LO STATO SCONFITTO E INTANTO ROMA DISCUTE di Giovanni Falcone

La feroce efficienza della mafia e la disarmante inadeguatezza delle istituzioni ancora una volta si sono rivelate in tutta la loro gravità con l’assassinio di Libero Grassi. La vittima, titolare di un’impresa palermitana, non solo non si era piegato alle pretese estorsive della «famiglia» mafiosa locale, ma aveva denunciato le minacce all’autorità di polizia consentendo l’arresto e la successiva condanna di diversi personaggi coinvolti nel racket dell’estorsione.
Il coraggio del povero Grassi, in una terra in cui si ha timore perfino ad ammettere l’esistenza della mafia, era stato divulgato ed enfatizzato dai «media». Tanti autorevoli rappresentanti delle istituzioni lo avevano pubblicamente apprezzato e additato quale esempio di civiche virtù. Lo stesso Grassi, dal canto suo, aveva più volte ripetuto che non avrebbe mai ceduto al ricatto mafioso.

La mafia ha ancora una volta «ristabilito l’ordine» a modo suo, con tempismo e con la solita spietata efficienza, piantandogli quattro pallottole in testa mentre usciva da casa. C’è da giurare che dopo questa «esecuzione» ben pochi saranno coloro che oseranno pensare di potersi opporre al ricatto mafioso senza conseguenze; e così «Cosa Nostra» avrà segnato l’ennesimo punto a suo favore, riconfermando col sangue il suo incontrastato dominio sul territorio.

Ma questo ennesimo «omicidio eccellente» rappresenta anche un’altra delle tante battaglie perse dalle istituzioni in questa guerra al crimine organizzato in cui lo Stato ancora non ha impegnato tutte le sue forze migliori, nonostante le continue e roboanti dichiarazioni di intenti. Va messo in conto, purtroppo, che uomini delle istituzioni e, in certi casi, anche semplici cittadini possano perdere la vita.
In questa, come in ogni altra guerra, non possono non esserci morti e feriti da entrambe le parti.

Sorprende e disorienta, però, che persone divenute simbolo dell’impegno antimafia possano rimanere esposte alla vendetta mafiosa così da essere eliminate con estrema facilità. Non si può consentire che personaggi-simbolo di un certo impegno civile vengano eliminati impunemente in quanto privi di adeguata protezione. Ed è inaccettabile che le istituzioni lodino ed incoraggino il comportamento di un cittadino, incitando gli altri a seguirne l’esempio, senza sapere o potere far nulla per garantirne l’incolumità e senza creare i presupposti perché simili comportamenti non diventino fonte di gravissimi rischi.
Sarebbe come pretendere che il coraggio del singolo, ai limiti dell’eroismo, diventi la norma per tutta una categoria di cittadini, sottoposti alle vessazioni della mafia senza essere protetti da uno Stato efficiente.

Libero Grassi rappresentava ormai l’esempio vivente, in una città come Palermo, della possibilità di resistere vittoriosamente alle pretese delle organizzazioni criminali. La sua eliminazione, sotto il profilo umano, commuove e rattrista; sotto l’aspetto dell’ordine pubblico significa il tramonto di una timida speranza: quella di una reazione collettiva degli imprenditori alle prepotenze mafiose. La mafia ha perfettamente compreso l’importanza della posta in gioco e inesorabilmente ha compiuto la sua mossa vincente.

Lo stesso non può dirsi per lo Stato che ben poco ha fatto in concreto per evitare che questo autentico simbolo di coraggio e di impegno civile venisse barbaramente ucciso. Ciò, del resto, non meraviglia più di tanto se si pensa che, di fronte a un problema di criminalità organizzata di dimensioni e pericolosità come quello italiano, ancora si discuta a livello istituzionale, non già se sia migliore questo 0 quel programma antimafia, ma addirittura se sia conveniente l’adozione di strategie unitarie.

E naturalmente ci saranno sempre coloro che diranno che la colpa di questo stato di cose sta nel nuovo codice di procedura penale; né mancheranno i soliti esperti a ricordare che la mafia è anzitutto un fenomeno economico e sociale e che la via repressiva non può risolvere i problemi.

«Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur»; questa era la sconsolata riflessione del cardinale Pappalardo all’indomani dell’assassinio del generale Dalla Chiesa. Tra qualche giorno ricorrerà il nono anniversario di quel barbaro eccidio e, mentre a Roma si continua a discutere, Palermo continua a bruciare.