La vittoria di Pio La Torre, antimafioso senza distintivo di Enrico Bellavia

La vittoria di Pio La Torre, antimafioso senza distintivo

di Enrico Bellavia

Articolo del 30 Aprile 2015 da palermo.repubblica.it

CONOSCEVA il male dalle origini. Ne intuì il rimedio. Non si limitò a mettere a punto una ricetta, ma elaborò un piano di cura. Nella storia politica di Pio La Torre, dalle lotte contadine al 416 bis, dal sequestro dei beni dei boss al no ai missili a Comiso, c’è l’intero percorso di un’antimafia mai vissuta come un abito  –  tanto settario quanto inconcludente  –  da esibire per scalare posizioni nella nomenclatura di partito come nella società, ma cucito addosso come l’unica ragione dell’essere comunisti. E che prima del piombo dei killer, gli riservò sia la violenza di guerre intestine, dentro e fuori l’apparato, sia l’amarezza della solitudine di un riformismo  –  che nella sua declinazione non era disponibilità al compromesso viziato di intelligenza col nemico  –  ma una rivoluzione costruita nel giorno dopo giorno e impastata di pragmatismo. Nutrita di un ideale, rimasto l’utopia di pochi, di fare della lotta alle cosche una lotta autenticamente collettiva. Una resistenza sulle ceneri della Resistenza. Un movimento di massa da allevare nell’antifascismo del post-ventennio.

La storia recente di un Paese che intravedeva la questione meridionale ma fingeva di ignorare quella mafiosa, era la sua storia. Da Altarello di Baida a Montecitorio aveva conosciuto l’oppressione, pianto i 36 sindacalisti e militanti contadini fatti fuori dal braccio armato degli agrari all’alba della Repubblica, visto lo scempio di Portella della Ginestra, guidato l’occupazione delle terre a Strasatto e Santa Maria del Bosco e patito il carcere della repressione di Scelba al tempo di De Gasperi. In 17 mesi all’Ucciardone aveva incrociato il volto feroce della giustizia.  QUELLO di magistrati asserviti che scagionavano le coppole emandavanodentro i peri incritati, ibraccianti senz’altra speranza di riscatto che un’equa divisione del prodotto.
Le accuse dei giudici che colpivano a senso unico tenendolo in cella, gli avevano risparmiato quella bruciante di frazionismo al culmine del processo interno al Pci che aveva colpito Pancrazio De Pasquale. Antipasto di altre ostilità interne che il futuro gli avrebbe riservato quando senza sconti puntò l’indice anche contro i compagni che avevano spalancato la porta di certe coop agli amici degli amici.
Nella Corleone dei Liggio ma anche e soprattutto di Placido Rizzotto, aveva conosciuto un giovane Carlo Alberto Dalla Chiesa. A Palermo gli era toccato fare i conti con la procura di Pietro Scaglione. In Parlamento si era ritrovato a fianco di Cesare Terranova. Nel 1976 aveva redatto la relazione di minoranza, pietra miliare dell’analisi delle compromissioni del governo politico-mafioso della città e non solo: gli affari, gli appalti, i signori del cemento, i concessionari dei servizi. La mafia dove non la vedi ma la senti. I Lima, i Gioia, i Vassallo, i Ciancimino. Lo sviluppo urbanistico sconclusionato perché funzionale agli interessi della speculazione, la droga e la finanziarizzazione di una mafia non corpo estraneo ma dentro la pancia del Paese. Capace di amministrare il bisogno, governare il consenso, dispensare un welfare parallelo che alimenta la sudditanza.

Nel 1980, aveva messo nero su bianco la proposta di legge che prevedeva la creazione del reato di associazione mafiosa, introduceva il sequestro e la confisca dei beni e nei fatti liquidava come fallimentare l’esperienza della risposta poliziesca a suon di diffide ai poveri cristi. C’era arrivato a quella proposta attraverso un confronto serrato con chi, Rocco Chinnici, nel palazzo del potere giudiziario aveva iniziato a disseppellire fascicoli sepolti, ad aprirne di inediti e a darsi un metodo per colpire al cuore il sistema del compromesso, della collusione, della connivenza. Il pool che non si chiamava ancora pool, come ha ricordato Vincenzo Vasile che lo accompagnò in tribunale rimanendo stupito da quella disponibilità al dialogo in un uomo capace di distinguere tra chi lo aveva spedito alla seconda sezione e chi stava davvero dalla parte del popolo, anche se vestivano la stessa toga.

Pur nel percorso accidentato e pieno di storture che ne è seguito, anche questo è un lascito di La Torre: la rara capacità della politica di dare strumenti legislativi efficaci a chi la mafia la combatte sul terreno. E non si limita a un fiancheggiamento opportunistico della magistratura. Che d’altro canto troppo spesso si lascia sedurre. Una politica non subalterna, che governa, che gioca all’attacco e non di rimessa. La legge, formidabile negli effetti, costituisce l’architrave intorno al quale fu costruito il primo maxiprocesso che decretò la fine del mito dell’impunità di Cosa nostra. Ed è la premessa per la norma sul riuso sociale dei beni, voluta da Libera.

Ma vide la luce sul finire dell’estate di sangue del 1982, a dieci giorni dall’omicidio Dalla Chiesa e a 136 dall’assassinio di Pio La Torre e del compagno che aveva voluto essere la sua ombra, Rosario Di Salvo. Fu approvata sull’onda di quel moto di commozione ciclico che dà l’abbaglio di un’antimafia maggioritaria. Un’illusione destinata a conoscere nuove fiammate, sempre coincidenti con i bagliori del fuoco mafioso, e puntuali nuove mortificazioni negli anni a venire. La mafia lo volle morto, dicono le sentenze. Ma incassò un pessimo dividendo con quel delitto a colpi di mitraglietta, si insistette, di fabbricazione americana a voler sottolineare che c’era qualcosa che non tornava  –  e non torna ancora  –  in quel delitto a meno di un mese dalla marcia contro la militarizzazione nucleare della Sicilia che La Torre aveva promosso. Ponendosi alla testa di un movimento composito, fatto anche di cattolici di base, che impegnava il Pci a una petizione da un milione di firme e nelle ragioni del pacifismo collocava l’anima di un’antimafia popolare. Una mobilitazione pubblica, la marcia dei centomila, come non ne avremmo più viste.

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