessati, gli attuali mezzi di comunicazione e la ben nota capacità dei mafiosi di eludere qualsiasi divieto, renderebbero assolutamente aleatoria la possibilità di un reale isolamento del soggiornante.

A meno che non si voglia ancor oggi pensare a modalità di controllo compatibili solo con lo stato di detenzione, mentre la persona sottoposta a misure di prevenzione, come si dimentica troppo spesso, è un libero cittadino.

Ed è questo, in realtà, l’aspetto più singolare dell’attuale polemica: che si continuino ad invocare limitazioni dei diritti di libertà dei cittadini, in funzione di una loro pretesa appartenenza ad organizzazioni criminali e prescindendo da un positivo vaglio giudiziale della effettiva commissione di delitti di matrice mafiosa.

A scanso di equivoci, non si intende riproporre, almeno in questa sede, la questione della costituzionalità delle misure di prevenzione, ma solo sottolineare la stranezza che in un Paese dove i «garantisti» abbondano nessuno si sia ancora accorto di quanto sia gravemente distonica, rispetto ai princìpi dello «Stato dei diritti», oltre che inefficace, la pretesa di ricorrere massicciamente alle misure di prevenzione contro il crimine organizzato, trascurando il rigoroso accertamento delle responsabilità attraverso il processo penale.

È davvero sconsolante notare che, mentre ad ogni piè sospinto si proclami solennemente la necessità della «cultura della giurisdizione», non ci si renda poi conto che i veri problemi della lotta alla mafia riguardano l’efficienza delle forze di polizia e dei magistrati nell’accertamento dei delitti e che non sono praticabili scorciatoie di alcun genere, neanche le misure di prevenzione personali.

E ciò vale anche per la sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno nel Comune di residenza, prevista dalla legge per i casi più gravi. È illusorio pensare, infatti, che possa essere esercitato un efficace controllo dei mafiosi negli stessi luoghi dove hanno potuto impunemente delinquere ed imporre le proprie leggi. Le misure di prevenzione, in definitiva, non possono costituire rimedio agli insuccessi degli inquirenti nelle indagini sui delitti di mafia, né alternativa a più efficaci strategie di contrasto al crimine organizzato.

Fino a quando si penserà di affrontare il problema mafia prevalentemente in chiave di ordine pubblico e non di accertamento giudiziale, continueranno a rimanere, in larga misura, impuniti i numerosissimi delitti di mafia, mentre i problemi dell’ordine pubblico certamente si aggraveranno.

Anziché preoccuparci soltanto degli strumenti più idonei a tenere sotto controllo i boss mafiosi in libertà, faremmo bene a concentrare i nostri sforzi per individuare i reati da loro commessi e pervenire alla condanna, mantenendoli in carcere senza ingiustificati lassismi. Questa è l’unica strada praticabile in un Paese autenticamente democratico.