Lettera aperta al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano di Gennaro Del Prete
Gennaro Del Prete
Cardito, li 06 Aprile 2012
Lettera Aperta
Ill. mo Sig. Presidente della repubblica Giorgio Napolitano
Oggetto: Dott. Gennaro Del Prete e benefici di cui alla legge 407/98, nuove norme in favore delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata
È da secoli ormai che la nostra Terra vive nella morse della criminalità organizzata fin dal 1500. Una criminalità come la camorra, capace di sconvolgere le economie, di violentare le nostre terre con soprusi, minacce, inquinando mari, fiumi, falde, capace di deviare e stravolgere anche la vita dei singoli cittadini come la mia, figlio di uomo che ha sfidato e rotto l’ordine poliziesco della camorra. Figlio di Federico Del Prete, medaglia d’oro al valor civile, ucciso dal clan dei casalesi il 18/2/2002, per aver denunciato, per aver cercato di restituire dignità alla nostra già martoriata Campania. Ma il reato più grave di cui la criminalità organizzata si è macchiata è la “violenza fisica e psicologica” con la quale ha determinato un vero e proprio pantano sociale, un vero e proprio terremoto di quanti hanno versato sangue per la nostra terra. Eppure in questa dura realtà sono anche in campo esperienze di resistenza civile e di cittadinanza attiva, anche se flebili, rivolte a far progredire una cultura della legalità che possa realizzare un vero e proprio argine sociale di contrasto e di lotta ai modelli finora vincenti della camorra.
Tra le diverse cose che accomunano le storie di coloro che hanno lottato contro le mafie e poi sono stati ammazzati, il fatto che spesso o quasi sempre l’agguato lo respiravano nell’aria. Era previsto insomma. In tanti servitori della causa della giustizia è stata pronunciata l’espressione: Devo essere pronto. Con questa consapevolezza, probabilmente è apparso il sentimento della rimozione, la paura della morte e il dubbio della giusta causa. Ci si sente smarriti per i sentimenti di fragilità che si avvertono nei confronti della stessa causa. Lo smarrimento ti assale, quando vedi che la tua comunità, il tuo paese, va da tutt’altra parte. Un paese che si distrae guardando altrove, anzi fissando lo sguardo verso il miraggio della ricchezza, del successo e del potere dell’apparire. Anche nella lotta contro le mafie può accadere lo scoraggiamento e soprattutto la tentazione che tutto sia inutile. La sfida è assai ardua, ma è la sola che, accompagnata da un comune sentire e da un personale senso di responsabilità, possa restituire prospettive di futuro e di dignità ai giovani ed a intere popolazioni di terra di lavoro e di grandi aree del mezzogiorno.
Ecco mio padre è morto, anzi è stato ucciso, facendo semplicemente appello al tribunale della propria coscienza. Non poteva accettare ciò, non poteva accettare di camminare con la schiena prona, con la testa abbassata, non poteva accettare di vivere da schiavo. E’ stato ucciso lottando a testa alta, dando la sua vita, per un’ideale di vita migliore. È stato ucciso sognando un paese senza soprusi, lottando e insegnando il coraggio a tanti vigliacchi che subiscono in silenzio pensando assuefatti che nulla possa mai cambiare . È morto da uomo vero difendendo i diritti degli ultimi, dei calpestati, di chi troppo spesso non ha voce. Sto scrivendo con il cuore in mano, con l’intento di rendere noto alla S.V la mia storia, la mia dignità la mia persona.
Premetto innanzitutto che non è stato facile per me essere riconosciuto come familiare di vittima innocente, come figlio di quell’uomo che tanto per lo stato ha lottato. Ciò è avvenuto dopo una battaglia lunga e dolorosa durata quasi 10 anni, dopo appelli in tv e articoli giornalistici. Non è possibile che in uno stato di diritto, con una tra le costituzioni più belle del mondo, a tutela della dignità e libertà della persona, si permetta ciò. Negli ultimi tempi il nostro paese sta vivendo una profonda crisi in cui talvolta i diritti dei più deboli vengono calpestati, e dove proprio quel principio sancito dall’ Art. 3 e dall’art 1 della costituzione viene violato di continuo.
Orbene proprio in merito al sommo principio sull’uguaglianza dei cittadini dalla costituzione tutelata, che vi scrivo .Se tale vale come principio generale per tutti i consociati appartenenti a questa nazione, ancora di più lo è per i figli delle vittime innocenti, uccise per mano della criminalità organizzata. Mi arruolai nell’esercito all’età di 18 anni, dopo il diploma magistrale, colmo di speranze per me e per la mia famiglia, specie per mia mamma, un futuro migliore, di un lavoro. Inizialmente fu durissima, ma resistetti, specie quando venni a sapere che mio padre ero fiero di me, anche se ci vedavamo pochissimo data la difficile situazione familiare. Amavo mio padre anche se per orgoglio non glielo mai detto, i nostri silenzi parlavano per noi. Ho ottenuto sempre ottimi risultati nella mia carriera lavorativa, recandomi anche in missione in Kosovo-Macedonia nell’anno 2001. Svolgevo il mio ruolo con dedizione e sacrificio, anche perché quel lavoro mi aiutava a sostenere la mia già precaria situazione familiare.
Giungendo fino al 18 Febbraio 2002 in cui la mia vita si è fermata, in cui la camorra mi ha tolto anche la speranza di poter conoscere mio padre, lasciando ancor di più una traccia indelebile dentro di me. Era come se stessi vivendo un film in cui non volevo esserne il protagonista. Ma il dolore più grande l’ho ricevuto quando i miei superiori presso la caserma di Bari all’annuncio della sua morte mi dissero” ma tuo padre era un camorrista”? Attonito non risposi e mi recai subito a casa, tra silenzi, disattenzioni, e assenza di una parte di stato che mio padre ebbe difeso. Sono cresciuto come un orfano quasi, con la voglia di conoscere quell’uomo che mi diede la vita, mi sentivo vuoto, a volte inesistente. Ma quell’anno che stavo conoscendo realmente mio padre stavo rivivendo e recuperando cio che la vita mia ebbe tolto. Ed ecco perché l’uccisione di mio padre ha inficiato ulteriormente il mio stato interiore, ciò mi ha lasciato un quid a cui non potrò mai dare risposta. Non ho avuto dignità di figlio neanche post mortem, negato anche dallo stato e dalle leggi in materia di familiari di vittime innocenti della criminalità. Lo stato bollava la mia vita come un non fiscalmente a carico, quindi non beneficiario della legge 302/90. Mi sentivo strano e demotivato, ma non ho mollato e ho continuato a credere che lo stato esistesse, ho continuato a servire da buon militare, e al fine di stare accanto alla mia famiglia nell’anno 2005 chiesi ed ottenni di recarmi in una sede più vicino casa, Persano in provincia di Salerno. Ero contento anche perché tutti i giorni mi recavo a casa per stare accanto a mia madre e mio fratello. Dopo circa tre settimane di permanenza mi venne chiesto di partire in missione in Iraq, ma mi rifiutavi motivando la cosa, con i gravissimi problemi familiari, in special modo per l’omicidio di mio padre e la battaglia legale che portavo avanti con il ministero dell’ Interno. Ma ciò naturalmente inficiò i rapporti con i miei superiori gerarchici, che non sempre hanno tenuto conto delle mie esigenze personali. In quel periodo mi sentivo diverso, arrabbiato, sensibile ad ogni rimprovero da parte dei superiori, ero fragile come una foglia, e ciò mi ha portato a commettere tantissimi errori. A ciò si aggiungeva, la tossicodipendenza di mio fratello salvatore e il tentato suicidio di mia madre.
Ciò che ha notevolmente rotto ogni rapporto con i superiori è stato la mia comparsa in tv alla trasmissione mi manda rai tre di Vianello al fine di perorare la mia giusta causa, al fine di rendermi visibile al mondo, allo stato che in quel momento mi ignorava. Ricordo quel periodo come il più brutto della mia vita, come l’anno del dolore infinito, come l’anno del male della depressione. Ero seguito anche da uno specialista, che mi ha aiutato tantissimo a capire che tutto quel frastuono nella mia vita era dovuto alla rabbia che provavo per chi non seppe difendere mio padre, rabbia per chi non mi riconosceva il diritto di essere figlio di quell’uomo. Ero un albero senza le radici, senza la linfa vitale, che viene fornita nel corso della vita dalla figura paterna.
Ho subito ogni cosa, anche il sentirmi dire dai superiori, ad una mia richiesta di trasferimento, : “ la morte di tuo padre non ha attinenza con le stellette che indossi”. Mi rendo conto di quanto siano vere le parole pronunciate dal nostro Roberto Saviano : “Nessuno se ne fotterà di quello che hai speso, la tua vita in fondo non conta molto nella bilancia delle anime , eri un venditore ambulante, troppo poco Federì, troppo poco”.
Ho lottato fino all’estremo sacrificio. Nello stesso periodo fui oggetto di minacce da parte di ignoti , nei pressi della caserma, che mi intimavano di non presenziare al processo contro i presunti mandanti ed esecutori dell’omicidio di mio padre, per cui mi ero costituito parte civile. Ma neanche ciò ha trovato risposta da parte dei miei superiori, che hanno sempre dimostrato indifferenza nei confronti della mia famiglia e della mia persona. Mi iscrissi nell’anno 2007 all’università Federico II di Napoli, per coronare il sogno di una vita, diventare dottore, cosa che è avvenuta nell’anno accademico 2009/2010 con una tesi di Laurea dedicata a mio padre, dal titolo “ Sviluppo ed organizzazione della criminalità organizzata in Campania”. L’ultimo capitolo era proprio dedicato a mio padre e alla figura di Don Peppe Diana.
Dopo quasi dieci anni di servizio venni licenziato nell’anno 2008 dall’esercito per motivazioni che tutt’ora contesto, fermamente. Ma è in quest’anno che arrivò anche la risposta da parte del Ministero dell’interno che a seguito della mia battaglia, mi riconosceva il diritto di cui alla legge 302/90, modificando di fatto i requisiti e trasformando la legge madre in legge 222/2007. Dopo questo episodio ho capito tante cose, ho capito che bisogna lottare per vedere affermati i diritti costituzionalmente sanciti, per difendere e tutelare chi non ha voce, specie contro le mafie.
Ho trasformato il mio dolore in impegno civico e responsabilità a favore della collettività, premiato con il premio Paolo Borsellino nell’anno 2011, affinché l’Italia sappia chi era mio padre, affinché sappiano che il sommo principio della giustizia vive e arde nel cuore della nostra Italia, di coloro i quali credono ancora in un vero stato di diritto, persone come Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, don Giuseppe Diana, Federico Del Prete. La mia testimonianza è diventata preziosa, per tanti giovani, che come me vivono e prosperano di legalità.
Dopo queste parole, dopo le ferite lancinanti causate dal cancro della camorra ,che ancora io e tutta la mia famiglia ci portiamo dentro, sono qui a chiedere con l’umiltà che Dio mi ha donato un lavoro che mi permetta di sognare in un paese a cui non è più permesso farlo. Un lavoro in nome dei miei sacrifici e dei sacrifici che ha fatto mio padre per noi e per la nostra terra. Chiedo ill.mo la semplice applicazione della legge. Ho inviato a tutt’oggi 18 domande di assunzione di cui alla legge in oggetto a diverse amministrazioni pubblihce, ma ad esse non è giunta alcuna risposta positiva.
Concludo con queste parole “La lotta alle mafie, la lotta allo stato deviante è solo possibile attraverso una risposta forte fatta di legalità alle inefficienze poste in essere da alcune istituzioni, che ancora deficiano della semplice applicazione della legge. Che queste mie parole non siano solo da monito solipsistico ed egoistico, ma che siano di apertura, di dialogo a quanti si trovano nella mia situazione , che illuminano le strade buie dell’indifferenza e della solitudine.
Con Stima
Dott. Gennaro Del Prete