MEMORIALE DELLE FEDERAZIONI COMUNISTE DI AGRIGENTO E SCIACCA ALLA ON/LE COMMISSIONE PARLAMENTARE DI INCHIESTA SULLA MAFIA. 18 gennaio 1964.

MEMORIALE TRASMESSO IL 18 GENNAIO 1964 DALLA FEDERAZIONE DEL  P. C. I. DI AGRIGENTO E SCIACCA SULLE MANIFESTAZIONI MAFIOSE NELLA PROVINCIA DI AGRIGENTO (Doc.    130)

Fonte:  archiviopiolatorre.camera.it

 

MEMORIALE DELLE FEDERAZIONI COMUNISTE DI AGRIGENTO E SCIACCA ALLA ON/LE COMMISSIONE PARLAMENTARE DI INCHIESTA SULLA MAFIA.

 

PREMESSA

Le federazioni del PCI di Agrigento e di Sciacca ritengono loro dovere fornire alla On.le Commissione Parlamentare d’Inchiesta  attraverso  il presente memoriale un primo contributo di informazione e di segnalazione  sul fenomeno oggetto della sua indagine quale si è manifestato nella vasta provincia  di Agrigento in questi anni nel corso dei quali la lotta politica condotta per l’Autonomia, la libertà, il progresso  si è sistematicamente  scontrato con le forze della mafia.

Benché certamente incompleto e limitato, in particolare per quanto riguarda l’accertamento di fatti e circostanze che sfuggono alla concreta possibilità di indagine di un partito politico di opposizione, il presente memoriale trae la sua validità dalla diretta e vasta esperienza delle organizzazioni  comuniste della Provincia  di Agrigento che nella lotta contro la mafia si sono impegnate con il coraggio quotidiano dei militanti cosi come con la illuminata azione politica e parlamentare dei suoi rappresentanti, dal compianto on. Cesare Sessa all’illustre  prof. Giuseppe Berti che tanto contributo  ha dato all’approvazione della legge per l’istituzione di una commissione di inchiesta sulla mafia.

 

L’AZIONE DELLA MAFIA NELLA VITA POLITICA DELLA PROVINCIA

La Provincia di Agrigento, subito dopo la liberazione assunse una funzione di avanguardia nelle lotte dello sviluppo del movimento contadino e popolare, democratico e rivoluzionario della Sicilia.

Gli ideali antifascisti e della resistenza trovarono condizioni favorevoli di espansione nella nostra Provincia ricca di tradizioni e di personalità democratiche e socialiste, dall’internazionalista Saverio Friscia al socialista Lorenzo Panepinto caduto sotto il piombo della mafia, dai fasci siciliani alle prime amministrazioni comunali socialiste del periodo pre-fascista, al permanere e al formarsi durante il regime fascista di nuclei attivi di antifascismo e di organizzazioni del Partito Comunista a Sambuca, Cianciana, Raffadali, Sciacca, Canicattì, Campobello e un po’ in tutta la Provincia.

Questa tradizione e questa continuità permisero all’indomani della invasione alleata (1943) lo sviluppo rapido e impetuoso di un grande movimento di braccianti, di contadini poveri, di minatori, di masse popolari le cui condizioni di vita e di lavoro già gravissime e insopportabili durante il ventennio erano arrivati ad un punto di esasperazione dopo il disastro della guerra.

Nelle lotte per la occupazione delle terre incolte, per i patti agrari, per il rispetto dei diritti dei minatori e braccianti, la provincia di Agrigento diede perciò sin dai primi anni della liberazione un grande e valido contributo.

Non meno grande e valido fu il contributo che la presenza di un forte Movimento unitario popolare diede sul terreno più specificatamente politico allo sviluppo democratico della provincia e di tutta la Regione. Questo movimento fu una delle condizioni fondamentali che impedirono nella provincia di Agrigento il sorgere di quei collegamenti tra vecchia mafia, forze agrarie e conservatrici, sotto il manto e la tutela dell’AMGOT che in altre zone dell’Isola diedero vita e sviluppo all’ala reazionaria del movimento separatista e anticiparono la ricostituzione e l’inserimento della mafia nella situazione politica siciliana.

Si costituì Invece e si sviluppò l’unità dei Partiti antifascisti con l’inizio di una vivace collaborazione e concorrenza tra comunisti, socialisti e cattolici in vari settori dell’attività sociale (significativa, ad esempio la costituzione di cooperative per la gestione delle terre incolte ad iniziativa delle varie correnti), con la partecipazione delle forze politiche agrigentine a tutta la lunga azione per la elaborazione e la approvazione dello Statuto della Regione Siciliana (anche attraverso notevoli personalità politiche del prefascismo come l’on. Guarino Amella esponente dalla democrazia del lavoro).

Di fronte all’imponenza del movimento contadino e democratico, che per la prima volta si presentava armato non solo di protesta e di rivendicazione, ma di leggi democratiche  (decreti Gullo) delle quali chiedeva l’attuazione e sostenuto da una situazione politica nuova (governi del C.L.M.) le forze più retrive della conservazione agraria, e con esse la mafia furono dapprima indecise ma poi a poco a poco nel mutarsi della situazione nazionale presero coraggio e vigore ritornando al vecchi metodi.

Accanto alla resistenza dei ceti possidenti naturalmente interessati alla conservazione del vecchio ordinamento sociale, il movimento contadino cominciò ad Incontrare sistematicamente l’opposizione della mafia schierata a guardia del feudo.

Intimidazioni e minacce, rappresaglie, interventi armati sulle aie, provocazioni, bastonature, danneggiamenti di colture, distruzione prodotti, aggressioni ecc..; questi i metodi sistematicamente adottati contro i lavoratori e i loro dirigenti per ostacolare il movimento contadino nella Provincia e per scoraggiare le forze politiche di sinistra che lo sostenevano. In alcuni casi si giunse all’estremo più grave: l’assassinio.

Nel 1946, l’anno in cui la vita democratica riprese nel pieno delle sue forme con le prime elezioni politiche e amministrative, si registrarono in provincia di Agrigento tre gravissimi delitti di indubbia natura politica e di altrettanto indubbia impronta mafiosa: il tentato omicidio del segretario della Camera del Lavoro di Burgio, Antonino Guarisco  (3 febbraio  ’46); l’omicidio del sindaco  socialista di Naro, Pino Camilleri (28 giugno 1946); l’omicidio del vice sindaco  socialista di Favara, Gaetano Guarino (14 luglio 1946).

Nell’attentato di Burgio rimase uccisa una donna incinta. Di nessuno dei tre delitti sono stati scoperti gli autori.

Ma la mafia agrigentina stava organizzando un delitto destinato ad assumere un rilievo e un significato politico più ampio.

Nei primi dell’anno successivo il 14 gennaio ’47 viene ucciso a Sciacca il Segretario di quella Camera circondariale del Lavoro: Accursio Miraglia.

Il delitto destò enorme indignazione.  La vittima era una personalità conosciuta e popolare anche al di fuori del Comune, nella provincia e nella regione.

Egli aveva diretto l’azione dei contadini che reclamavano in base alle leggi Gullo, la concessione di estesi possedimenti latifondistici mal coltivati gestiti da gabellotti mafiosi in tutto il circondario del Tribunale di Sciacca (presso ogni tribunale esisteva allora, come è noto, una commissione per l’assegnazione delle terre).  Bisognava infliggere un colpo al movimento dei contadini di Sciacca, Ribera, Menfi, S. Stefano, Bivona, S. Margherita, Sambuca ecc., come dire una delle zone più avanzate di tutto il movimento contadino siciliano dove Miraglia rappresentava l’animatore e l’uomo di punta.

Dopo l’attentato di Villalba a Li Causi, era questa la più grave sfida al movimento contadino e democratico di sinistra.  I contadini  dell’agrigentino erano decisi a passare a rappresaglia di massa contro gli agrari e contro i gruppi mafiosi della provincia responsabili materiali e morali dell’assassinio di Miraglia e dei precedenti delitti; e fu con grande senso di responsabilità e dando prova di grande capacità politica e organizzativa che i sindacati e i partiti dei lavoratori riuscirono ad incanalare la protesta entro i termini di una possente e democratica pressione popolare rivolta ad ottenere dal nuovo Stato repubblicano che aveva dato ai contadini nuove leggi per la terra, giustizia nei confronti di quelle forze del feudo e della mafia che per ostacolarne  l’applicazione non esitavano a ricorrere all’assassinio.

Una esemplare condanna avrebbe significato una completa saldatura nell’azione del nuovo Stato, l’impunità degli assassini sarebbe stato invece la prova che nulla era mutato, ma che anzi nei momenti decisivi, lo Stato assumeva lo stesso volto che sempre nella nostra provincia i contadini e il popolo avevano conosciuto.

Come sempre avviene nei delitti di mafia, i nomi dei mandanti e degli esecutori materiali erano facilmente individuabili (se non lo fossero del resto, il delitto di mafia perderebbe gran patte della sua efficacia intimidatoria).

Poco dopo il delitto, per la prima volta in un caso del genere, la polizia riuscì a condurre in porto le indagini identificando e arrestando non solo i presunti autori ma anche i mandanti del crimine (fu una delle prime esperienze del Commissario Tandoj all’inizio della sua carriera).  Questi però furono successivamente assolti essendosi ritenute le confessioni rese all’autorità inquirente estorte con la violenta e pertanto a loro volta gli inquirenti furono sottoposti a procedimento penale.  Senonché anche questo procedimento penale si concluse con un’assoluzione.  Il caso è dunque ancora aperto dato che ci si trova dinnanzi a due sentenze tra loro in aperta contraddizione.

Ma nonostante le ripetute e autorevoli sollecitazioni, la competente autorità giudiziaria non ha mai provveduto a rinnovare il procedimento a carico delle persone accusate dell’omicidio.

Chi sono costoro?  Quale organizzatore del delitto la polizia indicò tale Camelo Di Stefano nativo di Favara.  Costui viene oggi considerato dalla voce pubblica come il capo della mafia di Sciacca e dintorni.

Un suo fratello a nome Giovanni è considerato come uno dei capi mafia di Favara. Un terzo fratello fu tempo fa ucciso, sempre a Favara.  Il suo assassino fu a sua volta ucciso e il Carmelo Di Stefano fu sospettato di quest’ultimo delitto.  Giunto a Sciacca senza personali basi di fortuna egli è diventato nel giro di pochi anni una delle persone più facoltose della città.  All’epoca dell’assassinio del sindacalista Accursio Miraglia era amministratore dei possedimenti agricoli del latifondista Enrico Rossi.

Arrestato sotto l’accusa di correità nel delitto fu scagionato, una prima volta dopo aver presentato un alibi basalo su un certificato medico rilasciato dal dott. Raimondo Borsellino dell’Ospedale di Sciacca (successivamente eletto deputato nella lista della DC).  Fu poi di nuovo arrestato e ancora rilasciato questa volta, a quanto si dice, per intervento dell’ispettore di P.S. Messana.

Da allora le fortune personali di Carmelo Di Stefano sono salite alle stelle: appaltatore di lavori pubblici, proprietario di macchine per costruzioni stradali (è fra l’altro l’appaltatore consuetudinario della manutenzione del tratto Ribera-Sciacca-Menfi), costruttore di palazzi a Sciacca, titolare di crediti bancari.  Gode di altolocate amicizie politiche fra cui l’on. le Gaetano Di Leo che egli appoggia calorosamente nelle campagne elettorali.

La pubblica opinione fra gli attuali capi di mafia di Sciacca indica anche Francesco Segreto che fu arrestato (e poi scagionato) assieme a Carmelo Di Stefano sotto l’accusa di concorso nell’omicidio di Accursio Miraglia.  Anche il Segreto ha ora raggiunto una considerevole posizione economica personale pur partendo dalla modesta condizione di autista di piazza.  Proveniente da una famiglia di noti mafiosi (il padre fu condannato all’ergastolo (poi graziato) il Francesco Segreto, dopo l’episodio Miraglia, si occupò attivamente di compra-vendita di terre per le più soggette alla riforma agraria lucrando nella intermediazione e accumulò così un notevole patrimonio.

Da circa tre anni si è trasferito a Palermo dove ufficialmente si occupa di compra-vendita di automobili usati.  Dalla capitale dell’Isola si reca però frequentemente a Sciacca dove si incontra col Di Stefano e con altri.  Nelle campagne elettorali appoggia anche lui l’on. le Di Leo e i candidati della sua corrente.

Le prime indagini della polizia sul delitto Miraglia indicarono come uno degli esecutori materiali tale Marciante Pellegrino da Caltabellotta, anche egli successivamente scagionato.  Uomo senza professione ormai in precarie condizioni di salute, continua a vivere ozioso e tranquillo grazie a redditi economici di ignota provenienza.

Un altro degli imputati, infine, tale Gurreti, proprio nel periodo successivo all’approvazione della legge istitutiva dalla On. le Commissione Parlamentare cui il presente memoriale è indirizzato, è pacificamente emigrato in America.

A molti anni di distanza un altro delitto che presenta molte analogie con l’assassinio di Miraglia, anche se ebbe minore ripercussione politica, ebbe luogo a Lucca Sicula dove il 27 settembre del 1960 fu ucciso con due fucilate a lupara il Segretario di quella Camera del Lavoro Paolo Bongiorno.

La vittima di questo delitto era un onesto lavoratore, da tutti stimato, e un valoroso dirigente sindacale.  Proprio in quei giorni era stato incluso quale candidato nella lista del P.C.I. per le imminenti elezioni amministrative.  La lista contrapposta era formata dalla unione della DC con il MSI. Gli assassini, non sono stati mai scoperti.

L’assassinio di Accursio Miraglia e le vicende giudiziarie che ne seguirono costituiscono un momento importante nella vita politica della Provincia.  La mafia si ripresenta nella scena politica con un atto così clamoroso, nel momento che ritiene più opportuno, non solo mantenendo la vecchia funzione di guardiana del feudo, ma affermando di essere pronta ad assumere le nuove funzioni di collaborazione con le forze dello Stato secondo i nuovi indirizzi di Governo che ormai maturano nella situazione nazionale e internazionale.  Siamo alla vigilia della rottura dell’Unità antifascista e del 18 aprile 1948.

Già nelle grandi lotte e scioperi popolari dell’autunno e inverno del ‘47-48 la mafia interviene in funzione di provocazione nei confronti dei lavoratori e di appoggio e collaborazione alle forze di polizia.

Il 21 dicembre 1947 a Canicattì e Campobello la mafia e la polizia sparano sui lavoratori (3 morti a Canicattì e 1 a Campobello).  Alla repressione seguono i processi a carico dei lavoratori, uomini della mafia testimoniano contro i lavoratori. Il cosiddetto senso dell’onore mafioso e dell’omertà non opera in questa occasione!

Ormai la mafia non ha più dubbi, ha fatto la sua scelta politica, ancora una volta chiederà impunità, favori, ed illeciti arricchimenti e li otterrà in misura mai in passato verificatisi.

L’occasione è particolarmente favorevole.

La rottura verticale della situazione politica nazionale,  l’instaurazione  della discriminazione politica tra i cittadini, il monopolio del potere da parte di un solo partito, l’esercizio  sfrenato del sotto Governo hanno costituito per la mafia una delle occasioni  storiche della quale non ha mancato di approfittare specialmente nella provincia di Agrigento dove il suo appoggio poteva venire  considerato nell’ambito  del partito governativo, da chi ne aveva voglia o interesse,  decisivo per almeno contenere l’avanzata  delle forze  popolari.

In conseguenza e parallelamente allo spostamento verso il partito della DC a partire dal 1948 e per oltre un decennio si verifica una progressiva infiltrazione della mafia in quasi tutte le attività economiche della provincia e nei gangli amministrativi e politici.  Ma il fenomeno non si sviluppa pacificamente: insorgono contrasti a volte violentissimi fra gruppi concorrenti alla scala tanto locale che provinciale.

Accanto ai delitti di ogni genere (furti, danneggiamenti, estorsioni, rapine, sequestri di persona, omicidi e ferimenti) a danno di pacifici cittadini si moltiplicano cosi i delitti causati dalle interne rivalità.  (1)

In questo quadro si collocano un gruppo di gravissimi delitti che per le loro modalità e per la personalità delle vittime non hanno riscontro in nessun’altra provincia siciliana.  Ci riferiamo ai quattro ragguardevoli  esponenti della Democrazia Cristiana uccisi in circostante ancora misteriose nella provincia di Agrigento: l’avv. Vincenzo Campo, segretario regionale della D.C. e candidato alle elezioni per la Camera, fulminato a colpi di mitra al confine della provincia il 22 febbraio 1948 mentre percorreva  la strada Alcamo-Sciacca su un  furgoncino pilotato dal figlio che rimase anch’egli ferito; Eraclide Giglio di 74 anni, sindaco di Alessandria della Rocca, candidato alle elezioni regionali, ucciso l’8 maggio 1951 sulla soglia della sua casa; Vito Montaperto di 27 anni, segretario provinciale della D.C., ucciso nei pressi di Palma Montechiaro mentre viaggiava su una macchina in compagnia degli on.li Di Leo e Giglia; Giovanni Guzzo, vicesindaco di Licata freddato con tre colpi di pistola il 18.1.1955 dentro i locali del Consorzio Agrario di quella città.  Anche per questi gravissimi delitti le indagini della polizia non hanno approdato ad alcun risultato.

Tutto lascia pensare che un meditato riesame dei relativi fascicoli possa suggerire una serie di illuminati filoni da seguire in vista di una più approfondita conoscenza del fenomeno mafioso quale si manifesta nella provincia di Agrigento.  E ciò, sia considerando le possibili causali della loro soppressione che la personalità delle vittime.

A parte l’avv.  Campo, che era originario di altra provincia e veniva alla politica dopo essere stato organizzatore e dirigente dell’Associazione Cattolica, gli altri tre esponenti della D.C. uccisi erano tutti e tre di indubbia appartenenza al mondo mafioso.

  • Eraclide Giglio, sindaco di Alessandria della Rocca, era un vecchio autorevolissimo capo mafia della zona. Nei primi anni del dopoguerra sosteneva la Democrazia del Lavoro, finché questo movimento politico non arrivò a disgregarsi. Passò allora alla D.C., ma mai fino al 1951 si era esposto in una campagna politica al di fuori dell’ambito assolutamente sicuro del suo Comune.  A quanto pare la sua candidatura, quale diretto esponente della mafia, fu decisa e imposta dalla DC nel corso di una riunione di capi mafiosi svoltasi in una chiesa di Aragona nella primavera del ’51.  La sua elezione veniva data per certa e solo la sua eliminazione lasciò libero ad altri il posto che gli era predestinato all’Assemblea Regionale.È interessante notare che le indagini sul delitto furono svolte dal Commissario Tandoj il quale era riuscito ad identificare i materiali esecutori, ma non fece in tempo ad arrestarli perché i due – sicari ingaggiati in un altro comune – sospettati furono trovati a loro volta uccisi.  C’è da chiedersi a questo punto se le indagini della polizia si arrestarono di fonte a quei due nuovi cadaveri o se proseguirono, e con quale esito, in direzione dei mandanti e del movente.
  • Vito Montaperto, segretario provinciale della Democrazia Cristiana, apparteneva ad una famiglia di Campobello di Licata notoriamente mafiosa.  Suo padre, che era considerato il capo mafia della zona, fu ucciso per mano di tale Gaetano Vella finito poi in manicomio.  Al momento della inumazione della salma del Montaperto padre, si verificò un episodio che tinge di grottesco il tragico susseguirsi delle vicende che stiano esponendo: il loculo destinato al Montaperto nel cimitero di Campobello di Licata fu trovato occupato da una salma estranea che si scoperse essere quella del noto latifondista Saeli sottratta tempo prima dalla tomba di famiglia a scopo di ricatto e di intimidazione.  Anche della singolare vicenda della salma trafugata si era a suo tempo occupato il commissario di P.S. Tandoj. Un fratello del Vito Montaperto, a nome Calogero, per avere ucciso a sangue freddo un bracciante per una questione di precedenza in un locale pubblico, ha fatto alcuni anni di carcere.  Tornato in libertà è attualmente considerato un elemento fra i più autorevoli nell’ambito della mafia.  Nonostante i suoi precedenti penali gestisce appalti ferroviari di una certa mole.Vito Montaperto, divenne segretario provinciale della DC in sostituzione del suo predecessore e compaesano, l’avv. Luigi Giglia, che era riuscito a farsi eleggere deputato al posto dell’on. Gaspare Ambrosini, attuale Presidente della Corte Costituzionale, cui nulla era valsa l’altissima dottrina e la personale probità di fronte alle altre attitudini del suo giovane competitore. Anche a proposito dell‘uccisione di Vito Montaperto è interessante notare che delle relative indagini si occupò il Commissario di P.S. Cataldo Tandoj, senza però approdare a nessun concretoEgli a quanto pare riuscì ad identificare i misteriosi banditi che la sera del 14 settembre fermarono nei pressi di Palma Montechiaro la macchina sulla quale il giovane segretario della DC agrigentina rientrava assieme agli on.li Di Leo e Giglia da Gela dove i tre avevano reso visita all’on.le Aldisio.  Com’è noto costretti i tre viaggiatori a faccia a terra un solo colpo partì dalla pistola di uno dei banditi che trapassò il collo della vittima fulminandola.

    Sull’episodio il Commissario Tandoj ebbe occasione di interrogare i compagni di viaggio dello assassinato, ma non si è mai saputo quali concreti elementi utili ai fini delle indagini egli abbia raccolto.

  • Anche la terza vittima della serie, Vincenzo Guzzo, era considerato fra le personalità più in vista della mafia di Licata nel cui seno, negli anni seguenti si scatenarono sanguinose lotte nel corso delle quali furono trucidati molti altri esponenti di primo piano (Lauria, Antona, La Rocca).Vincenzo Gusto era Vice-Sindaco di Licata, agente del locale Consorzio agrario, Presidente dell’Unione Provinciale delle Cooperative. Il suo passato era burrascoso.  Era anche emigrato clandestinamente in America.L’esecutore materiale fu visto da parecchi testimoni però le indagini della polizia non andarono a fondo, affidate come furono al solito commissario Tandoj.Guzzo fu assassinato  alla vigilia delle elezioni del ’55, egli era uno dei possibili candidati della DC con probabilità di riuscire data l’antica aspirazione municipalistica del grosso centro di Licata, e i legami che aveva con Organizzazioni di carattere provinciale.  Fu ucciso mentre esplodeva la crisi tra due frazioni democristiane al comune di Licata.  Era collegato alle vicende della forte pressione mafiosa sui mercati del pesce e soprattutto sui mercati ortofrutticoli (Licata è un centro di larga produzione di piselli primaticci per un valore annuo di alcuni miliardi).  Fra le carte rimaste nella scrivania di casa sua fu trovato l’inizio una lettera così concepita: “Caro Presidente, gli amici dell’altra sponda mi minacciano, non so come comportarmi”.  Quando fu ucciso era armato di pistola con il proiettile pronto per sparare.

 

Agli episodi fin qui ricordati vanno aggiunti quello non meno misterioso e generalmente dimenticato dei quattro colpi di pistola sparati pure nel 1953 e andati fortunatamente a vuoto, contro la macchina su cui viaggiava l’on.le Raimondo Borsellino (DC) già ricordato a proposito del delitto Miraglia, sulla strada fra Ribera e Montallegro; e quello recentissimo verificatosi nel corso della ultima campagna elettorale nazionale (1963) allorché il sig. Gaetano Cavalcanti, venuto a Ravanusa per un giro di propaganda elettorale venne aggredito nella casa dove aveva stabilito il suo domicilio a colpi di pistola.  Si salvò soltanto per la sua presenza di spirito.  Il Cavalcanti, che è stipendiato dalla TETI (Azienda Telefonica) di Roma come impiegato, ma che in realtà funge da segretario dello on. le Sinesio venne aggredito, secondo il convincimento generale, da un gruppo di mafiosi locali sostenitori di un altro candidato democristiano.

 

 

LA MAFIA E I PARTITI POLITICI

Le caratteristiche di questi delitti, per la personalità delle vittime, per le modalità di esecuzione, per il tipo di indagini cui diedero luogo, per l’omertoso riserbo dal quale furono accolti nelle sfere ufficiali del partito a cui le vittime appartenevano e che è il partito che ininterrottamente ha governato il paese, hanno suscitato e suscitano molti interrogativi.

Come mai esponenti di famiglie notoriamente mafiose e mafiosi essi stessi sono giunti a così alte cariche provinciali e comunali negli Enti pubblici e nelle Organizzazioni di Partito che generalmente preludono almeno alle nostre provincie ad una investitura parlamentare?

Fra quelli che non sono stati uccisi, e sono rimasti vivi e vitali a dirigere municipi, amministrazioni Provinciali, partito e sono stati e sono attualmente parlamentari regionali e nazionali ce ne sono che hanno la stessa formazione e origine dei 3 esponenti assassinati?

Da quali ambienti familiari e sociali emergono ad esempio i due onorevoli, compagni dell’ultimo viaggio dello sfortunato Vito Montaperto?

Chi sono coloro che direttamente o indirettamente si sono avvantaggiati politicamente e personalmente di questi delitti?

La verità è che la mafia della provincia di Agrigento ha chiesto ed ha ottenuto dal Partito di Governo il prezzo più alto che poteva chiedere.

Non si è limitata cioè come altrove, come si direbbe nel gergo politico odierno ad un “condizionamento” o ad un “appoggio esterno», ma ha preteso ed ottenuto la partecipazione diretta al potere politico, l’inserimento organico dei suoi uomini nel tessuto e nelle strutture del partito democristiano, nelle Amministrazioni pubbliche, nelle rappresentanze elettive ad ogni livello.

Con ciò noi non diciamo che tutti gli esponenti della DC sono mafiosi.  Noi affermiamo responsabilmente che la mafia si è inserita organicamente nella D.C., che di questo inserimento ne hanno fatto le spese non solo i lavoratori, il popolo e l’amministrazione della cosa pubblica della provincia, ma che anche lo stesso partito democristiano è stato costretto a pagare un altissimo prezzo.

La stessa lotta democratica fra le correnti all’interno dalla DC ne è stata stravolta.

La Moneta cattiva scaccia la buona, dice una nota legge economica.  La liquidazione dalla rappresentanza democristiana al Parlamento Nazionale di una personalità di altissimo rilievo come l’on.le Gaspare Ambrosini che aveva degnamente rappresentato in Parlamento e poteva rappresentare in futuro degnamente nel Governo dello Stato, la Provincia e la Sicilia, costituisce un duro prezzo pagato allo ingresso  sulla scena politica di  forze di ben minore levatura morale-culturale,  ma di più concreto aggancio alla situazione della provincia e più collegate agli “amici” di altre provincie. E quanti altri come lui, ai vari livelli della vita pubblica della provincia hanno dovuto lasciare il campo?

L’intervento delle cosche mafiose trasforma la lotta delle correnti.  Ben poche differenze esistono a livello comunale tra i seguaci dei due gruppi politici d.C. importanti della provincia facenti capo all’on. La Loggia da un lato e dagli onn.li Di Leo e Giglia dall’altro. Questa situazione logora anche coloro che senza essere diretta espressione di forze e interessi mafiosi hanno dovuto adattarsi a lotte e compromessi tali da appannare l’entusiasmo derivante dal collegamento con correnti più avanzate del pensiero politico e sociale cattolico, e perfino in coloro che sono espressione delle organizzazioni cattoliche dei lavoratori della provincia e della Regione.

Va doverosamente aggiunto a questo punto che cosi come non tutti gli esponenti democristiani della nostra provincia sono mafiosi o legati alla mafia, è anche vero che non solo il partito della D.C. ma anche altri partiti politici di destra sono oggetto di infiltrazioni mafiose, anche se in misura più limitata stante anche la loro ben minore consistenza. Fra questi il M.S.I. sia per il persistere in esso di certe tradizioni politiche locali (movimenti trasformistici facenti capo ad Abisso), sia per la prolungata partecipazione di suoi esponenti ai Governi regionali (specialmente nel settore dei rimboschimenti), sia per la personale origine di alcuni suoi esponenti. Lo stesso vale per altri schieramenti di destra attraverso i quali però a volte si esercitano influenze mafiose facenti capo ad altre provincie (per esempio per certe formazioni locali del PLI).

Va notata infine la parte avuta dalla mafia nel declino del movimento milazziano della nostra provincia nel senso di avere attivamente favorito il distacco delle componenti opportunistiche e di potere del Movimento dalle genuine istanze popolari di rivolta autonomistica, ricomponendole nell’ambito della D.C. e di altri partiti di destra.

La presenza della mafia ha pesato poi in modo grave sullo sviluppo e l’azione dei partiti dei lavoratori ed in particolar modo del Partito Comunista Italiano che si sono posti sempre e risolutamente contro di essa nel corso della lotta contro il feudo e Ie strutture sociali arretrate della nostra provincia.

I componenti della On.le Commissione Parlamentare di Inchiesta si renderanno facilmente conto di quanto sia stata e sia dura e difficile la posizione di centinaia e migliaia di dirigenti e militanti, operai e contadini che ormai da due decenni conducono le lotte politiche, sindacali,  amministrative  difficili ovunque, in una situazione avvelenata dalla presenza della mafia.

Questa presenza ora diretta e brutale fino all’assassinio, ora intimidatoria, corruttrice e ricattatoria tendente ad allontanare dai loro posti di lotta dirigenti e militanti, l’intervento della mafia a sostegno di una politica antipopolare e reazionaria, non ha impedito alle forze del lavoro di condurre, le loro battaglie, non ha impedito le notevoli avanzate elettorali della sinistra e del PCI in modo particolare, anche se ha reso più difficile e penosa la situazione e lo sviluppo di un movimento articolato e moderno, e ha ulteriormente deteriorato i rapporti tra le forze politiche della provincia concorrenti ed antagoniste.

La costituzione della Commissione Parlamentare di Inchiesta sulla mafia ha suscitato perciò nella nostra provincia grandi aspettative e speranze.

Il fatto che dopo tante difficoltà ed opposizioni sia finalmente entrata in funzione, corona tanti anni di lotte e di sacrifici ed è di per sé stesso indice di importanti cambiamenti nella situazione politica nazionale e regionale, dell’affermarsi, sia pure attraverso contrasti e resistenze di diversi orientamenti in tutti i campi della vita politica e sociale.

Riteniamo che oggi sia interesse di tutte le forze politiche nazionali e non solo dei partiti dei lavoratori, porre fine alla penetrazione della mafia nel campo della politica, diventata per molti aspetti pericolosa, compromettente e controproducente anche per coloro che dovrebbero beneficiare del suo apporto.

 

******

 

nota (1) a pag.13

L’Onorevole Commissione di inchiesta sarà certo in possesso delle più vaste e dettagliate statistiche sull’andamento della criminalità nella provincia di Agrigento; ci limitiamo pertanto a sottolineare due dati parziali fra i più indicativi raccolti nel corso della compilazione del presente memoriale

  1. Delitti consumati nell’intera provincia di Agrigento negli anni 1954-38:

Omicidi                               N.          183
Tentati omicidi                                 224
Rapine                                                110
Tentate rapine                                   20
Estorsioni                                             22
Tentate estorsioni                          116
Sequestri                                                6
Abigeati e furti aggravati             2753
Incendi                                                354
Associazione a delinquere               22
Una minima parte dei responsabili di tali delitti sono stati identificati e puniti.

Il fenomeno appare ancora più pauroso se si considera che la popolazione stabile della provincia supera appena le 400.000 unità e se si considera altresì che l’attività delle cosche maliose non va considerata come frutto di una serie di iniziative frammentarie e disarticolate, ma invece, il risultato di azioni e piani concertati su vasta scala e portate a termine grazie a collegamenti capillari e prestazione tra mafie di vari centri urbani.

  1. B) – Nel solo piccolo comune di Lucca Sicula fra il 1945 e il 1959 sono stati consumati 14 omicidi. Dei relativi procedimenti penali ben 12 sono stati archiviati con la formula “ad opera di ignoti”. Si è proceduto contro gli autori dei restanti due perché costituitisi spontaneamente alle autorità. Lo elenco dettagliato di tali omicidi è riportato dal periodico “La Strada” di Sciacca.

 

*****

 

LA PENETRAZIONE DELLA MAFIA NELLA STRUTTURA ECONOMICO-SOCIALE DELLA  PROVINCIA.

La provincia di Agrigento è una provincia depressa, prevalentemente agricola.  La Mafia agrigentina affonda le sue radici storiche, come altrove, nelle strutture agrarie e parassitarie del feudo (e nello sfruttamento altrettanto parassitario ed arretrato delle miniere di zolfo).

La crisi dell’agricoltura e la riduzione del latifondo, operata con la legge di Riforma Agraria avrebbero dovuto ridurre con le fonti di arricchimento anche la capacità di manovra e di dominio della mafia e quindi la portata stessa del fenomeno.  Da questa deduzione partono coloro che, spesso tendenziosamente e per scoperti fini, affermano che la mafia ormai esiste soltanto nelle grandi città (Palermo in special modo) e che è o eliminata o in fase di eliminazione, nelle zone agrarie interne.

Lo on. Bonfiglio, per esemplo, in una dichiarazione riportata dal quotidiano milanese “II Giorno” del 5 luglio 1963, ha sostenuto che il fenomeno attuale è circoscritto a Palermo intorno alle strutture economiche della città, che è una grossa città di consumi e basta.  Per andare a fondo del problema, occorre proprio di disgelare i monopoli nel settore dei consumi.

Purtroppo la verità, è invece ben diversa.

La mafia come forza di arricchimento illecito e parassitario, come forza di soggiogamento e comunque di contenimento delle grandi masse di contadini e di lavoratori, come forza politica operante in collegamento e a sostegno degli aspetti più retrivi della politica governativa, ha avuto la opportunità e la capacità nella nostra provincia di padroneggiare la situazione conservando le vecchie forme di dominio e di arricchimento dove potevano essere conservate inserendosi nei processi economici in corso e nelle nuove strutture amministrative e sociali, tutto utilizzato ai propri fini di arricchimento illecito e di dominio.

Ciò ha portato non ad una riduzione ma ad un aumento delle fonti di arricchimento e di potere della mafia, ad un affinamento delle sue capacità diciamo così “politiche”, senza perdere le caratteristiche di violenza di sopraffazione, e di violazione sistematica delle leggi e dei diritti altrui e l’effetto di costituire un ‘insostenibile handicap sulla via dello sviluppo economico e sociale della provincia.

La mafia si è inserita cosi nel processo di erosione del feudo, nella ondata delle vendite delle terre e nell’azione dell’Ente di Riforma Agraria, ha fornito i “quadri” per l’organizzazione  della Federconsorzi,  delle mutue dei coltivatori, dei consorzi di bonifica,  si è sviluppata nelle zone costiere in via di trasformazione agraria in mafia dell’accaparramento dei pregiati prodotti ortofrutticoli primaticci, attraverso appalti e subappalti ha monopolizzato  gli scarsi investimenti di lavori pubblici della regione e dello Stato, ha controllato il collocamento della mano d’opera direttamente o indirettamente attraverso la sua influenza  sugli uffici di collocamento, sui cantieri di rimboschimento e di lavoro, banche, uffici amministrativi  di ogni genere, ispettorati agrari ecc., sono state sottoposti ad una continua  pressione.

Cercheremo di dare, nelle pagine seguenti, un breve e sintetico quadro delle fonti di arricchimento di potere economico e sociale della mafia cosi come in questo ultimo quindicennio si sono configurate

 

La mafia e il feudo

La mafia non abbandona prima di tutto la grande proprietà assenteista, il feudo dove è nata e si è affermata.  Le grandi proprietà sfuggite alla riforma agraria e rimaste in mano agli agrari costituiscono ancora il dominio della mafia dei gabellotti, dei soprastanti e dei campieri.

Anche se il loro numero e la loro estensione totale sono limitati, ancora pesante è la loro negativa presenza per quello che questi veri e propri centri di potere mafioso rappresentano in danno delle aziende contadine circostanti e dello sviluppo dell’agricoltura della provincia.

Se l’Onorevole Commissione vorrà assumere, nel corso delle sue indagini, informazioni sulla personalità degli attuali campieri, sovrastanti amministratori e gabellotti della grande proprietà agraria della provincia di Agrigento, si troverà davanti ad un lungo elenco di mafiosi a pregiudicati.

Si troverà davanti a personaggi come i fratelli Vincenzo e Antonino Ferraro (quest’ultimo recentemente arrestato), “amministratori” rispettivamente dei feudi Gibbesi (Butera) di proprietà del comm. Gangitano Luigi e Brucoli (Canicattì) di proprietà del barone La Lumia Nicolò; come il pregiudicato Ingoglia Giuseppe da Campobello sovrastante del feudo Polizzello di proprietà del conte Gaetani, come Calogero Rizzo capomafia di Calamonaci, campiere dell’on. Di Leo e così via dicendo.

Si troverà davanti a episodi di lotta interna tra i vari gruppi di mafia per il dominio della terra come quelli verificatesi nel feudo Spagnolo in territorio di Campobello.  Si troverà davanti a rapporti tra la mafia del feudo e commercianti di bestiame, rapporti che si infittiscono e diventano più organici proprio nelle zone dove più ampia diffusione ha l’abigeato come nel territorio di Menfi, Montevago, Sambuca e Santa Margherita dove si contano a migliaia i capi bovini e ovini rubati in questi ultimi anni.

Si troverà davanti, ancora nel 1963, ai vecchi e tradizionali aspetti della mafia agraria dalle conseguenze essenziali per ogni progresso e sviluppo della agricoltura.

“I frequenti abigeati verificatisi nel comune di S. Margherita, ad es., hanno scoraggiato sensibilmente la popolazione tutta e fra questa particolarmente coloro che avendo in animo di trasformare le aziende agricole in aziende zootecniche sono costretti a desistere per timore di vedersi rubato il bestiame. Ciò con grave nocumento della zona costretta ad abbandonare le colture granarie per la grave crisi e impossibilitata a dedicarsi all’allevamento del bestiame per il timore delle troppo frequenti scorrerie”.

E questo vale per larghe zone della provincia e rappresenta un ulteriore aggravamento della già critica situazione dell’agricoltura.  Malgrado gli obblighi di trasformazione sanciti dalla legge di R.A., malgrado gli incentivi del Piano Verde la grande proprietà della nostra provincia nella quasi totalità dei casi non solo si dimostra incapace di trasformarsi in senso moderno, ma costituisce un bubbone che infetta tutto il tessuto economico circostante.

 

 

L’azione della mafia e l’erosione del feudo.

Nella nostra provincia sono stati espropriati con la legge regionale di Riforma Agraria 11.780 ha. di terreno  (assegnati 9.933) e sono stati trasferiti con la legge della piccola proprietà contadina altri 24.012 ettari di terra.  In complesso circa il 12% della superficie agraria e forestale della provincia.

Questo notevole trapasso di proprietà è avvenuto per la spinta delle lotte contadine di questo dopoguerra che hanno portato all’approvazione delle varie leggi di riforma Agraria, ma esso non è avvenuto sotto il controllo e l’iniziativa dei contadini (come il processo di assegnazione delle terre incolte) ma attraverso lunghe ed interminabili pratiche burocratiche che permettevano ai proprietari di vendere le loro terre per sfuggire agli espropri e alle  trasformazioni agrarie e  fondiarie previste dalla legge regionale.

Quasi dovunque i gruppi mafiosi si intromisero nelle relative operazioni imponendo alle parti esose percentuali di intermediazione e riservandosi per lo acquisto diretto alle più favorevoli condizioni le porzioni più fertili dei terreni posti in vendita. In molti casi sono insorti contrasti violenti all’interno della stessa mafia con esplosioni di sanguinosa violenza.

L’intervento nelle operazioni di vendita delle terre costituisce infatti uno dei momenti più notevoli dell’arricchimento e del potere mafioso.

Il mafioso, o i gruppi, di mafiosi che dirigono una operazione di compra-vendita di terra hanno innanzi tutto un enorme potere sui contadini che hanno bisogno della terra (la gran parte delle vendite avvenne tra il 49 e il ’51, anni in cui questo bisogno si manifestava in forme più acute).

 

È il momento in cui i Mafiosi possono cacciare in tutto o in parte gli attuali coltivatori a titolo precario delle terre poste in vendita (e spesso si è trattato di soci di cooperative che avevano avute assegnate le terre nell’immediato dopoguerra), assegnano le quote e fissano i relativi prezzi in modo che paternalismo ed intimidazione opportunamente dosati servissero a tenere a bada la grande massa degli acquirenti che devono pagare tutte le spese dell’operazione comprese le quote più ampie che i mafiosi riservano a se stessi e agli amici.  È il momento delle trattative con i padroni delle terre (e dell’allontanamento di ogni rivale e concorrente) delle vertiginose operazioni bancarie di finanziamento e pre-finanziamento (che si concludono spesso in operazioni usurarie verso i contadini) delle perizie tecniche compiacenti, degli acquirenti prestanome, dei doppi contratti, dei certificati di coltivatori diretti rilasciati a chi esercita tutt’altra professione.

Un esempio recentemente venuto alla luce ha mostrato la capacità della mafia ad utilizzare tutte le possibilità offerte dalle leggi agrarie vigenti, a strumentalizzare gli istituti bancari pronti ad accordare con sollecitudine a grandi esponenti della mafia quello che viene negato sistematicamente ai contadini. Intendiamo alludere all’operazione di vendita del fondo Garziani in territorio di Canicattì, che ha avuto per protagonisti il capo mafia Diego Gioia in atto confinato per 4 anni, e come degno socio Giuseppe Genco Russo, i quali per dichiarazione dello stesso Gioia si sarebbero avvalsi nell’operazione del consiglio e dello aiuto dello stesso commissario Tandoj.

È il momento del consolidamento del patrimonio e del prestigio del mafioso che oltre agli evidenti benefici economici riesce a dare prova del suo potere agli avversari ed agli amici e a stabilire un nuovo legame di dipendenza fino a che le rate non saranno pagate nei confronti dei contadini acquirenti.  Tutto ciò si svolge in un clima di tensione che genera contrasti violenti che sono alla radice di numerosi delitti che hanno insanguinato la provincia.

A Raffadali, ad esempio, nel 1948-49 viene posto in vendita il feudo S. Giorgio.  Delle transazioni si occupa il mafioso Stefano Tuttolomondo inteso “Giurlo” che, però, contravviene alle “regole* della mafia e realizza profitti esclusivamente personali. “Ciurlo” viene ucciso in circostante drammatiche e quale mandante viene indicato Nino Galvano, detto “Zarbo”, che però non viene arrestato.

Attorno al 1931 viene venduto il feudo Salice.
Della transazione si occupa Gerlando Milia che, avendo anch’egli perseguito fini personali, viene ucciso l’8 dicembre 1951 in piena piazza.

Successivamente, sempre per motivi connessi alla compravendita dei feudi cadono Nino Galvano e un altro noto mafioso inteso “Piriano”.

Questa terribile catena di delitti rimane “senza firma”: esecutori e mandanti non vengono scoperti. Delle indagini, all’epoca si occupò il commissario Cataldo Tandoj, ma senza conclusione giudiziaria.

Solo di recente, allorché furono riprese le indagini sul caso Tandoj, sono stati arrestati un certo numero di mafiosi raffadalesi.  Tra essi vengono indicati gli uccisori del commissario Tandoj.

Quanto ha lucrato l’intermediazione mafiosa nella vendita di oltre 24.000 ettari di terra avvenuta nella nostra provincia?

Quale aliquota delle terre trasferite sotto la egida della legge sulla formazione della proprietà contadina è andata effettivamente ai contadini?

Non possiamo dare una precisa risposta.  È certo però che i contadini hanno pagato le terre a prezzi che vanno da un minimo di tre volte fino a 5 e 6 volte e più il prezzo stabilito dalla legge di riforma Agraria.

Si tratta di somme astronomiche e favolose per la modesta economia agricola della nostra provincia e per gli ancora più modesti bilanci dei nostri contadini, si tratta di oltre 6 miliardi che sono andati a locupletare agrari, mafiosi e favoreggiatori di ogni specie e che ancora pesano aggravati di interessi  spesso usurai sulle spalle delle proprietà coltivatrice nata male e vissuta anche peggio.

 

 

LA MAFIA E L’ERAS

Esiste e si va formando già un giudizio generale sull’ERAS che ormai si basa su documenti ufficiali, dall’inchiesta Terra ordinata dal Governo Milazzo all’ultima relazione degli attuali commissari straordinari dell’ERAS.  In questo quadro generale d’improvvisazione, di incapacità, di impotenza, di favoritismo e di corruzione (voluta da coloro che erano interessati al fallimento della Riforma Agraria) quale si va delineando attraverso i documenti che abbiamo citato e le inchieste dei sindacati e delle organizzazioni contadine, i dibattiti all’ARS e sulla stampa, la mafia ha trovato nella nostra provincia la possibilità di inserire le sue manovre abituali.

Appalti e subappalti di opere andate in rovina prima ancora di essere completate (come altre molte case degli assegnatari a Licata, o del Villaggio Enrico La Loggia di Agrigento ecc.), affitto a condizioni di assoluto favore di terreni venuti in possesso dell’ERAS prima dell’assegnazione ai contadini (clamorosi i casi di Licata più volte denunciati all’ERAS), fornitura all’ERAS di animali da lavoro, di piantine ecc. utilizzazione dei centri di motoaratura dell’EBAS a condizioni di favore particolare, presenza di funzionari e di impiegati amici degli amici immessi nello apparato dell’ERAS naturalmente senza concorso.

Fino a un incredibile episodio di vendite di terre che fu oggetto a suo tempo di un’inchiesta amministrativa.

Sotto la gestione dell’avv. Arcangelo Cammarata l’ERAS acquistò il 13.5.1958 per 375.000 lire all’ettaro le terre del feudo Sipana in territorio di Casteltermini da tali Martorana Melchiorre e Manzullo Paolo che non erano proprietari di queste terre, ma che le acquistarono successivamente al contratto stipulato con l’ERAS, dalla famiglia Ferrara Laggiore, a un prezzo medio di L. 66.000 l’ettaro. L’intermediario Manzullo noto mafioso pregiudicato per omicidio e rapina, al momento della stipula definitiva si venne a trovare detenuto nelle carceri di Sciacca per scontarvi una successiva condanna e fu necessario quindi instaurare tutta la complessa procedura di rito in questi casi per definire un acquisto che l’Ente pubblico avrebbe potuto con estrema facilità contrattare con i diretti proprietari con beneficio dell’erario e dei contadini. Questo episodio che fu accertato dalla Commissione di Inchiesta proposta a suo tempo dal Governo Milazzo, acquista anch’esso un valore di simbolo. La riforma Agraria doveva costituire uno degli elementi della rottura delle strutture mafiose nelle campagne siciliane; l’azione pratica dei responsabili della applicazione di questa legge permise invece alla mafia di inserirsi anche in questo processo.

 

CONSORZI DI BONIFICA – CONSORZI AGRARI E MUTUE DEI COLTIVATORI

Lo sviluppo della proprietà coltivatrice e le misure di politica agraria nazionali e regionali tipiche dell’ultimo decennio aprono alla mafia nuove vie di dominio e di arricchimento.

Consorzi di Bonifica, Consorzi agrari, Mutue coltivatori, costituiscono altrettanti strumenti per controllare  i coltivatori da un lato e continuare la solita azione di illecito arricchimento.

Sono note le critiche e le polemiche che in campo nazionale si sono avute sulla politica condotta da questi Enti, e sulla loro struttura e funzionalità.  La mafia utilizza nella nostra provincia tutti gli aspetti anti-democratici, paternalistici, e corporativi e anticontadini di questi Enti le cui caratteristiche negative a contatto con l’ambiente mafioso acquistano coloriture e rilievi come la cartina al tornasole in presenza di acidi.

Per quanto riguarda i Consorzi di bonifica, il caso del Consorzio del Platani e Tumarrano è illuminante.
Per lunghi anni, fino a che l’amministrazione non fu sciolta dal governo autonomista il Consiglio di amministrazione fu costituito da un insieme ben assortito di grossi papaveri del partito DC della zona, agrari, e mafiosi tra cui faceva bella mostra di sé il tanto spesso nominato Giuseppe Genco Russo.

Questi consigli di amministrazione come è noto sono eletti a lista bloccata con sistema maggioritario che non consente nessuna rappresentanza alle minoranze.  Il corpo elettorale è costituito dai soli proprietari, i mezzadri, gli affittuari egli altri lavoratori non votano. Gli stessi proprietari votano in base al numero di ettari posseduti.  Le votazioni praticamente non avvengono a scrutinio segreto perché largamente diffuso il sistema della delega.  Queste sono condizioni ideali per consentire alla mafia di dominare le elezioni e con le elezioni il Consiglio di amministrazione e la vita tutta del Consorzio.  Ma se i contadini e le persone oneste avevano scarsa possibilità di impedire le manovre del Genco Russo e dei suoi accoliti, ad elezione avvenuta non ci fu prefettura, assessorato regionale agl’agricoltura, ministero dell’agricoltura, Cassa del Mezzogiorno, che pose il problema della incompatibilità della presenza di un noto mafioso e pregiudicato quale il Genco Russo nel Consiglio di Amministrazione del Consorzio di Bonifica. E sì che il Consorzio di Bonifica era ed è tra i più importanti della Sicilia. Doveva utilizzare per l’irrigazione di migliaia di ettari le acque della diga del Fanaco costruita dall’ESE.  Il suo piano generale di bonifica fu compreso tra quelli da finanziare con priorità essendo il comprensorio del Platani stato riconosciuto come comprensorio di acceleramento della Cassa del Mezzogiorno. Ma l’acqua continua a defluire dalla diga al mare senza bonificare le terre riarse, e delle opere appaltate (sistemazione di terreni, rimboschimenti, viabilità ecc.) se ne vedono soltanto i…

II Consorzio Agrario provinciale di Agrigento è stato protagonista di clamorose vicende giudiziarie. Già abbiamo visto illustrando la figura del Vincenzo Guzzo di Licata di che tempra siano alcuni dei responsabili delle agenzie locali del Consorzio Agrario.

Nel gennaio del 1959 fu iniziato un processo che si concluse il 7 marzo dello stesso anno con la condanna del ragioniere Diego La Mattina a 13 anni di reclusione e di altri 16 imputati a pene varianti da 2 anni a 6 mesi di reclusione.  Il processo si riferiva ad atti compiuti dagli imputati in occasione dell’ammasso del grano.  Una serie di “sfortunate circostanze” fecero venire a galla presso l’agenzia di Naro un complesso gioco di cambiali false, di falsi bollettini di ammasso che servivano a mascherare operazioni commerciali fatte in proprio dai responsabili delle malversazioni. Queste operazioni si erano protratte per un lungo periodo di anni e non erano state mai scoperte malgrado le ripetute ispezioni e solo il disastroso esito di operazioni commerciali condotte in proprio portò a svelare la complicata trama ed a iniziare il processo che coinvolse tutti i principali dirigenti del Consorzio Agrario provinciale.

Si ha ragione di ritenere che i fatti accertati nella agenzia di Naro sia pure con diverse forme e modalità, siano comuni ad altre agenzie. Infatti negli anni scorsi è invalsa l’abitudine di aprire con ritardo e rendere successivamente difficili e lente le operazioni di ammasso in modo da costringere i contadini a vendere sulle aie a prezzo vile il loro prodotto a incettatori i quali non vendono sul libero mercato ma vanno successivamente a depositare questo grano presso i magazzini del Consorzio Agrario diventando in pratica essi soli i beneficiari delle agevolazioni di tipo cooperativo a favore della cerealicultura.  Poiché il commercio all’ingrosso dei cereali così come quello del bestiame è spesso monopolizzato da elementi della mafia i rapporti che si instaurano con le agenzie del consorzio agrario sono tali da permettere ogni forma di illegalità e di abuso.

Favorisce naturalmente questo fatto la mancanza di controllo che i coltivatori hanno sul consorzio agrario provinciale e sulle sue agenzie. Attraverso i loro uffici poi vengono distribuite gran parte delle attrezzature, delle sementi selezionate ecc. che le così dette leggi di incentivazione dell’agricoltura prevedono per i contadini e che vanno invece spesso a finire nelle mani di elementi che non solo non hanno diritto ad averle ma che le distolgono dall’uso a cui sono destinate.

Analoga situazione c’è nelle Mutue dei coltivatori.

Anche qui il problema elettorale maggioritario, l’uso delle deleghe, gli abusi di ogni genere commessi al momento della presentazione delle liste, consentono alla mafia di occupare una posizione di potere notevole.

Dalla “Mutua” dipendono per l’assistenza medica tutti i coltivatori, si stabiliscono rapporti con i medici.  La “Mutua” e la sua gemella sezione della Federazione coltivatori diretti, costituiscono il punto di partenza per tutti i certificati e tutte le pratiche per ottenere le agevolazioni varie previste dalle leggi a favore dei coltivatori diretti.  Non fa meraviglia quindi che alla testa di numerose organizzazioni locali delle mutue e della Bonomiana si trovino esponenti della mafia.

Il più volte citato Diego Gioia, noto mafioso di Canicattì, in atto inviato al confino per 4 anni è esponente della Bonomiana e presidente della Mutua comunale.

Per inciso ricorderemo che solo recentemente e in coincidenza con la proposta di invio al confino da parte della Questura di Agrigento è stato accertato che lo stesso gestiva da molti anni abusivamente una linea di autotrasporti senza nessuna delle licenze, concessioni, collaudi, controlli etc. prescritti dalle leggi.  È singolare che l’abuso non è stato mai rilevato né dalla polizia stradale né dai carabinieri, né dai vari altri corpi di vigilanza e repressione (2).

A Campobello di Licata dirige gli stessi ambienti tale Collana Nicolo già condannato a 25 anni di carcere; a Siculiana fino a poco tempo fa era esponente della Bonomiana Mangione Giovanni, anch’egli mafioso.  A Licata si segnala tale Carità Francesco.  A Burgio domina l’ambiente bonomiano il dr. Miceli capo elettore dell’on. Di Leo che i contadini chiamano il “Navarra” di Burgio, con evidente allusione alla funzione svolta nelle mutue dei coltivatori dal defunto dottor Navarra della vicina Corleone (prov. Palermo).

 

 

IL COMMERCIO DEGLI ORTOFRUTTICOLI

In quest’ultimo dopoguerra lungo la costa meridionale da Menfi a Licata si sono enormemente diffuse le colture di ortaggi primaticci (piselli-carciofi-pomodoro), di agrumi e di frutta.  Queste colture hanno grandi prospettive economiche per le favorevolissime condizioni climatiche, per la spinta che viene dalla crisi delle altre tradizionali produzioni, per l’inizio e lo sviluppo delle opere di irrigazione.

I gruppi mafiosi hanno in questi casi prontamente esteso il loro campo di azione ai nuovi settori produttivi secondo i classici schemi dell’intermediazione parassitaria che va dall’accaparramento del prodotto attraverso pressioni di ogni tipo e dalla fissazione dei prezzi di acquisto fino al collocamento dei prodotti sui mercati di consumo o presso le industrie trasformatrici viene così a stabilirsi un collegamento organico con la mafia cittadina di mercati politici.

Valga per tutti l’esempio della situazione esistente in proposito a Ribera. La florida agricoltura della zona che gravita attorno a Ribera ha alimentato e continua ad alimentare un gruppo di mafia tra i più ricchi della Sicilia e certamente il più cospicuo della provincia di Agrigento. Oggi i più grossi mafiosi di Ribera sono personaggi universalmente riveriti che intrattengono rapporti di affari e di amicizia con uomini politici, banchieri e industriali di tutta l’Isola.

La loro attività che si svolge alla luce del sole, è apparentemente più che legale e consiste nell’incetta di prodotti ortofrutticoli (ed in modo speciale il pomodoro) che vengono avviati ai mercati generali ed all’industria conserviera di Palermo.  In effetti i gruppi maliosi detengono tenacemente il monopolio del settore: i contadini sono costretti a cedere i loro prodotti agli incettatori e solo a loro per diversi motivi.  Il primo motivo è di natura obiettiva: il singolo piccolo produttore non ha la capacità economica di disporre dei mezzi di trasporto e del personale per avviare il prodotto a Palermo ed è costretto a ricorrere alle attrezzature dei mafiosi.  Il secondo motivo è costituito invece dalla arbitraria ed illegale intesa tra i mafiosi e le industrie palermitane di trasformazione (Dragotta, Raspante, Pensabene, ecc.) che acquistano soltanto il prodotto fornito dai mafiosi incettatori.  Il terzo motivo è costituito dal ricorso alla violenza esercitato dai mafiosi contro i produttori che osano rivolgersi direttamente agli industriali o ai mercati. Negli anni scorsi si sono avuti casi di violenza contro i contadini: carichi di pomodoro sono stati distrutti, un carico di fragole bloccato presso Misilmeri è stato reso inservibile dai mafiosi che lo hanno cosparso di creolina.

Nell’estate del 1963 i piccoli produttori di pomodoro iniziarono una aspra lotta contro l’intermediazione mafiosa.  Si arrivò alle trattative presso l’Assessorato regionale all’Industria con gli industriali del pomodoro, i quali si impegnarono a ricevere direttamente dai contadini, che avevano costituita una organizzazione cooperativa, allo stesso prezzo pagato agli intermediari il pomodoro.  Gli industriali non perdevano niente, i contadini guadagnavano il costo dell’intermediazione. L’indomani gli industriali strapparono l’accordo. E malgrado le insistenze del Governo regionale non vollero più tornare a trattare e a discutere senza dare nessuna spiegazione del loro atteggiamento.

Il controllo del mercato viene esercitato dal comm. Francesco Montalbano detto “Pirri”, da Francesco Micalazzi e da un gruppo di uomini di loro fiducia, tutti collegati con le industrie palermitane Pensabene, Dragotta, Raspante.

Questi gruppi hanno raggiunto il controllo della situazione dopo un travaglio durato armi e dopo scontri sanguinosi.

Nell’immediato dopoguerra la mafia era unita attorno ad un gruppo di “grossi”: Ciccio Montalbano detto Pirri, Francesco Micalazzi, Francesco Miliano, Sebastiano La Barbera, Luciano Bacino e De Cicco, tutti pregiudicati per associazione a delinquere.

Si formarono poi gruppetti di “picciotti” adibiti ai lavori più pericolosi: Mario Turano, Vincenzo Capizzi, Ignazio Seidita, Vincenzo Caruana, Gaspare Panepinto, Calogero Bacchi a altri.

Attorno al 1950 i “picciotti” ai sollevarono contro i capi a pretesero di controllare anche loro la situazione.  Ma l’azione non ebbe seguito perché nel frattempo molti di loro rimasero vittime di misteriosi delitti.

Nel 1950 vengono uccisi assieme, in campagna, Mario Turano e Vincenzo Capizzi. Il primo novembre 1951 cade Vincenzo Caruana, il 9 novembre dello stesso anno viene ucciso Ignazio Seidita. Gaspare Panepinto e gli altri picciotti superstiti fuggono riparando all’estero da dove non sono più tornati. Nessuno di questi delitti è stato punito. Si suppone con una certa fondatezza che anche gli assassini siano fuggiti all’estero, ma si dice che qualcuno di loro dopo un certo periodo di quarantena sia tornato in patria.

La mafia di Ribera, purtroppo, è saldamente collegata a gruppi politici.

Il comm. Ciccio Montalbano è stato candidato nella lista DC nelle elezioni comunali del ’56.  In quell’occasione ebbe compagno di lista il maresciallo dei CC a riposo Francesco Giallombardo, detto il “cavaliere”, che dirigeva la sezione dei CC di Ribera nel periodo oscuro della strage dei “picciotti”.

Francesco Micalizzi è stato sino a qualche tempo fa strettamente legato per vincoli di amicizia e di affari con il defunto dc Di Leo.

A proposito della mafia riberese vanno notati i legami particolarmente stretti che essa mantiene con ambienti gangsteristici dell’USA, legami che a più riprese hanno richiamato l’attenzione anche dell’F.B.I.

Alla mafia di Ribera è collegata la mafia della vicina Calamonaci uno dei cui esponenti, tale Rizzo Calogero di Antonio, (oltre ad essere campiere dell’on. Di Leo come Nicosia (più volte arrestato e processato per gravi reati e sempre assolto per insufficienza di prove) esercita in società con tale Perricone Giuseppe fu Luca l’incetta dei prodotti ortofrutticoli in collegamento col boss riberese Ciccio Montalbano.

In un altro vicino comune, Montallegro, in seguito all’arresto di alcuni mafiosi responsabili di un attentato dinamitardo, è risultato che la banda capeggiata da un tale Stefano Carrella agiva anche nel settore della incetta del pomodoro.  In particolare costringeva i contadini di Piana Salsa ed altri proprietari a consegnare il prodotto a prezzi assolutamente inferiori a quelli di “piazza”. Alcuni incettatori di altri centri, sconfinati in territorio di Montallegro, erano stati picchiati selvaggiamente e i loro camion erano stati donneggiati dalla banda MarreIla.

Analoghe situazioni sono a Siculiana, a Licata, come già abbiamo detto, e in tutta la fascia costiera. La presenza della mafia costituisce un intralcio non solo agli attuali produttori ma un ostacolo serio all’espandersi delle culture e al loro stabilizzarsi.

 

 

CONTROLLO USURARIO DEL CREDITO

La manovra del credito e l’esercizio diretto del medesimo in forme usurarie costituiscono per larga costatazione attività non secondarie dei gruppi mafiosi agrigentini.

La loro penetrazione e influenza nel settore è avvenuta in varie forme.  Da una parte, a largo raggio, attraverso le amicizie politiche e le relative connessioni con i consigli di amministrazione dei maggiori istituti bancari e le rispettive direzioni periferiche.  Molti mafiosi ottengono in tal modo la concessione di crediti nonché di assunzioni, promozioni e trasferimenti di favore per persone da loro raccomandate.

Un più diretto controllo viene invece esercitato su alcune minori aziende bancarie di carattere locale le quali spesso dispongono di capitali anche ingenti provenienti dai depositi effettuati presso di esse da enti pubblici ivi compresa la Regione Siciliana.

I gruppi mafiosi si inseriscono monopolizzando le disponibilità di credito esistenti su una piazza costringendo così i coltivatori che ne abbisognano (e ne avrebbero diritto alle condizioni più favorevoli) a rivolgersi a loro ottenendoli naturalmente a condizione più onerose.

In certi casi l’esercizio del credito agrario è collegato con attività più propriamente delinquenziali fra cui l’abigeato.  Capita per es. che al derubato venga offerta la possibilità di rientrare in possesso dei suoi animali previo pagamento di un prezzo più o meno esoso contemporaneamente alla possibilità di prendere in prestito il denaro occorrente, ad un tasso d’interesse onerosissimo.

Il tipo di attività sopra descritta viene largamente esercitata nella zona che fa capo a Canicattì.

 

 

 

IL COLLOCAMENTO NEGLI APPALTI. NEI LAVORI DI RIMBOSCHIMENTO E NELLA INDUSTRIA.

 

Se Consorzi Agrari, Mutue, Banche, intermediazione parassitarla nei mercati di prodotti agricoli servono oltre che a sfruttare, a dominare i piccoli produttori agricoli, nel campo dei rapporti di lavoro è antica la consuetudine dell’intervento mafioso nel collocamento dei lavoratori specie nei lavori di particolare interesse.

L*attuale struttura degli uffici comunali di collocamento favorisce la penetrazione e l’influenza della mafia.  Infatti praticamente nullo è il potere di controllo dei lavoratori e dei loro sindacati sugli uffici di collocamento, ed ampi poteri discrezionali sono concessi all’amministrazione nell’assunzione dei collocatori.  Condizioni entrambi favorevoli all’azione delle clientele e delle cosche mafiose.

Discorso a parte deve farsi per il collocamento nei lavori di rimboschimento. Qui l’assunzione di mafiosi non solo ha lo scopo di assicurare una stabile remunerazione a gente che spesso non si presenta affatto al cantiere o comunque non per lavorare, ma è collegata a tutta la complessa azione di appalti e subappalti nei rimboschimenti, di affitti delle zone utilizzabili per pascolo a prezzi e a condizione di favore.

L’onorevole commissione di inchiesta sulla mafia anche utilizzando la documentazione raccolta dall’apposita commissione nominata dall’A.R.S. potrà fare luce su tutta la politica di rimboschimento operata dalla Regione Siciliana e dalla Cassa del Mezzogiorno nella nostra provincia che costituisce una delle pagine più nere di dilapidazione e di inefficienza.

Anche in tutti gli altri settori degli appalti e dei subappalti di opere pubbliche la mafia è presente come del resto man mano nel corso di queste brevi note è stato possibile riportare.

Riteniamo di aver dato un quadro sintetico anche se non approfondito di questa opera di penetrazione e di dominio capillare della mafia in tutti i settori della vita economica e sociale della nostra provincia.   Ciò è potuto avvenire perché vi sono state forze politiche che lo hanno permesso per ricompensare la mafia dei servizi resi nel corso delle campagne elettorali e per utilizzarla nell’azione di contenimento quotidiano del movimento operaio e contadino della provincia.  Ma il costo che l’economia della provincia di Agrigento ha pagato è enorme.

L’ha pagato con le taglie parassitarie estorte alle masse di coltivatori e di lavoratori, l’ha pagato con il ritardo e l’arresto quasi del suo sviluppo economico, con la distorsione di quelle poche misure riformatrici e di quei pochi investimenti ottenuti a sollievo della precaria situazione economica.  L’ha pagato soprattutto con l’enorme emorragia dell’emigrazione che ha portato più di lOOmìla lavoratori dell’agrigentino a fuggire dalla propria terra in cerca non solo di migliori condizioni di lavoro, ma anche per sfuggire alle infinite vessazioni dell’ambiente mafioso.

L’emigrazione ha colpito con violenza e con forza anche zone del Mezzogiorno e della Sicilia dove non esiste il fenomeno mafioso e avrebbe colpito in ogni caso anche la provincia di Agrigento.  Ma è nostra ferma convinzione che ciò non si sarebbe verificato nelle misure e con le modalità in cui si è verificato se ci fossero state altre condizioni sociali, capaci di permettere una migliore utilizzazione di tutte le risorse ambientali, economiche e umane di cui la provincia di Agrigento è ricca.

 

 

 

 

 

 

 

 

Nota (2) a pag. 47

Ecco il curriculum vitae di Diego Gioia, come è stato riferito da un giornale locale alla vigilia della decisione con cui il Tribunale di Agrigento lo assegnava al soggiorno obbligato:

“Diego Gioia (ufficialmente fa l’agricoltore) fin dalla sua giovinezza si distinse per le sue bravate.  A 18 anni, chiamato alle armi in occasiono del primo conflitto mondiale, disertò e si diede alla macchia acquistando ben presto prestigio e influenza negli ambienti della malavita.

Nel 1922 venne “imposto” dietro interessamento del defunto capo mafia Luigi Mantione come campiere nel feudo (Deliella) di proprietà dei fratelli Gallo.  L’anno successivo andò ad amministrare il feudo Gurgazzi.  In questo periodo, spalleggiato da alcuni mafiosi di Canicattì, tra i quali Mantione, DiFede, Castellano e Nicosia, sostenne un terribile conflitto a fuoco con alcuni mafiosi di Riesi, Ravanusa e Campobello di Licata, seminando il panico nelle popolazioni di quei centri.

II conflitto assicurò al gruppo canicattinese il dominio indiscusso di quelle terre; e, protetto dall’omertà e dalla paura di quei poveri contadini, fece ogni sorta di angherie.

Nel 1924 Diego Gioia tornò alla “tranquilla” vita dei campi e per qualche anno amministrò il feudo Deliella, fin quando non venne tratto in arresto per associazione per delinquere e altri reati.  In istruttoria riuscì però a cavarsela per insufficienza di prore.

Il 6 novembre 1929 il Gioia venne colpito da mandato di cattura spiccato dal giudice istruttore di Agrigento per mancato omicidio.

Nell’anno successivo le sezioni accusa della Corte d’Appello di Palermo e di Caltanissetta non procedevano nei suoi confronti per prescrizione in merito a tutta una serie di reati tra i quali figurava anche un omicidio volontario.

Nel novembre del medesimo anno la Corte di Appello di Palermo gli inflisse 5 anni di reclusione per associazione a delinquere.

Nel 1933 la Certe di Cassazione del Regno si vedeva costretta ad amministiarlo in ordine al reato di “associazione” e detenzione abusiva di armi.

Nel 1934 Gioia venne inviato al confino di polizia, nell’isoletta di Ustica, dove soggiornò per 4 anni.

Non o ancora finita la lista.  Nel 1937, al suo rientro da Ustica, fu al centro di un’azione delittuosa.  Arrestato, venne condannato dalla Corte di Assise di Agrigento a 7 anni di reclusione per violenza privata (a quel che è dato vedere ha avuto sempre un debole per questa forma di delinquenza), ed estorsioni.  Il Gioia era anche imputato di associazione per delinquere, duplice omicidio, favoreggiamento e detenzione e porto abusivo di armi da fuoco.  Ma di questi reati usci assolto con formula dubitativa.

Nel 1942 venne dimesso dal carcere e sottoposto per 2 anni ai vincoli della libertà vigilata””.

 

 

 

 

 

 

LA MAFIA E L’APPARATO STATALE

L’influenza ed il peso della mafia nella politica e nella struttura economico-sociale della provincia doveva ripercuotersi in modo nefasto anche nella parte più essenziale dell’apparato dello Stato, negli organi dell’amministrazione prefettizia, della polizia, dei carabinieri e persino della magistratura.  Del resto la situazione è particolarmente favorevole.  Nel momento in cui la mafia inizia la sua penetrazione siamo appena usciti da una catastrofe nazionale, l’apparato dello Stato è sconvolto. Il fasciamo che non è riuscito a scalfire le radici della mafia è invece riuscito a piegare ulteriormente il senso dell’autonomia e della responsabilità in gran parte di pubblici funzionari.  E in questo senso in questi ultimi anni la situazione è ancora peggiorata. II caso Tandoj rappresenta il simbolo e l’emblema di una situazione intollerabile.

Abbiamo visto in precedenza, come il nome del commissario Tandoj venga continuamente chiamato in causa a proposito di tutti i gravi delitti politici avvenuti nella provincia e persine figuri – come nel caso Gioia Genco Russo – come consigliere di affari dal tipico carattere mafioso.

Tandoj, giunse in provincia di Agrigento all’inizio della sua carriera e si trovò quasi subito di fronte al delitto Miraglia. Forse egli cercò di fare il suo dovere ma l’esito del suo zelo è noto: fu sottoposto assieme ad altri funzionari ed agenti di polizia ad un procedimento penale per le presunte violenze esercitate a carico dei mafiosi arrestati quali sospetti assassini.

Il fatto amaro e deludente peserà, senza dubbio, in termini decisivi sull’orientamento futuro e sulla condotta di questo funzionario che per circa 14 anni ancora opererà e sarà presente con la sua attività investigativa in tutti i casi delittuosi della provincia di Agrigento.

La sfiducia del contadino della vecchia terra di Sicilia verso la legge corrode e contagia gli stessi organi di legge.

Da allora in poi il commissario Tandoj agisce come se volesse solo esercitare la sua bravura e il suo intuito, e coprirà ogni segreto delittuoso e ogni crimine.  Ma con lui la giustizia non farà più il suo corso.  Dopo la prima delusione ed esperienza di una società corrotta, si apre per lui uno dei capitoli più incredibili delle connivenze tra i poteri dello Stato e il mondo criminale della provincia di Agrigento.

La figura di Tandoj e la sua “funzione” nel campo dei poteri tra mafia e apparato statale era nota a tutti.

Ma il dr. Querci, Prefetto di Agrigento, all’epoca del delitto si affretta a rilasciare al quotidiano catanese “La Sicilia* del 17 aprile 1960 la seguente dichiarazione: “”Secondo me è un fatto di alta malavita, ma non di mafia.  TandoJ era un bravo funzionario rispettato da tutti.  La mafia non ha mai dato fastidio alle autorità e meno che mai ai poliziotti.  Essa d’altra parte non ha bisogno di ricorrere al delitto per farsi rispettare. E poi, mi dite dov’è questa mafia?  Dove sono questi delitti mafiosi?  Ad Agrigento e nella provincia abbiamo delle rapine e ogni tanto un omicidio che avviene per motivi di interesse o per motivi d’onore. Dunque lasciamo perdere i romanzi e le storie d’altri tempi.  La polizia, secondo me, è sulla strada giusta. Datele tempo e vedrete che non fallirà il colpo””

Questa dichiarazione si commenta da sé e getta una vivida luce sull’orientamento del più elevato funzionario dello Stato della Provincia.

Se questo è l’atteggiamento di un Prefetto di fronte ad un caso di così enorme e sconvolgente portata  quale sarà stato l’orientamento e  l’azione che quotidianamente hanno svolto e svolgono i funzionari e gli ufficiali  di polizia a lui sottoposti, ei vari rami dell’amministrazione provinciale  nelle questure, nei commissariati, nei comandi dei carabinieri, specie quelli che per anni e anni sono rimasti nello stesso ambiente e a questo ambiente in buona o in malafede si sono collegati con infiniti fili?

Una particolare attenzione merita in proposito il diffuso fenomeno della prolungata permanenza nella stessa sede di funzionari di polizia dei vari gradi e proprio in quelle situazioni in cui l’inevitabile sopravvenire di legami personali con ambienti vicini a quelli mafiosi può presentare il pericolo di intralci all’adempimento dei loro doveri.

Ecco alcuni esempi che vanno aggiunti a quello costituito proprio dal commissario Tandoj rimasto in provincia di Agrigento per 15 anni.

II dr. Smecca è rimasto anch’egli per circa 15 anni alla questura di Agrigento ed è stato trasferito solo dopo l’uccisione del commissario Tandoj e il fallimento della prima fase delle relative indagini.

Il dr. Ciulla permane da 9 Anni al commissariato di P.S. di Sciacca.  Intrattiene rapporti amichevoli con persone considerate come appartenenti alla mafia.  Lo stesso si dice di alcuni sottoufficiali e agenti di PS da molti armi assegnati al Commissariato di Sciacca.  Il dr. Ciulla è stato recentemente promosso vice-questore», e assegnato alla Questura di Catania ma ha stranamente ritardato il suo trasferimento.

II maresciallo dei CC Girolamo Inzerillo è dal 1949 ininterrottamente a Lucca Sicilia.  Durante questo lungo periodo non è riuscito a fare luce su nessuno dei gravi delitti che si sono susseguiti nella giurisdizione a lui affidata.  Fra tali delitti va ricordato l’assassinio del sindacalista Paolo Bongiorno avvenuto il 27 settembre 1960 nel corso della campagna elettorale amministrativa, assassinio del quale il maresciallo Inzerillo escluse nel suo rapporto ogni e qualsiasi carattere politico senza peraltro essere in grado di indicare né il movente né i responsabili.

Il comandante la stazione CC di Burgio ha stretto vincoli di amicizia con elementi della nota famiglia mafiosa dei Baiamonte.  Partecipa spesso a partite di caccia con tale Vito FerrandeIli, genero di Cariano Baiamonte.  Una cognata del maresciallo inoltre ha scambiato promessa di matrimonio con un Baiamonte.

Di contro vanno segnalati i casi di funzionari e specialmente di ufficiali e di sottufficiali dei CC repentinamente trasferiti anche dopo breve permanenza in provincia, proprio nel momento culminante di delicate indagini oppure quando stavano approfondendo con successo lo studio del difficile ambiente.

Fra i molti esempi che potrebbero farsi ci limiteremo a ricordare il caso del maresciallo maggiore dei CC Del Rio Antonio il quale aveva portato a buon punto le indagini iniziali sul delitto Montaperto quando fu mutato di incarico e successivamente, a sua domanda, trasferito a Genova e da qui in Sardegna; nonché il caso già noto del maggiore dei CC Renato Candida autore dell’apprezzato volume:  “«Questa mafia” trasferito all’indomani  della inchiesta condotta dal Consorzio Agrario  Provinciale.

Ritornando al caso Tandoj, ed ai suoi sviluppi complessi e sconcertanti, vediamo posti in luce alcuni aspetti tra i più gravi e preoccupanti dei rapporti creatisi tra mafia e apparato statale nella provincia di Agrigento.

Si consideri, quale fu il comportamento della Questura di Agrigento subito dopo l’uccisione del commissario Tandoj, che per 14 anni era stato uno dei suoi funzionari più in vista e solo da poco tempo trasferito a Roma.

Nelle prime ove vi fu sbandamento e confusione e in quei giorni di fronte alle prime indiscrezioni propalate da una parte della stampa sulla vita privata del dr. Tandoj, la Questura di Agrigento nulla fece per difendere  la memoria del commissario ucciso da una parte, né dall’altra parte confermò o smentì la gravissima notizia secondo cui il Tandoj aveva condotto delle indagine personali per identificare l’autore di un furto di milioni verificatosi alquanto  tempo prima della sua uccisione nei locali del Comando delle guardie di PS di  Agrigento.

Poco dopo però i funzionari della questura di Agrigento, mentre i CC restavano apparentemente inattivi, indirizzarono decisamente le loro ricerche su una soia pista ben definita, quella del delitto “passionale” che – seguiti in ciò dal magistrato inquirente – doveva portare alla incriminazione del noto esponente democristiano prof. Mario La Loggia quale mandante dell’omicidio, incriminazione successivamente sfumata nel nulla con una sentenza istruttoria di non luogo a procedere.

È stato più volte affermato sulla stampa ed è opinione quasi generale che ad indirizzare le indagini verso la falsa pista del delitto passionale sia stato non già un errore degli inquirenti, ma il malizioso disegno, ispirato persino da alte sfere, tendente assieme a fuorviare le indagini dalle reali causali del delitto.

Ora, a parte tutte le possibili  considerazioni sulle deficienze logiche e tecniche di quelle indagini, quel che qui preme rilevare è come in quell’errata impostazione delle indagini l’unico punto solido perché fondato su una, purtroppo, indubbia veridicità fosse costituito dagli effettivi rapporti esistenti fra un alto esponente politico, quale il prof. La Loggia (consigliere comunale dc, direttore all’ospedale psichiatrico, fratello di un ex presidente della Regione) e gli elementi mafiosi indicati quali esecutori materiali e pratici organizzatori del crimine. Fu lo stesso prof. La Loggia che al tempo del suo arresto dichiarò per difendersi dall’accusa che col presunto sicario, il pregiudicato Calascione di Favara, non aveva avuto contatti “dal tempo dello ultime elezioni”, fornendo con ciò una sconcertante testimonianza  diretta sui sistemi usati anche  dalla sua clientela politica nelle battaglie elettorali .Del resto non è senza significato che un altro dei sospettati quale complice del delitto, fermato e poi rilasciato, un tale Alfano, fosse membro del comitato direttivo di una sezione democristiana di Agrigento  e attivo capo elettorale della  famiglia La Loggia.  D’altra parte sul diretto intervento delle forze mafiose nelle competizioni elettorali, proprio recentemente è stato gettato un fascio di luce con la pubblicazione delle memorie del noto gangster Nik Gentile il quale descrive in esse come organizzò il suo appoggio alla candidatura dell’on. a Loggia in una campagna elettorale ragionale.

A proposito delle indagini per il delitto Tandoj è da notarsi che, imboccata la falsa pista del delitto passionale si trascuro tanto da parte della polizia che della magistratura di riconsiderare tutti gli episodi di criminalità mafiosa di cui il Tandoj si era occupato nel corso della sua attività al servizio della questura di Agrigento, tra cui i delitti politici sopra ricordati, da quello di Miraglia a quelli dei dirigenti democristiani Giglio, Montaperto, Guzzo, fino alla catena dei delitti di Raffadali e al sequestro Agnello.

Questi ultimi in particolare erano stati rievocati subito dopo il delitto TandoJ e in connessione con esso da alcuni organi di stampa della sinistra.

Concluso con un nulla di fatto il procedimento contro il prof. La Loggia e i suoi presunti complici, dopo un lungo periodo di silenzio, le indagini furono riprese e condotte ad uno stadio molto avanzato dal dr. Fici, sostituto procuratore di Palermo. Frattanto un certo rinnovamento di quadri era stato effettuato nella Questura di Agrigento. Ma questo non ha migliorato la situazione, ancora una volta uno scuro succedersi di gravi interferenze hanno ostacolato la ricerca della verità il che ha confermato nell’opinione pubblica la dolorosa convinzione della impossibilità di portare a fondo l’opera della giustizia quando si tratti di colpire delitti o interessi mafiosi.

I fatti, ancora recenti, sono noti. Quel che è sintomatico è il ricomparire in essi di due tipici elementi già presenti nella prima fase delle indagini: i rapporti tra ambienti mafiosi, ambienti politici e organi dello Stato impersonati ora dalla singolare figura del così detto prof. Di Carlo di Raffadali, esponente mafioso e nello stesso tempo segretario della locale sezione dc., ex giudice conciliatore, confidente patentato dei CC ricevono una nuova conferma.

II conflitto di indirizzo tra Questura e Comando dei Carabinieri esplode ancora una volta davanti all’opinione pubblica.

Ma l’elemento più grave o costituito in questa ultima fase dall’aperto contrasto tra la Questura di Agrigento e il magistrato incaricato dal procuratore generale della Corte d’Appello di Palermo di contro le nuove indagini, il dr. Fici.

Le leggi del nostro Paese stabiliscono la subordinazione degli organi della polizia giudiziaria alla magistratura.  La questura di Agrigento responsabile di avere già in precedenza messo su una falsa pista il procuratore Ferretti ora che il dott. Fici finalmente sta imboccando una più nuova producente strada, attraverso una serie di atti di non dubbio significato emulativo ne ostacola l’indagine.

Questo contrasto si conclude inaspettatamente con l’esonero del dr. Fici dall’incarico avuto e la restituzione della ‘pratica” Tandoj al magistrato locale.

Qualunque sia la giustificazione formale per quanto ineccepibile di questo nuovo passaggio di mano, questo fatto viene interpretato dall’opinione pubblica nel senso di un “successo” della Questura e di una nuova battuta d’arresto dell’indagine, proprio nel momento in cui individuati gli esecutori materiali, fatta luce su una serie di gravi delitti avvenuti a Raffadali e dei quali, inutilmente per la giustizia si era occupato in precedenza il Tandoj si stava iniziando a dipanare  la matassa degli altri delitti collegati all’attività del commissario assassinato.

Se la questura di Agrigento ha assunto nei confronti del magistrato inquirente le posizioni che ha assunto è segno che si sente le spalle coperte da forze ben più potenti.

E qui il discorso cade sull’aspetto più inquietante e grave della situazione, l’anello mafia-politica, apparato statale non si salda ad Agrigento, ma a Palermo e soprattutto a Roma dove risiedono gli organi che per 14 anni hanno lasciato che il commissario Tandoj sviluppasse la sua oscura azione, che inviano nella provincia i vari prefetti guerci dove hanno le loro radici i conflitti di competenza tra i vari organi dello Stato con i risultati che abbiamo visto.

È chiaro che un consistente passo avanti potrà farsi nell’indagine sulla mafia non solo della provincia di Agrigento ma di tutta la Sicilia e nella conseguente adozione di provvedimenti efficaci solo quando saranno stati chiariti completamente tutti gli oscuri rapporti tra mafia e pubblici poteri di cui il caso Tandoj costituisce una tipica e simbolica manifestazione.

Questo è necessario per ristabilire davanti ai cittadini un minimo di prestigio negli organi dello Stato che hanno offerto così deludente prova di sé in occasione delle vicende legate all’assassinio del commissario Tandoj.

Dopo quello che prefetti, questori, comandanti dei CC, magistrati, procuratori della repubblica, inviati del Ministero, uomini politici responsabili, siciliani e non siciliani, hanno fatto vedere in questa occasione nessuno potrà fare carico alle sfortunate popolazioni della nostra provincia del loro rafforzato e nuovamente legittimato scetticismo e della loro sfiducia bei confronti degli organi dello Stato.

L’azione dell’onorevole Commissione Parlamentare d’inchiesta potrà essere decisiva per ristabilire la verità e la fiducia.

 

 

 

CONCLUSIONI

Abbiamo esposto nel corso del documento che presentiamo, il nostro giudizio e le nostre valutazioni sulla influenza della mafia nella vita politica, economico e sociale della provincia e i motivi di questa influenza.

Sono questi il giudizio e le valutazioni di un partito politico ed è naturalmente improntato dagli ideali e dalle esperienze di lotta di questo nostro Partito.  È comunque un primo contributo.  Speriamo che altre forze politiche, sindacali, culturali della provincia vogliano fare altrettanto in modo da permettere alla Onorevole Commissione di valutare ogni rapporto.

A conclusione di questo nostro memoriale, sottoponiamo alla Onorevole Commissione d’inchiesta le seguenti richieste e considerazioni:

1) – chiediamo in primo luogo una indagine speciale della Commissione sulla catena dei delitti politici che hanno insanguinato la nostra provincia: da Accursio Miraglia a Bongiorno, da Eraclide Giglio a Montaperto e a Guzzo.  Poiché le fila di questi delitti fanno capo quasi sempre all’azione del commissario Tandoj chiediamo che questa indagine sia connessa a quella relativa all’atteggiamento dei pubblici poteri nel corso delle indagini sulla morte del commissario.

questa indagine può grandemente contribuire all’acquisizione di aspetti emblematici e illuminanti del fenomeno mafioso e può avere l’effetto di rimettere in cammino la giustizia secondo l’aspirazione di tutti i lavoratori e gli uomini onesti della provincia, risolvendo in primo luogo la contraddizione esistente tra le due diverse ed opposte sentenze di proscioglimento degli assassini di Accursio Miraglia.

2) – Chiediamo in secondo luogo che l’Onorevole Commissione voglia acquisire  le deposizioni  di tutti i prefetti, questori, comandanti di carabinieri che in questi anni sono  stati a rappresentare lo Stato  nella provincia  e i giudizi che sul loro operato  sono stati emessi dal Ministero degli Interni e dai loro alti comandi romani.

3) – Chiediamo che nel corso delle indagini sulle strutture sociali ed economiche della provincia siano sentiti i lavoratori interessati e le loro rappresentanze sindacali in modo che vengano indicati i provvedimenti necessari per sollecitare e favorire lo sviluppo economico della provincia sotto il controllo dei lavoratori in modo da liberare le popolazioni dalla pressione mafiosa e dalla miseria.

Infine riteniamo doveroso esporre alla onorevole commissione un nostro radicale convincimento.

Il problema della mafia non è mai stato in passato e non lo è tanto più oggi un problema di (polizia?) da affrontare con mezzi coercitivi straordinari, che oltre a mettere in pericolo conquiste democratiche sancite dalla Costituzione, non hanno mai risolto e spesso anzi hanno aggravato la piaga mafiosa.

Il forte movimento operaio e contadino della nostra provincia ha combattuto in questi anni la mafia sul terreno dell’organizzazione e della presa di coscienza delle masse sul terreno democratico riducendo l’influenza e il potere sulla popolazione.