Mafia e politica – Francesco Renda

1. Ai fini dell’analisi e della definizione del fenomeno mafioso, l’argomento Mafia e politica è senza dubbio assai importante e risolutivo, ma è anche assai delicato e spinoso in considerazione degli interessi che ne vengono coinvolti.

La bibliografia è abbondante e considerevole. La tradizione storiografica e pubblicistica declina, d’altra parte, quasi in modo da costituire una specie di vox populi. L’esistenza dei rapporti tra mafia e politica è perciò una verità di senso comune. Ma il compito dello storico, come di qualunque studioso serio, anche se non può prescindere dalla tradizione e dalle opinioni consolidate e diffuse, è quello di stare ai fatti, ricercandone la documentazione più valida e autorevole, e dandone al contempo la interpretazione più obiettiva. I fatti a loro volta non sono né incolori né inodori. Nella massa enorme dei fatti, se ne possono scegliere alcuni e tralasciare gli altri; alcuni possono essere messi in evidenza ed altri collocati nell’ombra o nella penombra; la loro stessa concatenazione logica e cronologica può essere ordinata in un modo invece che in un altro. In breve, come avvertono i principi costitutivi della metodologia storiografica, qualunque ricerca e qualunque risultato sono sempre soggetti ad un margine di soggettività, che può essere più o meno ampio ovvero più o meno accettabile e gradito o anche più o meno utile e necessario.

Consapevole dei limiti e dei rischi che sono insiti alla mia esposizione, cercherò di avvalermi delle fonti che per la loro natura sono le meno impugnabili di particolarità o di spirito di parte; ed anche le più rispondenti al culto e al rispetto della verità. In particolare, mi avvarrò con preferenza rispetto a qualunque altra fonte dei risultati della Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno mafioso, che possono considerarsi un approdo valido della ricerca sociologica, giuridica, storica, politica, ed anche pubblicistica e letteraria, alla cui formulazione hanno concorso tutte le componenti sociali e politiche del paese. Naturalmente, quei risultati, ormai vecchi di un decennio, sono suscettibili di ulteriori approfondimenti, e di fatto sono stati sviluppati ed integrati ad opera di vari studiosi, e ad iniziativa dello stesso Parlamento. Nel complesso, tuttavia, le indagini, le conclusioni e i materiali raccolti dalla Commissione parlamentare di inchiesta sui fenomeno mafioso rappresentano ancora il documento più ampio e approfondito, ed anche il giudizio più collegiale, che sia dato di conoscere e di utilizzare. Richiamandomi, dunque, ai lavori della Commissione parlamentare antimafia, penso di dare alla mia relazione il massimo di oggettività e di imparzialità che sia possibile conseguire.

2. li valida e fondata una ricerca che abbia per fondamento l’esistenza di un rapporto fra mafia e politica? A questa domanda cruciale la Commissione antimafia ha dato una risposta inequivocabile e conclusiva. Ciò che caratterizza e distingue la mafia, e la fa diversa da qualunque altra forma di delinquenza organizzata, si legge negli Atti della Commissione, è « quella connotazione specifica della mafia, che è costituita dall’incessante ricerca di un collegamento con i pubblici poteri ».

Questa formulazione sintetica, contenuta nella relazione di maggioranza (p. 92) redatta dal senatore Carraro, e comunicata alle Presidenze delle Camere il 4 febbraio 1976, è ampiamente argomentata nella precedente reazione pur essa di maggioranza redatta dall’on. Cattanei, al termine della V legislatura, ed approvata dalla Commissione parlamentare di inchiesta nella seduta del 31 marzo 1972. « Il fattore causale più cospicuo della persistenza ed estensione del potere mafioso in Sicilia — si dice in detta relazione — è indubbiamente costituito dai rapporti che la mafia ha saputo stabilire con i poteri pubblici, anzitutto con le strutture amministrative e burocratiche e poi con il potete politico. Anche sotto questo profilo l’indagine compiuta ha una sua validità perché ha permesso di far luce sul comportamento dei pubblici poteri nei confronti dei mafiosi presi in esame, così da ricavarne delle costanti utilizzabili per capire in tutta la sua profondità ed estensione il fenomeno delle interferenze mafiose con le istituzioni.

Nelle biografie non mancano i nomi di persone che non hanno compiuto interamente il proprio dovere, non importa se ciò sia avvenuto per volontà deliberata o soltanto per inerzia: perché quello che conta è la constatazione che i poteri statali si sono spesso comportati nei confronti dei mafiosi in modo abnorme » (p. 115).

E ancora: « Durante la precedente legislatura, la Commissione si limitò ad impostare il lavoro di ricerca in merito ai rapporti tra mafia e pubblici poteri senza però poter giungere non che a conclusioni, nemmeno a risultati particolari.

Alla ripresa dell’attività il problema si presentò subito all’attenzione della Commissione come uno dei problemi centrali dell’indagine, tale da richiedere il maggior impegno possibile nella direzione di un approfondito esame di tutti gli eventuali rapporti tra mafia e gli esponenti dei pubblici poteri e ciò non tanto per individuare e perseguire specifiche responsabilità, quanto per studiare nelle sue profonde implicazioni il complesso fenomeno. Infatti la Commissione avvertì, rispondendo così alle sincere attese della più diffusa opinione pubblica, come il suo compito più significativo fosse appunto quello di sciogliere il nodo dei rapporti tra mafia e pubblici poteri in quanto ritenne che fosse questa la ragione essenziale della sua istituzione ed in quanto comprese che solo un organo politico come la Commissione avrebbe potuto perseguire uno scopo del genere con la necessaria efficacia, imparzialità e credibilità… In questa prospettiva, l’Antimafia si preoccupò di impostare uno specifico programma di indagine sui rapporti tra mafia e pubblici poteri, e in particolare tra mafia e politica » (pp. 140-141).

La stessa relazione, riferendosi poi alle indagini condotte dalla Commissione sul comune di Palermo, su tutti gli enti locali e sugli enti economici della Regione, sulle strutture creditizie e su quelle scolastiche, e alle risultanze accertate circa e il nuovo tipo di rapporti tra mafia e poteri pubblici », concludeva: «Questi episodi rivelano per altro come i personaggi compromessi con la mafia trovino una contropartita al loro appoggio non tanto nei solidi vantaggi di natura elettorale e politica quanto in una specifica cointeressenza a determinati affari e speculazioni; in taluni casi è potuto anzi accadere che le nuove leve della mafia si siano insediate direttamente nella gestione dei pubblici affari, realizzando una compenetrazione con le strutture burocratiche e dell’amministrazione locale» (p. 147).

Per la relazione Carraro e per la relazione Cattanei, dunque, cioè per la maggioranza parlamentare che comprende le più importanti forze politiche coinvolte nell’indagine, il rapporto costante, manifestatosi fin dalle origini, tra mafia e pubblici poteri e tra mafia e politica, è il tratto distintivo, e anzi la causa prima della straordinaria vitalità del fenomeno, e dell’altrettanto straordinaria sua capacità di adattarsi e adeguarsi alle mutate condizioni sociali economiche politiche e culturali del paese. Altro tratto peculiare, strettamente correlato al precedente, e che fa diversa la mafia da qualunque altra forma di delinquenza organizzata, attiene alla composizione sociale del fenomeno. La letteratura e la storiografia hanno sempre distinto una stratificazione interna della cosiddetta « onorata società », parlando esplicitamente di bassa mafia e di alta mafia, di mafia dalle giacche di velluto e di mafia dai guanti gialli, e ultimamente anche, specie ad opera dei mass media, di primo livello, di secondo e di terzo livello della mafia. Questa connotazione sociologica, — tutta particolare e fortemente caratterizzante — nelle indagini e nella conclusione della Commissione parlamentare di inchiesta ha ricevuto una ulteriore adeguata specificazione, che ha consentito una più precisa definizione del fenomeno mafioso.

L’argomentazione più ampia e pertinente in proposito è stata sviluppata dalla relazione di minoranza, comunicata alle Presidenze delle Camere il 4 febbraio 1976 e redatta dall’on. Pio La Torre in collaborazione coi deputati Benedetti, Malagugini e dei senatori Adamoli, Chiaromonte, Lugnano, Maffioletti nonché del deputato Terranova (La Torre e Terranova pagarono però il loro contributo di verità col proprio sangue).
« La mafia, si legge in tale relazione, sorge e ricerca subito (fin dalle origini, ndr) i suoi collegamenti coi pubblici poteri della nuova società nazionale, e i Pubblici poteri accettano, a loro volta, di avere collegamenti con la mafia, scambiassi reciproci servizi. Un accordo di potere in Sicilia non può prescindere dalla classe dominante locale costituita dal grande baronaggio.

È ragionevole, quindi, supporre che il collegamento tra mafia e pubblici poteri non avvenga senza la partecipazione diretta del baronaggio… La mafia è quindi un fenomeno di classi dirigenti. Come tale, peraltro, la mafia non è costituita solo da soprastanti, campieri e gabelloti, ma anche da altri componenti delle classi che esercitano il dominio economico e politico dell’isola, cioè da appartenenti alla grande proprietà terriera e alle vecchie nobiltà… Interpretare la mafia come fenomeno della classe dirigente isolana non significa che tutti i membri delle classi dirigenti siano stati o siano, come tali, membri attivi della mafia, ma solo che i membri della mafia rappresentano una sezione niente affatto marginale delle classi dominanti, i cui interessi, appunto, possono anche entrare, poi, in contraddizione con aspetti dell’attività della mafia stessa» (p. 569-70).

Ad analoga e non meno ferma conclusione giunge pure la relazione di maggioranza Carraro: « Due punti emergono con chiarezza dalle vicende e dagli episodi che sono stati sommariamente ricordati nelle pagine precedenti… Il primo di questi punti è senza dubbio costituito dal rilievo che le azioni della mafia si riso1- sera in genere a favore dei ceti dominanti, in particolare dei proprietari terrieri, che ebbero nei mafiosi gli alleati più convincenti e più preziosi nella lotta contro le rivendicazioni contadine. La mafia d’altra parte (e questo è il secondo punto), fin dalla sua nascita e con impegno sempre maggiore nel corso degli anni, si esercitò nella costante ricerca di un intenso incisivo collegamento con i pubblici poteri della nuova società nazionale, rifiutando il ruolo di una semplice organizzazione criminale in rivolta contro lo Stato o magari interessata soltanto a una funzione di supplenza del potere legittimo.

Ma se la mafia si rafforzò, grazie ai collegamenti con l’apparato pubblico dello Stato sabaudo, è lecito supporre che anche il nuovo Stato abbia tratto un preciso vantaggio da questi collegamenti, il vantaggio cioè di garantirsi una facile posizione di dominio, senza essere costretto ad affrontare il problema scottante di un radicale rinnovamento della società siciliana… In questo senso, perciò, si può ben dire che la mafia è stata all’origine un fenomeno non delle classi subalterne, escluse come tali da ogni accordo di potere, ma al contrario dei ceti che al momento dell’unità già esercitavano (e che continuano ad esercitare) il dominio politico ed economico nell’isola, cioè in definitiva della vecchia nobiltà feudale e della grande proprietà terriera. La mafia, quindi, come prima si è visto più in dettaglio, fu costituita non soltanto da soprastanti, campieri e gabelloti, ma anche, e in misura non sempre marginale, da rappresentanti delle classi dominanti » (112-13).

3. Altro tratto caratteristico, organicamente connesso ai precedenti, e che al pari dei medesimi conferisce alla mafia una collocazione non riducibile al ruolo di qualsiasi altra organizzazione criminale, è la partecipazione della mafia stessa ai processi di trasformazione della vita economica e sociale isolana e nazionale e quindi al conseguimento dei fini che di volta in volta sono assunti fra i compiti decisivi per la conservazione e la difesa di determinanti interessi di carattere generale della società. Sotto questo aspetto, la mafia, nel contesto dei rapporti di forza sociali e politici di volta in volta storicamente determinati, si qualifica come una componente organica del blocco di potere che si oppone al rinnovamento e alla trasformazione dell’ordine esistente. In proposito, la Commissione antimafia si sofferma ampiamente con chiarezza di analisi e precisione di giudizio.

Fin dalla formazione dell’unità nazionale, come guardia armata del feudo, la mafia ha contrastato in tutti i modi, compreso l’esercizio della violenza e del delitto capitale, l’avanzata del movimento contadino con l’aspirazione dei lavoratori al miglioramento delle loro condizioni di lavoro e di vita mediante la conquista della terra e la stipula di moderni contratti di lavoro. A mia volta, posso aggiungere che storicamente si deve a ciò, a questa reazionaria funzione sociale, se tra mafia e movimento operaio e contadino si è instaurato da sempre un rapporto di irreconciliabile conflittualità e di aperta e radicale contrapposizione. In questo senso, i Fasci dei lavoratori, sorti nel 1892 e repressi con lo stato d’assedio agli inizi del 1894, segnarono la nascita delle prime forme di lotta organizzata contro il fenomeno mafioso.

Sconfitti i Fasci dei lavoratori, la bandiera della lotta alla mafia custode del latifondo, ma anche garante del blocco agrario e della sua alleanza con i grandi industriali del Nord, fu assunta dalle organizzazioni popolari e contadine facenti capo al socialismo da una parte e al movimento cattolico dall’altra. Come componente organica del sistema dominante, la mafia invece era schierata a difesa del ministerialismo (crispino prima, dirudiniano e giolittiano poi), costituendo una forza non secondaria della organizzazione del consenso alla classe dirigente liberale e alla sua politica sempre e irrevocabilmente conservatrice.

Fra i prezzi più alti pagati dalla società, per effetto cli tale partecipazione mafiosa alla gestione del potere, furono l’assassinio del commendatore Emanuele Notarbartolo ex direttore del Banco di Sicilia ed ex sindaco di Palermo, dal quale scaturì il processo al deputato liberale Palizzolo, accusato quale mandante del delitto, che ancora oggi può considerarsi il più importante processo di mafia del secolo; e gli attentati mortali, rimasti sempre impuniti, ai più prestigiosi e intransigenti organizzatori del movimento contadino, fra i quali Lorenzo Panepinto di Santo Stefano Quisquina, Bernardino Verro di Corleone, Nicola Alongi di Prizzi, le figure certamente più emblematiche e significative del socialismo siciliano degli inizi del secolo.

Una interruzione nello svolgimento della funzione sociale e politica della mafia si ebbe durante il fascismo, allorché nel 1925 fu inviato in Sicilia il prefetto Mori con pieni poteri nella lotta contro la criminalità organizzata. In effetti, Mussolini fu il primo presidente del consiglio italiano che dichiarò guerra aperta alla mafia e che proclamò la incompatibilità fra la mafia e l’ordine statuale (Vittorio Emanuele Orlando gli rispose orgogliosamente assumendo la difesa della mafia e addirittura tessendone l’elogio). Il risultato più importante dell’iniziativa fascista non fu però la distruzione della mafia, come la propaganda di parte tese e tuttora tende ad accreditare, bensì la sua espulsione dal sistema di potere instaurato dal regime. Il fatto in sé, auspicato favorevolmente dalla opinione pubblica come segno della presenza dello Stato nella garanzia dei diritti e della sicurezza dei cittadini, fu però stravolto e reso moralmente e politicamente riprovevole per il modo in cui fu portato a compimento.

La violenza del regime fascista si sostituì in forme non meno brutali alla violenza della mafia e le masse popolari, non che beneficio, ne ricavarono al contrario danno immenso e irreparabile. I mafiosi, per altro, perseguitati e carcerati senza le necessarie garanzie di legge, anzi in dispregio di qualunque rispetto della persona umana, solo in parte comparvero davanti ai tribunali e alle corti di assise per i delitti che avevano effettivamente consumato. Perciò, nella considerazione popolare, invece che colpevoli, essi finirono col divenire vittime; e, invece che sconfitti, risultarono alla fine vincitori.

Il risultato fu che, una volta divenuta sicura la caduta del fascismo, la mafia non solo si prodigò per riassumere la funzione sociale e politica che aveva da sempre esercitato nella società, ma conobbe per di più quella che la relazione Carraro definisce la « folgorante ripresa » (p. 115). La prima ricerca di collegamento con la politica avvenne privilegiando il rapporto con il movimento indipendentista capeggiato da Andrea Finocchiaro Aprile nonché da Lucio Tasca, esponente dell’ala più oltranzista della grande proprietà terriera isolana. Tra mafia e separatismo fu raggiunta qualcosa di più che un’intesa di collaborazione, alla maniera di come era stata realizzata tra mafia e forze politiche durante il periodo prefascista. La compenetrazione fu tale che i capi della « onorata società » ottennero di partecipare direttamente in prima persona alla vicenda politica e amministrativa e alla stessa elaborazione della linea di condotta separatista in ordine alle scelte strategiche più impegnative e delicate, intervenendo alle riunioni dei massimi organismi dirigenti del movimento.

Ma quel fatto da solo non avrebbe forse avuto conseguenze dirompenti e devastanti di rilievo, dato il carattere ancora indefinito e minoritario del separatismo, se non Si fosse aggiunto il contemporaneo riconoscimento della mafia da parte di servizi non meglio precisati delle forze armate e del governo degli Stati Uniti d’America. In vista dello sbarco delle truppe alleate in Sicilia nel luglio 1943, la mafia siciliana per il tramite e con il sostegno della mafia americana fu invitata a prestare la sua attiva collaborazione ai preparativi dell’impresa; e, una volta instaurata l’amministrazione militare alleata nell’isola, ricevette il compenso politico dell’opera prestata. Su questa vicenda, che ha un valore centrale nella storia più recente della mafia, il dibattito storiografico è ancora lungi dall’essere concluso. Né l’apertura degli archivi inglesi ed americani con le carte relative alla seconda guerra mondiale ha consentito di giungere a conoscenze apprezzabili circa il comportamento tenuto dalle autorità militari e civili americane riguardo al problema della mafia. Va però considerato che probabilmente non sarà mai dato di documentare con materiali ufficiali questo aspetto non certo commendevole ma pienamente comprensibile della vicenda politico-militare che portò alla liberazione della Sicilia e quindi dell’Italia.

La parte risolutiva nella ricerca dei collegamenti con la mafia fu svolta dai servizi segreti la cui attività per definizione è destinata a rimanere avvolta nel silenzio più assoluto, e anche nel mistero. Per altro, non si trattò di deviazione dai compiti istituzionali dei servizi medesimi. La vittoria dell’occidente democratico sulla dittatura nazifascista, e il successo della prima operazione di sbarco in un lembo del continente europeo quando ancora il continente medesimo era saldamente occupato dalle truppe naziste, non poteva sollevare dubbi sulla utilità e opportunità di avvalersi anche dell’opera della mafia. Ciò che contava era il risultato finale. Parigi, era ancora il caso di dire, valeva bene una messa.

Ma se anche è pur sempre difficile accertare con sicurezza inconfutabile il deliberato coinvolgimento della mafia da parte delle autorità americane, malgrado l’esistenza di molti indizi e di una abbondante letteratura che ha indotto la Commissione antimafia a dare per certo il coinvolgimento, resta il fatto, certo non suscettibile di contestazioni, che l’amministrazione militare alleata della Sicilia nei suoi nove mesi di attività ispirò la propria condotta in modo tale che la mafia trovò nella condotta medesima l’occasione e la possibilità di muoversi con grande libertà e con assoluta spregiudicatezza.

Sulla clamorosa e non contrastata riproposizione della mafia durante il governo dell’Amgot in Sicilia non è il caso di soffermarsi, sotto il profilo della documentazione. La letteratura italiana e straniera è unanimemente concorde sui fatti che comprovano la circostanza. Anche la Commissione parlamentare antimafia se n’è dichiarata convinta. « La condotta degli alleati prima e dopo l’occupazione — dice la relazione Carraro (p. 118) — costituì un fattore di primaria importanza per la ripresa nell’isola dell’attività mafiosa… L’azione degli alleati servì almeno in parte a ridare forza alla mafia, a restituirla, con nuove energie, alla sua funzione di guardia armata del feudo, a creare infine le premesse di quel collegamento tra mafia e banditismo che avrebbe insanguinato per anni le pacifiche contrade dell’isola ». In effetti, il rapporto mafia-pubblici poteri, mafia e politica, quale si configurò durante l’amministrazione militare alleata, raggiunse tale funzionalità da imporsi come modello anche dopo il passaggio della Sicilia (febbraio 1944) sotto l’amministrazione delle autorità statali italiane.

 

4. In un primo tempo, in pratica lungo tutto il 1944 e la prima metà del 1945, la mafia privilegiò la sua compenetrazione con il movimento separatista, divenendone una componente organica e pubblicamente risaputa. In conseguenza di tale scelta, si determinò, quindi, una situazione politica ben precisa e definita: da una parte il separatismo fortemente inquinato di mafia (donde la successiva compromissione coi banditismo e con la banda di Salvatore Giuliano in particolare concepiti come braccio armato militare del movimento); dall’altra i partiti facenti capo al Comitato di liberazione nazionale, la Democrazia cristiana, il Partito comunista, il Partito socialista, il Partito d’Azione, in parte lo stesso Partito liberale, sostanzialmente immuni da connivenze mafiose e comunque liberi da quel genere di condizionamenti, che al separatismo contrapponevano la difesa dell’unità italiana congiunta alla richiesta di una larga autonomia regionale. Il carattere amafioso o antimafioso dei partiti unitari era il risultato inevitabile dello schieramento politico e sociale.

La mafia a sostegno del separatismo intervenne in forza contro la politica di ricostruzione dei governi di unità nazionale. In particolare, essa ebbe una parte assai attiva nel sabotaggio dei cosiddetti granai del popolo, scoraggiando e ostacolando il conferimento dei cereali ai magazzini statali, ma anche favorendo e praticando nello stesso tempo il contrabbando e il mercato nero dei generi alimentari. La mafia si distinse pure nel promuovere le rivolte contro la chiamata alle armi, verificatesi su larga scala fra il dicembre 1944 e il gennaio 1945. Le agitazioni popolari mossero in realtà da oggettive condizioni di disagio economico e sociale nonché da difficoltà inerenti alla situazione politica postbellica. Ma la mafia non esitò a sfruttare il malcontento e a inserirsi nella protesta, al fine di meglio accreditare gli interessi del movimento separatista.

In tale contesto, si inserì l’attentato contro Girolamo Li Causi a Villalba, mentre teneva un pubblico comizio, nel settembre ‘44, eseguito con la diretta partecipazione di don Calò Vizzini. Fu il primo delitto politico del dopoguerra, che fortunatamente non si concluse in una strage. Li Causi, dirigente del PCI e suo rappresentante nel Comitato di Liberazione Alta Italia con sede a Milano, già condannato dal tribunale speciale fascista a 20 anni di carcere, dei quali 16 effettivamente scontati, era giunto in Sicilia da qualche settimana, dopo aver affrontato un lungo avventuroso viaggio clandestinamente, in barba alla Gestapo e alle truppe nazifasciste di occupazione, dalla capitale lombarda attraverso la Venezia Giulia e la costa iugoslava e albanese e poi da qui con un’imbarcazione via mare fino a Bari. Ma, dopo essere sfuggito alla caccia dei fascisti e dei nazisti nell’Italia centro-settentrionale, per poco non fu vittima della mafia.

L’attentato di Villalba suscitò allora un fragoroso clamore, e mise in chiaro il ruolo anticomunista della mafia e la collocazione antimafiosa del Partito comunista. La contrapposizione aveva motivazioni politiche generali — la mafia tendeva ad accreditarsi nel fronte anticomunista che già da allora cominciava ad organizzare le proprie file anche al di fuori dei movimento separatista —; ma trovava la sua materiale ragion d’essere nei proposito comunista di radicarsi nella realtà isolana come propugnatore del diritto contadino alla terra e alla liberazione dallo sfruttamento agrario feudale dei proprietari terrieri e dei gabelloti. La sparatoria a Villalba ebbe inizio appunto allorché l’oratore cominciò a trattare la condizione intollerabile dei contadini nel feudo ad opera della mafia. Nella storia sociale e politica della lotta alla mafia degli ultimi quaranta anni, quell’episodio riveste pertanto una importanza fondamentale. Segnò infatti lo spartiacque fra il Partito comunista e il movimento contadino da una parte, e la mafia e le sue connivenze sociali e politiche dall’altra.
Il Vizzini, ancorché denunciato del reato di strage, non ebbe torto un capello e il processo si trascinò stancamente per anni per infine risolversi in una bolla di sapone. Ma da Villalba, in compenso, trasse origine il movimento antimafioso che ancora oggi caratterizza la situazione isolana.

La compenetrazione tra mafia e separatismo non valse a salvare quest’ultimo dalla inevitabile sconfitta. La concessione dell’autonomia da una parte, e la legislazione agraria filocontadina dall’altra, ma soprattutto la conclusione vittoriosa della guerra di liberazione nazionale, tolsero al separatismo ogni possibile giustificazione di ordine ideologico, politico e sociale davanti alle classi lavoratrici e alla stessa opinione pubblica isolana. Il vento del Sud, contrapposto al vento di vandea. I lavoratori e i ceti medi capirono e si orientarono in conseguenza. I contadini, in particolare, cominciarono a costituire le loro cooperative e i loro sindacati, si strinsero sempre più compatti attorno alle bandiere e sotto la direzione del Partito comunista, del Partito socialista e della Democrazia cristiana, mossero alla occupazione delle terre incolte e malcoltivate, ove la mafia esercitava il suo potere. Lo scontro con quest’ultima tese perciò a generalizzarsi, assumendo il carattere di una rivendicazione sociale che era al contempo una richiesta di emancipazione ideologica e morale.

Per l’occasione la mafia, cioè quelle frazioni della classe dirigente che non disdegnavano la pratica criminale nel perseguimento dei propri fini, mostrando intuito e abilità di manovra, dopo aver giocato la carta della guerra civile patrocinata e promossa dagli ultras separatisti attraverso la costituzione dell’Evis, il cosiddetto esercito volontario per l’indipendenza della Sicilia, cui fu aggregato il bandito Giuliano, abbandonò il separatismo e si orientò in un primo tempo verso il Partito monarchico e dopo la proclamazione della Repubblica verso il partito che tendeva a caratterizzarsi come l’asse portante della situazione politica isolana e nazionale, cioè il Partito della Democrazia cristiana.

5. Ma su tale essenziale e delicatissimo passaggio, che avrebbe condizionato gli sviluppi successivi della lotta politica e sociale isolana, è bene riportare le riflessioni ponderate e certo non sospette della Commissione antimafia. Si legge infatti nella relazione di maggioranza Carraro: « L’impegno autonomistico della Democrazia cristiana e degli altri partiti antifascisti portò il 15 maggio 1946, attraverso una serie di tappe faticose, all’istituzione della Regione siciliana.

Correlativamente, la vittoria autonomistica indebolì seriamente il movimento separatista, perché lo svuotò del suo contenuto, almeno in parte. La mafia, perciò, appena si rese conto che il movimento per l’indipendenza della Sicilia non aveva ormai nessuna prospettiva per conquistare il potere, tornò ai suoi amori col personale politico dello Stato prefascista, con i vecchi notabili che si erano attestati sulle posizioni del Partito liberale e dei gruppi di destra, monarchici e qualunquisti. D’altra parte, le forze del blocco agrario non esitarono a tentare un ricatto nei confronti del partito che proprio in quel tempo emergeva alla direzione della nazione e che era interessato, come abbiamo visto, a conquistarsi il consenso dei ceti medi e della borghesia emergente.

Lo spostamento delle preferenze e dei voti mafiosi che si verificò in questo periodo e negli anni immediatamente successivi non fu certo l’effetto di sollecitazioni o di collusioni, ma fu tuttavia causa di una grave distorsione, perché insieme con altri fattori, d’importanza senza dubbio maggiori, concorse a piegare in altra direzione la politica di sviluppo democratico e d’impianto riformistico che era stata iniziata in Sicilia. L’esempio più imponente di questo fenomeno si ebbe alla Regione siciliana, dove l’approvazione dello Statuto speciale, frutto d’intesa di tutte le forze antifasciste, fu seguita, all’indomani di Portella della Ginestra, dalla formazione di governi regionali appoggiati dallo schieramento liberal-qualunquista. E non è dubbio che fu appunto questa una delle ragioni che impedì alla vittoria autonomistica di porre un freno decisivo all’espansione mafiosa… L’impianto e la gestione del nuovo istituto, rifiutando le alleanze e i consensi che ne avevano permesso la fondazione, offrirono nuovo spazio a un sistema di potere fondato sul clientelismo, sulla corruzione e sulla mafia » (pp. 123-124).

L’analisi, suffragata da un supporto documentario sparso a larghe mani in altre parti della stessa relazione Carraro, ha un valore sia sul piano del giudizio storico che sul terreno più propriamente politico. Ma ha un valore anche come esempio e incitamento a compiere una efficace e incisiva disamina della propria passata esperienza. Pur con le cautele suggerite dal caso, la maggioranza della Commissione rappresentata da qualificati elementi non siciliani di parte cattolica ha riconosciuto la realtà delle cose e ne ha dato una interpretazione largamente concorrente con quella esposta dalla storiografia e dalla pubblicistica più accreditata del fenomeno mafioso. Muovendosi nella stessa direzione, anche tra le file dei mondo cattolico e della stessa Democrazia cristiana di Sicilia negli ultimi tempi si è fatta strada una cultura e un atteggiamento mentale che non teme di ricercare e di dire la verità.

Con riferimento alla ricerca dell’origine e delle cause dell’inquinamento mafioso del partito della Democrazia cristiana, realizzatosi sostanzialmente fra il 1945 e il 1948, vorrei ricordare in particolare il dibattito svoltosi recentemente in un convegno di Caltanissetta sul movimento cattolico di quella provincia, e quanto ebbero a francamente riconoscere sia l’on. Francesco Pignatone, ex deputato DC ed oggi direttore generale dell’Ente siciliano per la promozione industriale (ESPI), sia l’on. Giuseppe Alessi, una delle maggiori personalità politiche della DC siciliana, protagonista di primo piano della vicenda politica regionale degli anni ‘40-’50.

Rievocando gli anni di rifondazione della Democrazia cristiana nissena, e i problemi e le difficoltà che vi furono connessi, Pignatone disse: « Un altro problema con il quale il mondo cattolico ha dovuto fare i conti al momento della assunzione di un impegno politico fu il problema della mafia. Nella diocesi nissena il movimento cattolico ha dovuto fare i conti con la mafia in diverse occasioni. Anzitutto, quando, in seguito all’ingresso degli americani, si trattava di dar vita ad un inizio di organizzazione amministrativa nei comuni. L’insediamento dell’avv. Cammarata nella prefettura di Caltanissetta (su designazione del vescovo) fu, non a torto, considerato un segnale positivo rivolto a quel coacervo di forze che col passare dei giorni si sarebbero manifestate come forze di qualità mafiosa. E ciò fu un fatto molto negativo.

Quando fu decisa la confluenza delle forze di Azione Cattolica nelle sezioni DC, si dovette prendere atto del largo insediamento dei gruppi di connotazione mafiosa già avvenuto nella DC. Il “ connubio “, la “convivenza “, la reciproca tolleranza “ con gli ambienti paramafiosi sarebbe stata la conseguenza di uno scontro risoltosi non certo a favore delle forze di più limpida estrazione cattolica già al momento della fondazione della DC proprio a Caltanissetta in uno di quei convegni decisivi che, sulla testa di tutti, era solito tenere l’on. Aldisio nelle sue rare visite in città… Le due anime diverse e contrapposte della DC certamente hanno dovuto convivere ma tale convivenza resterà sempre di pura convenienza elettorale e di sostanziale distacco. Con tutte le conseguenze negative che una siffatta condizione di cose ha comportato nel tempo per uno sviluppo più aperto della vita democratica del partito e per una più sana libertà di movimento verso l’esterno. Certamente i conti con gli ambienti paramafiosi si dovettero fare soprattutto al momento elettorale quando occorreva procedere alla formazione delle liste. E qui ci sarebbe tutto un discorso da fare che sarà opportuno riprendere in altra occasione ».

Nello stesso convegno provinciale nisseno, l’on. Giuseppe Alessi, invitato a fornire la propria testimonianza, da parte sua aggiunse: « Avvenne un fatto che all’on. Pignatone dovrebbe essere ben noto e da cui dipese la svolta del partito nella provincia. Aldisio, nuovo prefetto, mi chiese di preparare la sala dello studio per la riunione del comitato provinciale. Alla riunione si presentò un gruppo guidato dall’allora soltanto dottore, Calogero Volpe, che accompagnava i rappresentanti dello schieramento del “vallone”, da lui capeggiato, fino allora vivacemente separatista e prosperato sotto il patronato del prefetto Cammarata: ora che prefetto era Aldisio, quello schieramento col suo capo si era deciso ad entrare nel partito della DC. Da parte mia, non espressi alcuna opposizione di carattere personale verso i singoli: ma pretesi che ognuno presentasse singolarmente la domanda nelle sezioni già costituite nei paesi del “vallone“. Il dott. Volpe fu preciso e deciso nella replica: tutto il gruppo entrava nei suo complesso organico, senza che il partito si permettesse di esaminare la posizione di ognuno dei componenti. Obiettai che, in tal caso, si trattava non già delle richieste dei singoli di entrare nel nostro partito, ma di una fusione tra due partiti; soggiunsi francamente che mi opponevo alla proposta così formulata, anche perché quello schieramento aveva dei contrafforti nella “onorata società“, che a Mussomeli si esprimeva nella figura di Genco Russo. Si badi e lo sottolineo con vigore: dissi, e ancora affermo, che non intendevo esprimere giudizi di carattere morale o di carattere religioso, perché non ne avevo diritto; debbo precisare che pronunziavo un giudizio di carattere strettamente politico.

Intanto si trattava di altro tipo di mafia, non già, come oggi si intende, di delinquenza organizzata ed armata. Era il mondo delle tre “M“, così mi esprimevo; le “M“ non erano quelle di Mussolini, ma non meno pregiudizievoli, perché si chiamavano “Mulino“, “Moneta”, ”Mafia“, e cioè le tre forze unite che signoreggiano nel vallone. Fu allora che quella sant’anima del cav. Benintendi, presidente della conferenze di S. Vincenzo, intervenne dicendomi: ‘Caro mio giovane avvocato, qui non siamo in sede di Azione Cattolica, per formulare simili discriminazioni; siamo sul piano politico. Lei sa che i comunisti usano tali violenze contro i nostri,  da non consentire loro nemmeno le libere manifestazioni, i cortei. Ebbene abbiamo bisogno della protezione di persone forti per fermare le violenze dei  comunisti ‘. Il cav. Benintendi era persona estremamente retta ed anima candida,  veramente cristiana; ma secondo me sbagliava. Rimasi in minoranza; il “ gruppo” entrò in massa e da quel momento si appropriò dei partito ».

In effetti, la confluenza della mafia nella DC avvenne su un terreno più ampio e coinvolgente: quello dell’anticomunismo o se si vuole del presunto contrasto fra  democrazia e dittatura o della pretesa scelta di civiltà fra occidente ed oriente, che, a partire dal 1946, e più ancora nel 1947 e nei 1948, in seguito alla rottura della politica di unità nazionale e alla cacciata dei comunisti e dei socialisti dal governo in campo nazionale, e nel clima dell’ormai imperante guerra fredda sul piano internazionale, assunse il carattere frenetico di mobilitazione indiscriminata di tutte le forze disponibili in campo, senza andare molto per il sottile. « Su questo terreno, chiarì al convegno di Caltanissetta il già ricordato on. Pignatone — per creare un fronte di difesa contro i “ senza Dio” e contro il  risorgere della combutta massonica, — si saldò a livello locale il primo “ accordo  di fatto con certi ambienti mafiosi dominanti in larga parte dei comuni della  diocesi ».

 

6. La compenetrazione fra mafia e politica comportò un imbarbarimento della dialettica sociale e del confronto fra gli schieramenti partitici; e implicò anche un  condizionamento della stessa condotta delle istituzioni a cominciare dai corpi  dello Stato, polizia carabinieri servizi segreti magistratura, severamente impegnati nel ripristino della legalità e dell’ordine turbati dalle conseguenze della guerra perduta e soprattutto nella liquidazione del banditismo dilagante, la cui  manifestazione più emblematica era costituita dalla sfida tracotante e sanguinosa di Salvatore Giuliano.

Il banditismo per sua natura non era convertibile come la mafia in operazioni di scambio da una formazione politica all’altra. Il connubio politico banditismo-separatismo fu possibile perché entrambi i due fenomeni avevano in comune la rivolta contro lo Stato italiano. Battuto politicamente il separatismo, sconfitto anche sul piano militare con la rapida liquidazione delle fragili formazioni del cosiddetto Esercito volontario per l’indipendenza della Sicilia (EVIS), sconfessato infine sul piano elettorale dal voto dei siciliani (nelle elezioni politiche della Costituente e nelle elezioni della prima Assemblea regionale la lista separatista raccolse solo qualche centinaio di migliaia di suffragi), si pose il problema di chiudere anche il capitolo della turbolenza brigantesca. L’impresa fu relativamente agevole, se pur duramente sanguinosa, in riferimento alle numerose bande operanti un po’ ovunque così nella parte occidentale come in quella orientale dell’isola. Fu invece estremamente difficoltosa in rapporto alla banda Giuliano, che tenne testa alle forze dell’ordine fino al 1950.

Le difficoltà della lotta armata contro il cosiddetto « re di  Montelepre » non furono tanto di natura militare (dato che la superiorità fu sempre delle forze statali), quanto di ordine politico. Il grumo di complicità politico-mafiose di stampo separatista, di cui Salvatore Giuliano era depositano, continuarono ad operare anche dopo che il separatismo aveva cessato di esistere come movimento politico; e lo Stato ne fu in parte succube e comunque ne risultò fortemente condizionato, al punto che dovette contrattare la fine di Giuliano, il quale però non fu consegnato vivo, ma cadavere. L’inchiesta parlamentare sul fenomeno mafioso ha finalmente chiarito il mistero della morte di Giuliano, assodando che il bandito non fu ucciso in un conflitto a fuoco con i carabinieri; ma ha pure chiarito che, in quella occasione come in tante altre, i massimi dirigenti della polizia, dei carabinieri e della stessa magistratura furono in contatto con la mafia e con Giuliano, alla ricerca di una via di uscita che non fosse quella maestra del trionfo della verità e della giustizia.
Il ripristino dell’autorità dello Stato in quello che era stato il territorio controllato dal «re di Montelepre» comportò in conseguenza un altissimo costo di vite umane; decine di carabinieri e di poliziotti, semplici agenti e anche ufficiali, furono barbaramente trucidati; la stessa immagine dello Stato ne risultò gravemente menomata. Fu il prezzo pagato alla compenetrazione tra mafia e politica.

7. Un prezzo non meno alto fu pagato per ottenere che il programma riformatore della Repubblica, impostato dalle forze che sul piano nazionale avevano combattuto nella Resistenza e vinto la guerra di liberazione contro il nazifascismo, fosse applicato anche in Sicilia; che fu un altro aspetto della lotta asperrima per ripristinare nell’isola l’autorità sociale e politica, oltre che militare, dello Stato italiano. Il programma riformatore democratico e antifascista nel Sud Italia fondamentalmente volle dire attacco al latifondo, lotta per la terra,  organizzazione e mobilitazione dei contadini, distruzione del blocco agrario, liberazione delle campagne dalla arretratezza.

Su questa linea vi fu una sostanziale convergenza fra il Partito comunista, il Partito socialista e la Democrazia cristiana; le diversità e i contrasti concernevano il modo di attuazione del programma riformatore, cioè quale tipo di movimento avrebbe inalberato la bandiera del rinnovamento e quali forze politiche ne avrebbero assunto la direzione e l’egemonia. In proposito, ognuno dei tre partiti tentò di far valere la propria collocazione sociale e la conseguente connotazione politica e ideale; ma la gara fra i medesimi ebbe per così dire un carattere fisiologico. Ti movimento contadino non ebbe perciò una composizione univoca (di soli braccianti o di soli contadini poveri o di soli contadini coltivatori diretti) e poté usufruire del concorso di una direzione politica strategica pluralistica (comunista, cioè, socialista e democratico-cristiana).

Il movimento contadino sui piano politico fu collegato con il movimento autonomistico, e di quest’ultimo costituì una delle componenti più valide e determinanti. Agli sviluppi della situazione politica i due movimenti reagirono però in modo diverso. Il movimento autonomistico resse alle difficoltà e si mantenne unito fino al momento in cui si trattò di fondare la regione. Ottenuto lo Statuto speciale e il suo coordimento con la Costituzione repubblicana, il movimento si spezzò in due, e quella divisione, pur con le variazioni intervenute nel frattempo, dura tuttora. Il movimento contadino invece, anche in conseguenza della sua relativamente più omogenea struttura sociale, riuscì a conservare la sua unità, e poté impostare una organica quanto complessa piattaforma di lotta per la terra e contro il latifondo. Su questo fronte, comunisti, socialisti e democratici cristiani si trovarono pertanto schierati contro il blocco agrario e contro la mafia.

La resistenza degli interessi agrari conservatori e reazionari in Sicilia fu altrettanto tenace e testarda che nelle altre regioni del Mezzogiorno. Fra le lotte contadine siciliane e quelle sviluppatesi coevamente nelle altre regioni del Sud vi fu tuttavia una differenza di fondo. In Sicilia a guardia del latifondo c’era schierata la mafia; quindi, contro i contadini, le loro organizzazioni e i loro dirigenti non c’erano solo gli agrari e i partiti che ne avevano assunto la difesa politica; né contro di loro operava solo la repressione poliziesca dello Stato, volta ad impedire che la lotta delle campagne assumesse talune dimensioni incompatibili coi disegno politico complessivo perseguito dal governo e dalla sua maggioranza parlamentare. La guerra della mafia al movimento contadino fu spietata e sanguinosissima; ma fu anche politicamente orientata. Il nemico principale fu visto naturalmente nel Partito comunista, la cui funzione era giustamente considerata come la più risolutiva e determinante; al contempo, però, furono presi di mira anche il Partito socialista e la stessa Democrazia cristiana, cercando di far fuori o di neutralizzare quelle forze e quei dirigenti che non erano disposti al compromesso e che addirittura resistevano alla crescente compenetrazione tra la mafia, i partiti e le istituzioni.

Il terrorismo mafioso si scatenò con implacabile ferocia e determinazione; il ricorso al delitto politico divenne strumento di lotta e pratica corrente. Senza contare i morti ammazzati, genericamente classificati come vittime della regolamentazione dei conti fra le cosche mafiose in contrasto fra loro, l’elenco degli esponenti politici e dei sindacalisti assassinati negli anni immediatamente successivi al 1945 è particolarmente lungo e con ogni verosimiglianza (come avverte la Commissione antimafia che ne ha curato la compilazione) non è nemmeno completo, non bastando talora la sola personalità dell’ucciso a qualificare il delitto.

Dal giugno al dicembre 1945 caddero Nunzio Passafiume a Trabia, Giuseppe Scalia a Cattolica Eraclea e Giuseppe Puntarello a Ventimiglia Sicula.
Nel 1946, furono trucidati: il 16 maggio a Favara, Gaetano Guarino e Marina Spinelli; il 28 giugno a Naro, Pino Cammilleri; il 22 settembre ad Alia, Giovanni Castiglione; il 22 ottobre a Santa Ninfa, Giuseppe Biondo; il 23 novembre a Casteldaccia, Andrea Raja; il 28 novembre a Comitini, Paolo Farina; il 21 dicembre a Baucina, Nicola Azoti.

L’intensificazione del terrorismo mafioso sulla fine del ‘46 continuò spietata, via via alzando il tiro, nei mesi dell’anno successivo. Accursio Miraglia, segretario della Camera del lavoro del circondano di Sciacca, venne abbattuto davanti la sua porta di casa il 4 gennaio. Il 13 febbraio caddero contemporaneamente Nunzio Sansone a Villabate e Leonardo Salvia a Partinico Il 19 febbraio fu la volta di Pietro Macchiarella. Quindi, il 1° maggio, fu messa in opera la strage di Portella della Ginestra, ove persero la vita Margherita Cresceri, Costanza Introvaia, Vito Allotta, Lorenzo Di Maggio, Giovanni Grifò, Vincenzo La Fata, Giovanni Megna, Filippo e Serafino Lascari. Questa volta, l’azione terroristica ebbe il nome e il volto di chi ne curò la materiale esecuzione, cioè di Giuliano e della sua banda; ma rimasero ignoti gli ispiratori e i mandanti. La firma di Giuliano fu nuovamente apposta negli assalti che dopo Portella della Ginestra seguirono contro le sedi delle Camere dei lavoro e del Partito comunista a Monreale, San Giuseppe Jato e Partinico. In conseguenza, il 22 giugno perse la vita Vincenzo Lo Jacono a Partinico; il 30 seguente, furono trucidati sempre a Partinico Michele Salvia e Giuseppe Casarubea. Indi, riprese la carneficina dagli autori mafiosi sempre rimasti ignoti alla giustizia. li 3 novembre, nuovamente a San Giuseppe Jato, fu ucciso Calogero Cajola; l’8 novembre, a Marsala, subì la stessa sorte Vito Pipitone; il 25 novembre, a Terrasini, seguì Giuseppe Maniaci.

Il bilancio del 1947 fu di 19 morti, di un numero non calcolato ma altrettanto considerevole di feriti, e di una serie di altri attentati più o meno dimostrativi. Tanta efferatezza non fu e, ai contemporanei, non parve occasionale. L’accentuata pressione terroristica mafiosa e banditesca fu la traduzione in termini criminali della pressione politica e sociale condotta su scala regionale e nazionale (per non dire internazionale) volta a provocare la rottura della grande alleanza fra i partiti che avevano formato i governi di unità nazionale. Il 20 aprile ‘47 il Blocco del Popolo formato da comunisti, socialisti e indipendenti di sinistra ottenne la maggioranza relativa, raccogliendo quasi un terzo del voto popolare. Qualche settimana dopo De Gasperi a Roma aprì la crisi di governo, per liberarsi della ingombrante collaborazione socialista e comunista; ed Alessi a Palermo, passando sopra alla prassi democratica che voleva il partito di maggioranza assoluta o relativa alla guida dell’esecutivo, accettò di formare il primo governo regionale siciliano, un governo monocolore DC, chiuso a sinistra ed aperto alla destra monarchico-qualunquista, separatisti compresi.

Quella conclusione, come si è visto, fu un disco verde alla escalation della mafia nella vita politica.
Ben si comprende, perciò, come in vista delle elezioni politiche del 18 aprile 1948 il terrorismo politico-mafioso riprese con inaudita violenza. Il 22 febbraio fu ucciso a Gibellina l’agrigentino avv. Vincenzo Campo, dirigente dell’Azione Cattolica e candidato nella lista democratica cristiana. Il 3 marzo fu assassinato a Petralia Sottana il socialista Epifanio Li Puma. Appena 7 giorni dopo, il 10 marzo, a Corleone, fu rapito, trucidato e buttato in un profondo crepaccio di montagna Placido Rizzotto. Il 15 aprile, alla vigilia delle elezioni, seguì la condanna capitale di Calogero Cangelosi a Camporeale.

La vittoria schiacciante della Democrazia cristiana e la sconfitta del Fronte popolare non placarono tuttavia il terrorismo mafioso. La guerra continuò spietata come sempre, anche se non ebbe più la virulenza conosciuta fra il dicembre 1946 e l’aprile 1948. Secondo l’elenco preparato dalla Commissione antimafia, infatti, il martirologio non si interruppe. Seguirono il loro tragico e immeritato destino Nicasio Triolo il 16 agosto ‘48 a Trapani; Leonardo Renda l’8 luglio ‘49 ad Alcamo; Eraclide Giglia l’8 marzo ‘51 ad Alessandria della Rocca; Gaetano Genco a Montedoro nel 1952; Vito Montaperto a Palma Montechiaro nel 1954; Salvatore Carnevale a Sciara e Giuseppe Spagnolo a Cattolica nel 1955, rispettivamente il 16 maggio e il 13 agosto; Pasquale Almerico a Camporeale il 25 marzo ‘57; Vincenzo Di Salvo a Licata il 17 marzo ‘38; Paolo Bongiorno a Lucca Sicula il 20 settembre ‘60; Carmelo Battaglia a Tusa il 24 marzo 1966.

Il tributo di sangue pagato dal Partito comunista e dal Partito socialista fu certamente il più alto e il più doloroso. I dirigenti assassinati furono uomini e donne valorosi; onesti e fedeli propugnatori degli ideali di riscatto dalla servitù e dall’oppressione dell’uomo da parte dell’uomo; validi ed impareggiabili dirigenti di cooperative, di leghe contadine, di camere del lavoro; capipopolo e amministratori comunali; dei quali il più eminente e rappresentativo per esperienza politica e per cultura fu Accursio Miraglia. Ma anche la Democrazia cristiana concorse, a sua volta, con un olocausto non meno emblematico. Fra le vittime democristiane del terrorismo mafioso ci furono infatti un segretario politico provinciale di Agrigento; un candidato alle elezioni politiche del ‘48 e un candidato alle elezioni regionali del ‘51, anch’essi di Agrigento; un amministratore comunale del comune di Camporeale.

Il movimento contadino, ciò nonostante, continuò nella sua lotta fino a quando la sua fondamentale aspirazione alla terra non fu almeno in parte soddisfatta con la legge di riforma agraria e con gli altri provvedimenti che agevolarono la formazione della piccola proprietà contadina. In quella occasione, emerse la contraddizione profonda in cui si trovò avvinghiata la società isolana per effetto della sempre più intima coro- penetrazione fra mafia, pubblici poteri e politica. Il convincimento allora diffuso nella cultura e fra i militanti del fronte riformatore era che la lotta al latifondo avrebbe distrutto le basi materiali della mafia. Scomparso il « feudo », si diceva, venuta meno la funzione del gabelloto intermediario, trasformata l’agricoltura su basi tecniche e sociali moderne, la mafia avrebbe cessato di esistere, sarebbe morta di morte naturale.

 

8. La previsione, però, risultò valida solo in parte. In seguito al passaggio di oltre quattrocento mila ettari di terra dalla grande alla piccola proprietà (quasi il 20% della superficie agraria isolana e circa i due terzi della superficie occupata dai latifondi), la mafia, infatti, cessò di essere la guardia armata del feudo. Ma, contrariamente alle attese, essa non si avviò al tramonto per decrepita vecchiaia. Rafforzata, vivificata e ringiovanita dal legame con i pubblici poteri e coi partiti che ne avevano la gestione, la mafia assunse il controllo del processo di formazione della piccola proprietà contadina, ed interpose i suoi « servizi » nella stessa attuazione della legge di riforma agraria.

Quasi tutte le operazioni di compravendita di terra, effettuate nei territori controllati dalla mafia con le agevolazioni fiscali e coi mutui di legge, passarono attraverso la sua intermediazione, dietro una fortissima ricompensa in terra e in denari. Quanto successe in tema di applicazione della legge di riforma agraria, d’altra parte, emerse in tutta evidenza a Villalba con lo scandalo del feudo Polizzello, un tempo dominio incontrastato di Calogero Vizzini.

A parte le implicazioni politiche che vi si accompagnarono, le tangenti, estorte per decine di miliardi tanto a danno dei proprietari quanto dei contadini e del pubblico erario, diedero luogo ad un primo colossale processo di accumulazione patrimoniale e finanziaria che costituì la premessa per il successivo transito della mafia dall’agricoltura all’edilizia e ai servizi del terziario; e quindi per l’assalto alla città, alla sua economia, al suo controllo e governo, ai suo spregiudicato sfruttamento, ivi compresi la produzione e il traffico degli stupefacenti, che in ordine di tempo si configurarono e tuttora si configurano come la fase suprema, la più redditizia ed ambita, dell’attività mafiosa. Il risultato fu, pertanto, che i processi di innovamento e di trasformazione, e lo stesso sviluppo della società isolana, non portarono al deperimento della mafia, come era negli auspici, ma alla sua straordinaria espansione ed incremento.

L’occupazione mafiosa dei processi di modernizzazione dell’isola, scontrandosi con la resistenza e l’opposizione dello schieramento sociale e politico di sinistra, ed anche con le insofferenze sempre più diffuse del mondo cattolico, ha avuto però come risultato la nascita di una nuova configurazione del fronte e della coscienza antimafia. Il fenomeno è stato favorito da motivazioni oggettive e soggettive nello stesso tempo. Le prime erano nella natura propria della mafia. Fino a quando la « onorata società » era stata saldamente radicata nel feudo dell’interno isolano o nei giardini della Conca d’Oro di Palermo, essa era rimasta in ultima analisi periferica rispetto al cuore del sistema prevalente nel paese e nella regione; perciò non aveva suscitato effettive e decisive preoccupazioni; e la si era lasciata vivere e prosperare. Dal momento, invece, che dalla campagna la mafia ha cominciato a insediarsi nella città, cercando di subordinare alle sue «regole» la vita e l’economia urbane per natura loro più complesse e articolate, ed anche più vivaci e reattive, a essere minacciati ed a reagire per legittima difesa non sono stati più solo i contadini, ma anche gli strati operosi e produttivi della economia e della cultura metropolitane meno disposte a soccombere e comunque meno assuefatte per abitudine al governo dei boss.

Nelle campagne, le frazioni mafiose della classe dirigente avevano sempre  utilizzato con successo la forza della tradizione e la suggestione di una certa cultura permeata di «valori» largamente diffusi nella mentalità e nel costume. Nella città, le frazioni mafiose della classe dirigente, o perché rappresentate da elementi immigrati dalla campagna o perché di recente e di recentissima formazione, si presentavano e nel fatto erano rispetto alla popolazione strutturalmente più deboli di quelle campagnole; mancavano quindi dell’autorità e del prestigio e anche dell’esperienza di governo necessari ad una loro diffusa affermazione; difettavano al contempo di una tradizione e di una cultura mafiosa di tipo urbano; trovavano quindi difficoltà a far valere in un contesto urbano regole e comportamenti formatisi e radicatisi in un contesto diverso. La mafia urbana era quindi più esposta della mafia rurale ai contraccolpi della conflittualità interna (fisiologica al sistema nelle campagne, esasperata da indiscipline e ribellioni nelle città); ed anche più soggetta a subire movimenti incontrollabili di rivolta o di autonomo comportamento ideologico e politico da parte della popolazione vivente nel territorio di sua giurisdizione. In breve, la vecchia mafia rurale aveva dietro di sé una lunga storia; la nuova mafia cittadina era appena agli inizi della propria esistenza.

L’espansione della mafia dall’agricoltura all’industria, al commercio, alla finanza, alla produzione e allo smercio della droga, ha provocato pertanto la corrispondente estensione del fronte antimafioso dalla campagna alla città; e ciò ha avuto come conseguenza non solo un accrescimento quantitativo dei partecipanti alla lotta alla mafia, ma anche e soprattutto uno sviluppo di qualità nella composizione dei partecipanti alla lotta medesima. Del fronte, infatti, a partire dagli anni ‘50, sono entrati a far parte strati sociali nuovi; gli operai dell’industria in primo luogo; ma insieme a questi anche i ceti impiegatizi e professionali; gli insegnanti della scuola e dell’università; gli operatori nei mass media (stampa, radio e televisione) nonché gli uomini di cultura in generale; tutti largamente decisivi nella formazione dell’opinione pubblica; ma tutti o quasi tutti più o meno vicini se non organicamente legati ai centri di direzione e di governo degli apparati statuali. Un’importanza determinante ha avuto inoltre la rivoluzione scolastica che ha dato vita a un grande movimento studentesco particolarmente alieno a ricevere o a subire i messaggi della cultura di governo mafiosa. La società nel suo complesso è risultata quindi più mobilitabile ad azioni di resistenza o di attacco contro le prevaricazioni della malavita organizzata.

 

9. Il primo importante risultato di tale nuova situazione è stata la nomina per la prima volta nella storia d’Italia di una Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno mafioso. In precedenza non era stato possibile giungere a tanto.

Inchieste sulle condizioni sociali ed economiche a volontà. Ma inchieste sulla mafia mai. L’argomento giustificativo del rifiuto era che la Sicilia non meritava quell’affronto. Anche negli anni ‘30, si fece ricorso allo stesso espediente per respingere l’indagine parlamentare sul banditismo prima e sulla mafia poi. Le più tenaci resistenze vennero opposte dal partito di maggioranza. Fu un errore gravissimo, costato assai caro allo sviluppo democratico della Sicilia e dell’intero paese. Agli inizi degli anni ‘60, tuttavia, venne infine la grande decisione. opporsi a quella richiesta non apparve più possibile, dopo che la componente «impazzita» della mafia con la strage di Ciaculli, in cui persero la vita carabinieri e ufficiali dell’Arma attratti in un subdolo micidiale agguato, diede il segno della gravità della situazione.

Alla legge istitutiva della Commissione di indagine sul fenomeno mafioso si giunse nel dicembre 1962 con la partecipazione di tutte le principali forze politiche. Oltre che una larghissima maggioranza del Parlamento nazionale, ci fu il voto unanime dell’Assemblea regionale siciliana. L’attività della Commissione non fu però un idillio. È pur vero nondimeno che dopo difficoltà e rinvii durati 15 anni si è giunti alla fine alle conclusioni note. Anche se per l’occasione ci furono una relazione di maggioranza, e due di minoranza, una dell’opposizione di sinistra e l’altra dell’opposizione di destra, segno di un mancato accordo sulle indicazioni da dare perché dall’analisi si passasse ai fatti, il fatto che la Commissione riuscì a portare a termine i suoi lavori fu evento di enorme importanza politica e culturale, che segnò una svolta nella lotta alla mafia.

Per effetto del nuovo livello di coscienza antimafiosa, ormai divenuto patrimonio della quasi generalità del paese, la situazione oggi non è più moralmente né giuridicamente paragonabile a quella passata. Giuseppe Pitrè nel 1903 poteva tessere l’elogio della mafia (rappresentata come dispensatrice di giustizia sia pure in modo improprio). Vittorio Emanuele Orlando nel 1925 poteva dichiarare di essere o di sentirsi mafioso (mafioso buono, ovviamente, da non confondere col delinquente comune). Negli anni ‘30 per non pochi politici poteva essere motivo di prestigio ed occasione di vantaggio dichiararsi amico degli amici o andare in giro durante la campagna elettorale accompagnati da lunghe file di macchine piene di mafiosi. Oggi, la concezione romantica della mafia ha fatto il suo tempo, e il legame con l’onorata società è un reato perseguibile dalla legge. Contemporaneamente, si è fatta strada una maniera più consapevole e critica di combattere il fenomeno mafioso. Nella scuola e nella università, la mafia è affrontata e studiata come un male pericolosissimo da curare con i mezzi indispensabili.

Ma la novità più significativa è costituita dal sorgere di nuovi soggetti sociali e politici della lotta alla mafia. Negli anni ‘50, dianzi rievocati, ad affrontare la mafia erano soltanto i comunisti e i socialisti, e gruppi assai minoritari della Democrazia cristiana, questi ultimi per altro in una condizione di quasi completa emarginazione rispetto alla linea ufficiale del loro partito. Oggi, oltre ai comunisti e ai socialisti, cresciuti di numero, vi sono larghe fasce del mondo cattolico; vi è la partecipazione della gerarchia ecclesiastica con in testa il vescovo di Palermo cardinale Pappalardo; si registra il crescente concorso di frazioni sempre più consistenti della stessa Democrazia cristiana, non più disposte a subire il soffocamento morale e politico imposto dalla supremazia mafiosa. Il fronte politico della lotta alla mafia ha raggiunto in conseguenza una ampiezza che, se presenta ancora assenze e debolezze, lascia però sperare in un suo ulteriore auspicabile allargamento.

Ancora più esteso ed articolato è il fronte della società civile che resiste, reagisce e, per quanto è possibile, rigetta come corpo estraneo la presenza mafiosa. L’intesa unitaria delle confederazioni sindacali e la mobilitazione operante del mondo del lavoro organizzato è senza dubbio il fatto più saliente della situazione. Si aggiunga la mobilitazione giovanile e studentesca. Si metta in conto una opinione pubblica sempre più aperta e sensibile, ed anche più esigente verso gli organi di informazione e verso il potere politico. Si consideri infine l’impegno e l’operatività professionale dei corpi dello Stato, come l’Arma dei carabinieri, la Polizia, la Guardia di finanza, la Magistratura, che negli ultimi anni sono stati chiamati a dare il maggior contributo di sangue nell’adempimento del loro dovere istituzionale. Certo, l’assassinio dei giudici, dei poliziotti, dei carabinieri è il segno di quanto sia salito il livello di attacco della criminalità mafiosa, che non esita di mirare al cuore stesso dello Stato. Il frequente ricorso a quella pratica terroristica è però conferma in pari tempo che tra gli onesti e bravi servitori delle pubbliche istituzioni si è formata una leva nuova di operatori, crescente a vista d’occhio, moralmente e professionalmente ferrata, non disposta a tollerare che si faccia ludibrio della legge.

La nuova frontiera della lotta alla mafia in questo senso è rappresentata dalla crescente mobilitazione opposta alla produzione e al traffico degli stupefacenti, che portano la morte e la rovina anche in contrade e paesi che con la mafia non hanno nulla a che vedere. Contro la mafia della droga, l’intervento sempre più diretto dello Stato non è più il risultato di una sollecitazione che proviene solo dalla società italiana, ma è anche l’adempimento di precisi obblighi di ordine internazionale liberamente contratti con altri Stati in un rapporto di reciprocità. Anche per effetto della nuova legislazione antimafia, si può dire pertanto che finalmente si è imboccata la strada giusta; e il problema è ora di percorrerla fino in fondo, e coi minori costi possibili di vite e di sofferenze degli uomini che sono chiamati a compiere il loro dovere di cittadini.

 

 

Fonte:   zaleuco.org/centrostudi

Centro studi e documentazione sulla criminalità mafiosa
Rocco Chinnici, Giovanni Falcone
http://www.centrostudi.zaleuco.org
Associazione Zaleuco onlus

Saggi e contributi:  Mafia
Il saggio è tratto da Aa.Vv., Mafia ieri e oggi, Istituto Gramsci Siciliano, Palermo 1985:
Francesco Renda – Mafia e politica

 

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