La mafia dimenticata di Umberto Santino

La criminalità organizzata in Sicilia dall’Unità d’Italia ai primi del Novecento. Le inchieste, i processi. Un documento storico

Melampo Editore, Milano 2017

 

«I caporioni della mafia stanno sotto la salvaguardia di senatori, deputati ed altri influenti personaggi che li proteggono e li difendono, per essere poi, alla lor volta, da essi protetti e difesi» Ermanno Sangiorgi

In queste pagine si incontrano boss che raccontano guerre di mafia, donne e familiari di vittime che chiedono giustizia, politici e aristocratici che testimoniano a difesa dei mafiosi, dando un’immagine della genesi della mafia finora in larga parte inedita o non adeguatamente rappresentata. Qui si pubblicano per la prima volta integralmente i rapporti redatti tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento dal questore di Palermo Ermanno Sangiorgio, che tracciò un profilo dell mafia che somiglia molto a quello che sarebbe emerso novant’anni dopo con le rivelazioni dei collaboratori di giustizia: un’associazione strutturata, con capi, gregari e un vasto sistema di relazioni. Ne emerge un quadro completo della criminalità organizzata dall’Unità d’Italia ai primi del Novecento, del contesto in cui si svolgevano il lavoro investigativo e i processi e in cui maturavano le prime lotte sociali, tra l’accavallarsi dei delitti e l’intrecciarsi delle complicità, anche all’interno delle istituzioni. Eppure per decenni l’esistenza stessa della mafia in Sicilia venne negata e quei preziosi documenti furono dimenticati a lungo negli archivi di Stato. Nel libro, oltre alle relazioni del questore Sangiorgi, con gli allegati, viene pubblicato un documento che si ritiene introvabile: la “bolla di componenda” con cui la Chiesa cattolica condannava i reati dietro versamento di una somma di denaro.

 

 

Fonte: ricerca.repubblica.it
Articolo del 10 giugno 2017
L’antenato del maxiprocesso che svelò la rete dei boss
di Amelia Crisantino

Con La mafia dimenticata. La criminalità organizzata in Sicilia dall’Unità d’Italia ai primi del Novecento. Le inchieste, i processi. Un documento storico (Melampo editore, 643 pagine) Umberto Santino ha pubblicato un poderoso volume frutto di molti anni di lavoro, che si presenta col carattere della sintesi storica arricchita da importanti documenti originali.

Santino va alle radici del “discorso” sulla mafia mostrandone lo stratificarsi all’indomani dell’Unità, ed è lo stesso “discorso” formato da idee, analisi e luoghi comuni che ha continuato a riprodursi sino a oggi. Facendo ancora un passo indietro arriviamo alla secolare incubazione di quelli che in altri lavori lo stesso Santino ha definito “fenomeni premafiosi”: sono aspetti embrionali, stili di comportamento che avranno modo di svilupparsi nel momento in cui si struttura lo Stato unitario. Cioè uno Stato che riesce a formarsi con molto ritardo rispetto ad altri Paesi e quasi per scommessa, scontrandosi con l’opposizione della Chiesa, col rifiuto di buona parte delle popolazioni meridionali e la scarsa considerazione internazionale: sarebbe bastato uno solo di questi fattori a rendere difficile la sua sopravvivenza, e molte scelte diventano comprensibili solo se le collochiamo su questo sfondo così problematico .

Se parliamo di mafia, il primo punto da affrontare è il monopolio della violenza. Uno Stato che si forma presenta se stesso come detentore del monopolio della violenza, fisica e anche simbolica, in una sorta di processo che disciplina il pullulare delle pulsioni provenienti dalla società. In Italia, scrive Santino, è il “pensiero di Stato” a imporre l’idea della mafia come fenomeno criminale, anche se una parte della popolazione trova del tutto legittimo non riconoscere il monopolio statale della violenza. Abbiamo quindi una contrapposizione radicale e ci si aspetterebbe delle decisioni conseguenti, una lotta aperta. Ma l’incalzare delle emergenze e una certa predilezione per l’autoritarismo, che porta a criminalizzare le opposizioni, fanno sì che l’interesse verso il fenomeno mafioso sia episodico, sempre legato ad eventi eclatanti che scuotono la pubblica opinione: all’indomani dell’Unità emergono la congiura dei pugnalatori nel 1862, la rivolta palermitana del 1866, i primi grandi processi alla fine degli anni ‘70, il delitto Notarbartolo nel 1893 e gli sviluppi successivi: tutti episodi che, ogni volta, portano alla “riscoperta” della mafia da parte dello Stato, mentre al contempo osserviamo l’arroccamento difensivo di buona parte della cultura siciliana che si rifugia nel sicilianismo. È un meccanismo che sembra girare a vuoto riproducendo se stesso, ma ogni emergenza mostra più gravi lacerazioni e conseguenze nel corpo sociale: specie quando, con l’allargamento del suffragio, il consenso è troppo spesso garantito in Sicilia dal mediatore mafioso. Quanto alla periodica “riscoperta” della mafia, nel 1900 il delegato di pubblica sicurezza Antonino Cutrera scriveva che di fronte a un delitto efferato tutti sono pronti a indignarsi e allontanare da sé qualsiasi idea di equivoca vicinanza; passata l’ondata del rifiuto emotivo è la stessa idea dell’esistenza della mafia a essere messa in discussione.

Oggi più nessuno mette in dubbio l’esistenza della mafia, anzi delle mafie che agiscono a livello nazionale e internazionale utilizzando la violenza come metodo per l’acquisizione del potere e l’accumulazione del capitale, con una struttura organizzativa più o meno rigida e un sistema di rapporti che permette lo svolgersi di molteplici attività criminali, illegali o formalmente legali. Il modello interpretativo elaborato da Umberto Santino è inclusivo, è un prisma a molte facce che considera la mafia come industria e come istituzione: il suo “paradigma della complessità” supera l’ambito siciliano, registrando la proliferazione dei gruppi di tipo mafioso nel panorama internazionale.

Tornare indietro nel tempo, fermarsi e analizzare le dinamiche all’opera all’indomani dell’Unità equivale a dare radici e ancoraggi alla teoria. Santino pubblica documenti come la “Bolla di composizione”, che scopre dentro un dimenticato libro stampato a Palermo nel 1867: per quell’anno firmata dall’arcivescovo di Palermo Giovanbattista Naselli era ogni anno rinnovata, nel 1711 Jean Baptiste Labat l’aveva vista affissa alla porta di una chiesa e aveva scritto “la Sicilia appartiene ai ladri”. Bastava pagare. «Con questa bolla… si può comporre sopra qualsivoglia genere di azione illecita, o malamente avuta, o mal guadagnata ed acquistata…», recitava l’articolo 18: la grande autonomia di cui godeva la Chiesa siciliana grazie alla Apostolica Legazia aveva eliminato le distanze, la Chiesa siciliana era “troppo” vicina ai suoi fedeli.

All’indomani dell’Unità questa società così “particolare” viene osservata dai funzionari governativi delegati a mantenere l’ordine pubblico, ognuno tenta di decifrarne i significati e le conclusioni a cui arrivano sono diverse. Santino pubblica le 31 relazioni scritte fra il novembre 1898 e il febbraio del 1900 da Ermanno Sangiorgi, questore di Palermo, che delineano una vasta rete associativa organizzata in sezioni e divisa in gruppi ognuno con un capo, che agisce sotto la protezione di «deputati, senatori e altri influenti personaggi»: è la stessa struttura che Buscetta avrebbe rivelato al giudice Falcone, che nel febbraio 1986 portano al maxiprocesso. Anche Sangiorgi lavora per un maxiprocesso, in uno dei suoi rapporti delinea 218 mafiosi divisi in otto gruppi in un’area che si estende dalla Piana dei Colli all’Olivella: alla fine riesce a portare in aula 51 imputati, i condannati sono 31 e la pena è mite, in genere 3 anni e 6 mesi.

I rapporti del questore Sangiorgi saranno presto dimenticati e a ogni emergenza si ricomincerà daccapo. Il delegato Cutrera aveva ragione: l’oblio è il destino di ogni ondata di indignazione emotiva.

L’interesse a contrastare la criminalità è episodico legato a fatti eclatanti che scuotono l’opinione pubblica La “Bolla di composizione” autorizzava “qualsivoglia genere di azione illecita” come recitava l’articolo 18

 

 

 

Fonte:  centroimpastato.com
Donne e guerre di mafia
di Simona Mafai

Ombre femminili nella guerra di mafia

1897, Palermo. Agata Mazzola (26 anni) e Margherita Lo Verde (30 anni), i cui mariti cocchieri sono stati uccisi dai capimafia del quartiere, avvicinano la signora Florio mentre si reca dalle suore di San Vincenzo, chiedendole un aiuto per i figli. “Non mi seccate – risponde la signora – perché vostro marito era un ladro e veniva a rubare nel mio palazzo”. Le donne rispondono che al contrario gli uomini sono stati uccisi perché si erano rifiutati di partecipare a un sequestro, ma la signora non dà loro conto. Le due donne allora si presentano in questura, raccontano tutto e dicono i nomi dei mafiosi. Prova della combattività delle donne del popolo di Palermo, della loro (sempre delusa) fede nella giustizia. È un episodio narrato nel libro “La mafia dimenticata” di Umberto Santino, libro che indaga sugli inizi della mafia, nella seconda metà dell’800, e rilegge, con certosino puntiglio, una gran massa di documenti sepolti negli archivi, facendo riemergere vita e sofferenze del popolo palermitano, e la presenza in esso, in controluce, delle donne.

Sono le rapite, violentate ed anche uccise dai mafiosi e dai loro protettori: un mafioso uccide una donna sposata che ha rifiutato le sue offerte amorose; un altro uccide il marito della donna ch’egli gli ha “portato via”; un barone rapisce una ragazza, è condannato in contumacia, ma poi viene difeso dal procuratore del Re; il rampollo di una famiglia mafiosa mette incinta la servetta diciassettenne, quindi la fa scomparire e risponde con violenta arroganza al padre che chiede notizie di lei. Sono tutti episodi registrati nei rapporti della polizia dell’epoca o nei verbali del primo processo contro la mafia, del 1883. Emerge il mondo minore dei mercati, delle locande, delle bettole – spesso gestite da donne, e sede di incontri malavitosi.

Giuseppa Di Sano, bettoliera di Sampolo, si accorge di uno spaccio di monete false; perché ella non parli, la minacciano, sparano contro la sua bottega ed uccidono la figlia. Ciò nonostante ella non si piega e testimonierà contro i mafiosi, indicandoli di persona.

Lunga la schiera delle vedove degli scomparsi, che denunciano gli assassini: Francesca Scuteri, 34 enne, venditrice ambulante di polli, dichiara a un ufficiale di P.S. “Ho sempre sospettato che mio marito fosse stato ucciso…” Un’altra vedova, Giuseppa La Rosa, dice in Tribunale che il marito non tornò più dopo essere stato invitato ad una “divertita” in campagna. L’affianca, e dà ulteriori particolari, la cognata – sorella dello scomparso. Un’altra vedova, Anna Gottuso, indica coraggiosamente, nell’aula del tribunale, gli uccisori del marito detenuti in gabbia.

L’omertà non è femmina.

Vicenda emblematica quella di Giovanna Cirillo. Il marito, Stanislao Rampolla del Tindaro, delegato di Pubblica sicurezza del Comune di Marineo, denuncia in un memorandum “l’esistenza a Marineo di una vecchia associazione di malfattori tuttora diretta dall’attuale Sindaco”. Ma il Sindaco viene rieletto con grandi festeggiamenti, ed il Prefetto delibera il trasferimento in altra sede del Rampolla, che, sconfitto e umiliato, si toglie la vita.

La vedova, anticipando l’impegno e la tenacia che avranno altre donne nel ’900, cerca di trasformare il suo lutto in azione politica: si reca a Roma da Francesco Crispi, stila – assieme al nipote – un ricorso denunciando l’esistenza dell’associazione mafiosa, si rivolge ai giornali. Ma il ricorso viene respinto.

Un’azione coraggiosa, che denunciava il connubio tra mafia e determinati gruppi politici, indicando il percorso di pulizia e giustizia che lo stato avrebbe dovuto intraprendere viene derisa e ignorata.

Come risulta da questi stralci relativi alla dolente presenza femminile nella lotta alla mafia ai suoi albori, il libro di Umberto Santino fornisce una preziosa sintesi di rapporti di polizia, verbali di processi, articoli di giornali dell’epoca, fa conoscere l’attività di indagine e di resistenza di molti funzionari dello stato e di non pochi cittadini privati vittime della violenza mafiosa (la famiglia di un medico fu sterminata!), e stimola una ulteriore riflessione sulla formazione e lo sviluppo della mafia, e la sua collocazione rispetto ai ceti sociali.

Umberto Santino, La mafia dimenticata. La criminalità organizzata in Sicilia dall’Unità d’Italia ai primi del Novecento. Le inchieste, i processi. Un documento storico, Melampo, Milano 2017.

Pubblicato su “Mezzocielo”, n° 157, pag. 21.