Nel labirinto delle mafie a cura di Attilio Bolzoni ed Enrico Bellavia
24 Luglio 2017
Un procuratore con troppi amici
Difendersi dall’interno, ecco quale era la vita quotidiana dei giudici al tempo delle stragi. Pietro Giammanco, il capo dell’ufficio, il procuratore capo, era in rapporti con Salvo Lima e Mario D’Acquisto, potente deputato regionale andreottiano. Un cugino, capo dell’ufficio tecnico del comune di Bagheria. Bagheria roccaforte di Bernardo Provenzano proprio in quegli anni. E quel cugino di Pietro Giammanco, era considerato dai boss di Cosa Nostra il miglior canale per arrivare al procuratore capo.
Un itinerario, quello di Paolo Borsellino che prevede soste fisse. Su tutte, quella a casa della madre. Come in quella maledetta domenica del 19 luglio del 1992.
Come per Giovanni Falcone anche per Paolo Borsellino non ci sono misure straordinarie. La scorta e basta, la blindata e basta. Per Falcone non c’era l’elicottero, per Borsellino nemmeno una zona rimozione davanti la casa della madre. Così per i mafiosi è fin troppo facile piazzare un’autobomba proprio lì. Antonio Vullo, il superstite della strage, ricorda con esattezza che a colpirlo, arrivando quella domenica, furono le auto posteggiate in mezzo alla strada a far da spartitraffico in quella via chiusa in fondo da un muro. Un budello perfetto per la macelleria di Cosa Nostra.
Quando la strage fu compiuta, è sulla mancata protezione di Borsellino che i giovani e meno giovani magistrati del suo ufficio ingaggiarono la battaglia che portò alla defenestrazione del procuratore capo della repubblica di Palermo Pietro Giammanco. E la faccenda si chiuse lì. Nessuna altra conseguenza.
A occuparsi della protezione di Giovanni Falcone come quella di Paolo Borsellino, era la squadra mobile diretta allora da Arnaldo La Barbera, fama da duro e inossidabile, nella realtà a libro paga dei servizi segreti con un’ indennità le cui tracce sono state scoperte molti, moltissimi anni dopo. (9 continua)