LIBERA. MEMORIA. Nomi e storie delle vittime innocenti delle mafie
a cura di M. Cozzi, R.C. Falcone, I. Napolitano, S. Ottaviani, P. Ruggiero
Edizioni Gruppo Abele, 2015
Volume non in commercio: docplayer.it
“Sono pagine che non chiedono solo di essere lette (…) ma di essere vissute. Portatele dunque con voi, apritele a caso e lasciate che quelle vite vi scavino dentro, vi diano forza e motivazione, vi riconducano all’impegno più determinati e consapevoli”. Luigi Ciotti
Introduzione di Luigi Ciotti
«Quando ti uccidono un figlio, sparano anche su di te. A me hanno sparato quel giorno». Queste parole di Saveria Antiochia, donna straordinaria e mamma di Roberto, agente di polizia ucciso da Cosa nostra nell’estate del 1985, custodiscono la chiave per capire lo spirito di queste pagine. Le mafie le si può studiare, analizzare, raccontare con efficacia, ma è difficile capirle a fondo senza aver conosciuto le loro vittime, senza aver sentito sulla pelle – per “contagio” emotivo – quegli spari che Saveria non ha mai smesso di sentire.
Quest’opera di ricerca, di ricostruzione, è il frutto di una vicinanza non occasionale, di un accompagnamento mai venuto meno.
In un Paese smemorato, che tende a rimuovere il passato o a fare della memoria una retorica (o, peggio, a sottoporre interi periodi della sua storia a comodi revisionismi) Libera ha voluto ricordare le vittime delle mafie in tre modi complementari e strettamente intrecciati: con la vicinanza concreta ai famigliari, con la ricostruzione di ogni storia, anche le più lontane e remote, con l’impegno testardo e quotidiano affinché siano rimosse le cause sociali, culturali e politiche che hanno generato tutta quella violenza e tutto quel sangue.
Sono pagine che non chiedono solo di essere lette – così come non basta, per ricordare una vittima, mettere una targa,
intitolare una piazza, dedicare una manifestazione – ma di essere vissute. Portatele dunque con voi, apritele a caso e lasciate che quelle vite vi scavino dentro, vi diano forza e motivazione, vi riconducano all’impegno più determinati e consapevoli.
Che cosa possiamo imparare da queste pagine? La prima cosa è che la violenza mafiosa colpisce indistintamente.
Il primo nome è quello di El Hadji Ababa, un ragazzo africano di 26 anni ucciso a Castelvolturno (Ce) nel settembre del 2008.
Sono 15 le persone immigrate tra le vittime innocenti.
La seconda è che il presunto riguardo mafioso verso le giovani vite è una menzogna: sono 83, tra bambini e ragazzi, le vittime.
La terza è che si tratta di una violenza trasversale: dai semplici cittadini alle forze di polizia, dai magistrati agli avvocati, dai sindacalisti ai giornalisti, dagli imprenditori ai commercianti, dai preti ai medici, dai politici agli amministratori pubblici non c’è “fascia” sociale e professionale che non abbia avuto le sue vittime.
La quarta è che, oltre che feroce, quella mafiosa è una violenza cieca: sono ben 156 le persone uccise per essersi trovate dentro un conflitto o per essere state scambiate, per un beffardo gioco del destino, con altri.
La quinta è che la mafia ha iniziato a uccidere tanto tempo fa e non ha mai smesso di farlo: il primo omicidio risale a due
secoli fa, la quantità maggiore si concentra tra gli anni Ottanta e Novanta del 900 – col picco di 41 omicidi nel 1982 – ma
le morti continuano sino ai giorni nostri. E se è vero che il numero si è ridotto, è anche vero che la trasformazione delle
mafie in “imprese” insediate nei centri vitali della vita sociale e economica, ha aumentato in maniera incalcolabile il numero dei “morti vivi”, delle persone a cui le mafie tolgono il lavoro, la libertà, la dignità.
Due ultime considerazioni. Il nostro obbiettivo è di arrivare a superare le distinzioni fra le vittime. Che siano associate
alla violenza mafiosa, al terrorismo o alla criminalità comune, vanno ricordate tutte, così come vanno garantiti ai famigliari i legittimi diritti.
Il nostro è un Paese di stragi ancora in gran parte impunite e avvolte in presunti misteri, un Paese che troppe volte non
ha garantito verità e giustizia, due parole gigantesche che non procedono separate e che soprattutto hanno bisogno di essere illuminate con la nostra coerenza, il nostro coraggio, il nostro impegno, come ha sottolineato Papa Francesco. «Il desiderio che sento è di condividere una speranza ed è questa – ha detto incontrando i famigliari delle vittime il 21 marzo 2014 a Roma – che il senso di responsabilità pian piano vinca sulla corruzione in ogni parte del mondo. E questo deve partire da dentro, dalle coscienze, e da lì risanare, risanare i comportamenti, le relazioni, le scelte, il tessuto sociale così che la giustizia guadagni spazio, si allarghi, si radichi e prenda il posto dell’iniquità».
Un’ultima considerazione sui famigliari delle vittime. Molti sentono quell’espressione – “famigliari delle vittime” – come
una riduzione a categoria. Non è una questione solo lessicale, ma sostanziale. Sono persone – e noi lo sappiamo meglio di
altri – impegnate in cose belle e positive, persone che, come Saveria, hanno saputo dare al dolore il senso della cittadinanza responsabile, del servizio alla comunità. E come tali chiedono di essere riconosciute. Fare in modo che lo siano è obiettivo essenziale del cammino iniziato con loro vent’anni fa.