Nel labirinto delle mafie a cura di Attilio Bolzoni ed Enrico Bellavia

Strage di Via D’Amelio (Google foto)

Articolo del 16 Luglio 2017 da mafie.blogautore.repubblica.it

Nel labirinto delle stragi

di Attilio Bolzoni

In quei due mesi è accaduto molto ma non tutto. Dal 23 maggio al 19 luglio 1992, cinquantasette giorni, bombe e autobombe, ucciso Giovanni Falcone, ucciso Paolo Borsellino. Tanti i segreti che sono stati seppelliti in questo quarto di secolo, tante le verità che ancora l’Italia non conosce.
A farci entrare nel labirinto delle stragi per il blog Mafie è Enrico Bellavia, giornalista di Repubblica che con il suo sapere ci accompagna dall’Addaura ai grandi misteri che ancora si inseguono dopo venticinque anni.
E’ un lungo racconto ma non è solo un racconto. E’ anche un ragionamento intorno a fatti e trame che portano Bellavia a un convincimento: per capire cosa è avvenuto nell’estate del 1992 non bisogna guardare indietro ma bisogna guardare avanti: «Non a quello che le vittime avevano fatto ma a quello che avrebbero potuto fare». Delitti preventivi.
Una ricostruzione divisa in una ventina di capitoli, vicende tutte legate una all’altra anche se lontane nel tempo. C’è l’intrigo della trattativa Stato-mafia e c’è l’oscura parentesi della dissociazione “morbida” che avrebbero voluto alcuni boss dopo la repressione poliziesca-giudiziaria che ha colpito Cosa Nostra, ci sono i retroscena di quel rapporto sugli appalti dei carabinieri dei reparti speciali con le grandi aziende del Nord in affari con Totò Riina, c’è il ricordo degli ultimi giorni del procuratore Borsellino che riceve le confidenze di Gaspare Mutolo e di Leonardo Messina.
Un’estate del 1992 sospesa nel prima e nel dopo. Con eventi ancora oggi indecifrabili. Le telefonate di rivendicazione della famigerata Falange Armata. E il “suicidio” nel carcere di Rebibbia di Antonino Gioè, uno di quei mafiosi che partecipò alle fasi preparatorie dell’attentato di Capaci e che fu trovato cadavere ventiquattro ore prima delle esplosioni – il 27 luglio del 1993 – in via Palestro a Milano e davanti alle basiliche romane.
Con l’apparizione improvvisa di personaggi che hanno depistato le inchieste sino ad affossarle. Come Vincenzo Scarantino, il “pupo vestito”, il pentito fasullo di via D’Amelio creduto oltre ogni ragionevole limite da qualche poliziotto e da schiere di magistrati. Come Massimo Ciancimino, il figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo che ha spacciato informazioni tarocche per conto proprio o per conto terzi.
Venticinque anni dopo – nonostante le inchieste giudiziarie e gli ergastoli che hanno rinchiuso per sempre nelle segrete del 41 bis i capi della Cupola – siamo ancora dentro il labirinto.
Enrico Bellavia ci fornisce una guida per muoverci fra le ombre, ci fa capire qualcosa di più.


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16 Luglio 2017
Quei delitti “preventivi”

Nel rosario di sangue della Sicilia Anni Novanta è difficile rintracciare il primo dei grani. Figuriamoci l’ultimo. Ma da dove partire, però, se non dall’Addaura, dal fallito attentato a Giovanni Falcone: 21 giugno 1989.
L’anno della grande delegittimazione di un bersaglio che su quella scogliera incontrò per la prima volta il tritolo: 58 candelotti in una borsa da sub. Immaginatela ora così la lenta agonia di un uomo che sa che la sua ora è arrivata con i boia, per coincidenze o deliberato calcolo, gli lasciano ancora tre anni di vita. Se vita è girare con la morte addosso. E con la danza macabra dei detrattori intorno.
A Falcone avevano negato ogni cosa, una promozione, un incarico, un riconoscimento, perfino un salvacondotto. E quando, nel 1991 se lo era trovato da solo andandosene a Roma, al ministero di Grazia e Giustizia, direttore degli Affari Penali, ecco che il ballo era ripreso con più vigore.
Archiviato in un soffio quel vento di libertà che il primo maxiprocesso, la sua creatura, frutto del suo metodo, aveva regalato al Paese, Falcone era tornato ad essere solo e unicamente un bersaglio. Dei nemici, di tanti colleghi, della politica. Mafia e antimafia erano lì a disputarsi le sue spoglie in vita.
A parare e a schivare, a rispondere anche per lui, uno dei pochi, pochissimi amici, che gli fosse davvero rimasto accanto: Paolo Borselllino.
Ma Falcone, era deciso, doveva morire: per il maxiprocesso, certo, ma per impedire che potesse colpire ancora e più in alto di prima.
Guardiamo ai morti di mafia sposando sempre la tesi della vendetta, sicuri che al passato bisogna guardare per capire, quasi che l’omicidio trovi all’indietro la ragione della sua essenza. Non rendendocene conto, ricalchiamo ciò che accade in Cosa Nostra quando i bravi ragazzi credono o fingono di credere a ciò che i capi raccontano. Così il piombo è sempre una risposta, la reazione, legittima dal loro punto di vista, a un’offesa pregressa.
E invece nelle stragi, in quella di Capaci e ancora di più in quella di via d’Amelio, è avanti che bisogna guardare per capire. Non a quello che le vittime avevano fatto ma a quello che avrebbero potuto fare. Delitti preventivi, sì. Questo sono state le stragi e le premesse che le hanno rese possibili sono lì a raccontarlo.
Molte, troppe domande, lungo questa storia sono senza risposta. Ma proviamo a ripassarle. Perché ogni interrogativo è uno snodo, un bivio di quel labirinto nel quale ogni anfratto è un capitolo che rimanda agli altri. Che si porta dietro dubbi collegati ad altri dubbi. Incarnati dai personaggi noti e meno noti che però hanno lasciato le loro impronte in più di un passaggio di questo dedalo.  (1 continua)

 

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