L’INDIFFERENZA È ANCORA VIOLENZA “Otto anni senza Massimiliano” di Simona Musco
«L’indifferenza è ancora violenza»
di Simona Musco (Locride@calabriaora.it)
Otto anni senza Massimiliano
L’appello di Liliana Carbone: «Non devono esistere morti di serie A e serie B»
Articolo da Calabria Ora del 19 Settembre 2012
si ringrazia Simona Musco per la concessione della riproduzione.
«Quando non c’è memoria, quando addirittura c’è indifferenza, allora è ancora violenza». Liliana Esposito Carbone è una donna forte. Una donna piena di dignità, che non vuole star lì a farsi compiangere ma che porta avanti una lotta al posto di suo figlio, di quel figlio che da otto anni attende giustizia.
Massimiliano Carbone, un giovane forte, bello come un bronzo di Riace, è stato stroncato da una pallottola il 17 settembre 2004. Sette giorni di agonia in ospedale prima di morire, prima di lasciare a sua madre il compito di mantenere viva la memoria, di essere spina nel fianco di chi pretenderebbe che ci fossero morti di serie A e di serie B. Ma Liliana sa bene che non è così o meglio che non dovrebbe essere così. E allora lei non lascia spazio All’indifferenza. Sta lì, giorno per giorno, a combattere affinchè questo delitto, un delitto compiuto con modalità mafiose, non cada nel vuoto, affinchè faccia ancora rumore.
«Chiedo che si ricordi mio figlio. La giustizia negata ad un ragazzo di Locri è negata a tutti i ragazzi di Locri – afferma – E’ una comunità che si vede negato un diritto primario, quello della sicurezza e della certezza della pena».
Massimiliano avrebbe avuto 38 anni. E’ morto il 24 settembre, giorno in cui sua madre compiva gli anni. Questo anniversario segnerà le 63 primavere per Liliana, una madre “infame” per alcuni, che forse avrebbero gradito di più il suo silenzio. Ma lei vuole dare l’esempio, vuole andare al di là delle belle parole. Perché la speranza, la fede, non bastano più. «Si parla tanto dei giovani e poi ci sono quelli a cui la speranza viene negata oaddirittura viene negata la vita – sottolinea – Le indagini per la morte di mio figlio sono partite male e in ritardo, come è opinione di molti giudici». Massimiliano muore 13 mesi prima di altri delitti eccellenti, che hanno fatto molto parlare di sè. «Per mio figlio non c’è stata la stessa attenzione mediatica che c’è stata successivamente – commenta Liliana – una morte che non ha fatto scalpore. Ma perché? Ci sono morti più o meno importanti? Quando chiediamo giustizia deve essere prestata attenzione». Se non ci pensano le istituzioni a far mantenere viva la memoria di Massimiliano, allora, è sua madre a farlo. Perché il dolore, dice, ha una valenza altamente educativa.
Liliana racconta delle indagini, partite molto dopo il delitto. Indagini alle quali la famiglia ha contribuito in ogni modo possibile. La pista si è immediatamente definita: Massimiliano, forse, ha pagato col sangue l’amore con la donna di un altro uomo, un amore che ha dato i suoi frutti. Dunque, quel 17 settembre 2004, un cecchino lo aspettò nel cortile di casa sua. Lui rientrava da una partita di calcetto. E lì un proiettile calibro 12 segnò il suo destino. Gli inquirenti hanno però voluto indagare a 360 gradi, scavando nella vita di quel giovane e scandagliandone ogni particolare. E così, prima che un nome finisse sul registro degli indagati ci sono voluti due anni, nell’ottobre del 2006.
Liliana era stata aggredita al cimitero, sulla tomba di suo figlio. «E’ stata isolata questa pista e andava delineandosi un particolare movente, per cui quando sono stati compiuti alcuni passi in avanti questa persona ha cercato, per così dire, di tenermi buona – racconta – Io ho chiamato i carabinieri, ho denunciato tutto e a tutt’oggi il procedimento è in corso. Dopo l’iscrizione nel registro degli indagati queste persone chiesero la riesumazione del corpo di mio figlio, un’ulteriore violenza non necessaria. Una cosa per cui soffro e che qualcuno attribuisce addirittura a me. Ma non è così».
La protesta di Liliana non piace a tutti. Si è incatenata al tribunale, partecipa a tutte le manifestazioni contro la ‘ndrangheta e in ricordo delle sue vittime con una foto del figlio al collo. La memoria è la sua missione. Ma per molti si tratta di esibizionismo.
«Non è così – precisa – è un modo per dialogare con mio figlio, la mia pietas, che non posso permettere a nessuno di giudicare».
Questa madre sa bene che le cose non vanno, che la parrocchia e la scuola non bastano se poi manca l’esempio, se la sub cultura mafiosa, quella che ti insegna che è meglio stare zitti e farsi i fatti proprio, continua a proliferare. Perché ciò che si ignora è che in questi casi si tratta sempre dei fatti propri.
«La vera educazione alla legalità è l’esempio pratico, la testimonianza della legalità – sottolinea – Io sono disullusa, vorrei quasi chiedere perdono a tutti quei ragazzi a cui ho parlato di speranza, perché non basta: il proprio destino devono costruirselo da sé».
L’indagato sarebbe stato scagionato da un alibi fotografico, mandato in onda nella puntata del 7 aprile 2008 di “Chi l’ha visto?”, su Rai 3. Una foto scattata alle 20,20 di quel 17 settembre, proprio mentre Massimiliano entrava in ospedale, presentata da persone che con l’indagato non avevano niente a che fare. La puntata era stata registrata il 24 gennaio 2008, quando Liliana e la sua famiglia appresero dai giornali dell’avvenuta archiviazione.
La donna decise di incatenarsi davanti al tribunale, come forma di commemorazione e di protesta civile. «Chiederò giustizia finchè campo – dice senza il minimo dubbio – Ci sono tre magistrati importantissimi che vanno per le scuole a fare testimonianza per la legalità. Li ho contattati tutti, qualcuno ha anche ricevuto una mia lettera. Mi hanno detto che non sono competenti. A queste persone vorrei dire che è giusto preoccuparsi di insegnare la legalità ai ragazzi ma che devono ricordare che anche Massimiliano era un giovane di questa terra e che la sua eredità è una vita giovane di questa terra». Liliana vuole che quel video finisca in rete, affinchè si ricordi suo figlio. «Mio figlio era morto da 13 mesi quando i ragazzi marciavano su Locri senza ricordarsi di lui. Qualcuno era addirittura suo vicino di casa. questa disparità nell’attenzione, nell’impegno e nella memoria, è contorta e grave per i giovani – aggiunge poi – E’ tutto fermo, cristallizzato e congelato, perché nessuno ha voluto fare giustizia. Non ho mai visto le istituzioni compatte, ma solo singole persone».
Se c’è da ringraziare qualcuno, quel grazie va all’ospedale di Locri e ai suoi medici. «È stato assistito in maniera straordinaria, in tutti i reparti in cui è stato e sono tanti – sottolinea la donna – vogliamo ringraziarli di cuore tutti. Hanno lavorato per mio figlio, lo hanno accudito e amato per sette giorni. Non posso, invece, ringraziare le istituzioni, perché se dopo otto anni non c’è giustizia significa che non è stato fatto tutto il possibile. Ci sono, però, ufficiali e sottoufficiali dell’arma che ce l’hanno messa tutta, perché erano quelli che veramente volevano giustizia e che sono stati vicini alla famiglia».
ÈEppure ancora qualcuno le chiede pazienza. «Durante una manifestazione per la legalità – chiosa- un politico importantissimo, dopo avermi sentita parlare, mi si avvicinò con la scorta e mi disse di avere pazienza. Se mi avesse detto “coraggio” l’avrei presa come una frase convenzionale e avrei detto grazie, ma è la pazienza che ci ha ridotto a questo punto, l’assuefazione e la rassegnazione nel vedere mortificata la nostra intelligenza».