Nel labirinto delle mafie a cura di Attilio Bolzoni ed Enrico Bellavia
30 Luglio 2017
L’uomo “suicidato” a Rebibbia
La perizia medico-legale sulla morte di Antonino Gioè è un capolavoro. Le fratture alla sesta e alla settima costola toracica – secondo il referto ufficiale – sarebbero state causate “dal massaggio cardiaco praticato su di esso” quando l’hanno trovato penzoloni nella cella. Niente dice la perizia sulle escoriazioni e le ecchimosi sul lato destro della fronte e sul sopracciglio sinistro. E nemmeno qualcuno ha indagato sulla lunghezza dei lacci delle scarpe da ginnastica che Gioè aveva ai piedi, lacci troppo corti per farli passare dalle grate e poi intorno al collo.
Antonino Gioè è il cugino di Francesco Di Carlo, l’uomo che dalla prigione inglese ha messo in contatto i servizi intenzionati a fermare Gioanni Falcone con la mafia corleonese. Ed è anche il collegamento tra la mafia e Paolo Bellini, un trafficante d’opere d’arte con un piede nella ‘Ndrangheta e uno nell’eversione nera che i carabinieri muovono per recuperare quadri.
Bellini che ha conosciuto Gioè in carcere, si rivolge proprio all’amico per una missione e ne riceve disponibilità: Cosa nostra vuol dargli una mano ma chiede che i carabinieri diano una mano a Giovanni Brusca che ha a cuore la scarcerazione del padre. Una trattativa? Un dialogo aperto e mai chiarito fino in fondo. Tanto più quando Cosa nostra sposta al Nord la strategia del terrore con le bombe davanti a musei e luoghi di culto. E’ Bellini il suggeritore? E se sì, per conto di chi? E Antonino Gioè muore proprio a 24 ore dalle bombe di Milano, in via Palestro e alle basiliche di Roma.
Con Gioè “suicida”, Gioacchino La Barbera inizia a collaborare e poco dopo lo segue anche Santino Di Matteo. Raccontano che Gioè caricò l’autostrada di Capaci con l’esplosivo, descrivono l’agguato e la preparazione. Non dicono di altre presenze, di “estranei” presenti ai preliminari della strage. Eppure di cose strane ne sono accadute. Una, per eseempio: tutti i protagonisti utilizzano telefoni cellulari clonati, intestati a defunti. Telefoni dei quali però Telecom non si accorge.
A Santino Di Matteo, Giovanni Brusca fa sequestrare il figlio ma lui non ritratta. Qualcosa per la verità deve essersela tenuta per sé se, perché durante una conversazione la moglie gli raccomanda di non parlare dell’autobomba di via d’Amelio. Su quello deve stare zitto.
Gioè di sicuro non parlerà. E quel suo suicidio è un rovello anche per Loris D’Ambrosio, il magistrato, amico di Falcone che lavora al Quirinale e viene intercettato dalla procura di Palermo quando l’ex ministro Nicola Mancino lo chiama per perorare la sua innocenza rispetto alla falsa testimonianza sull’incontro con Paolo Borsellino nel quadro dell’indagine sulla trattativa Stato-mafia.
«Questa storia del suicidio di Gioè secondo me è un altro segreto che ci portiamo appresso… non è mica chiaro a me questa cosa», dice. Ai magistrati di Palermo ha poi spiegato: «A me quel suicidio non mi è mai suonato… Insomma che cosa in realtà è accaduto nelle carceri in quel periodo, questa è la vera domanda che mi pongo io al di là del 41 bis… insomma questo suicidio così strano… ecco mi… ha turbato, mi turbò nel ’93 e mi turba ancora». (15 continua)