Primo sangue Delitto Scopelliti: l’omicidio, ancora oggi senza colpevoli, del giudice che non volle trattare. Di Aldo Pecora e Rosanna Scopelliti
Primo sangue
Delitto Scopelliti: l’omicidio, ancora oggi senza colpevoli, del giudice che non volle trattare.
Autore: Aldo Pecora, Rosanna Scopelliti
Editore: Rizzoli Collana: Bur Saggi
Foto e Nota di: bur.rcslibri.corriere.it
Io sono stata costretta a vivere senza mio padre, ma posso andare fiera del suo nome e del suo esempio. Io ho avuto dignità, libertà, onore. Basta un niente per perderli.
Rosanna Scopelliti
Il 9 agosto 1991 il giudice Antonino Scopelliti veniva ucciso in un agguato a Campo Calabro, lasciando la moglie e la figlia di sette anni, Rosanna, della cui esistenza, per motivi di sicurezza, pochissimi sapevano. La morte di Scopelliti, impegnato in quei giorni in Cassazione per il maxiprocesso di Palermo, apriva di fatto la stagione delle stragi, il duro e ambiguo confronto tra Stato e mafia che avrebbe portato, poco dopo, alle morti di Falcone e Borsellino. Iniziava così una collaborazione inedita e pericolosissima tra mafia e ’ndrangheta, senza l’assenso della quale non sarebbe stato possibile giustiziare un magistrato in terra calabrese. Eppure il caso fu facilmente insabbiato: i colpevoli, identificati in membri della ’ndrangheta ma, prima ancora, in Totò Riina e Nitto Santapaola quali mandanti, saranno tutti assolti dopo una lunga e dolorosa vicenda processuale. In Primo sangue Aldo Pecora riapre il caso Scopelliti, ricostruendo una vicenda che ancora costituisce una vergogna per le nostre istituzioni, e narrando non solo eventi inediti, ma una storia familiare difficilissima.
Il dolore per quella morte tanto feroce porterà con gli anni Rosanna a impegnarsi attivamente, assieme allo stesso Pecora, nel contrasto civile alla ’ndrangheta con l’associazione Ammazzateci Tutti. Nel tentativo, ancora oggi in atto, di fare giustizia anche per la memoria di Antonino Scopelliti.
Delitto Scopelliti: l’omicidio, ancora oggi senza colpevoli, del giudice che non volle trattare.
Il patto segreto tra ’ndrangheta e Cosa Nostra che aprì la stagione delle stragi. Interviste esclusive a Salvatore Boemi e Nicola Gratteri.
Aldo Pecora, nato a Reggio Calabria nel 1986, è giornalista, autore televisivo e blogger. Nel 2005 ha fondato il movimento antimafie Ammazzateci Tutti, che tuttora presiede, e dal 2007 è segretario organizzativo della Fondazione Antonino Scopelliti. Attualmente lavora per Rai Educational. Il suo sito è
Articolo del 17 Dicembre 2010 da catania.meridionews.it
Il sangue di Scopelliti, sigillo di un’alleanza
di Perla Maria Gubernale
A Catania la presentazione del libro-inchiesta sul caso del giudice calabrese ucciso nel ’91 da un patto segreto tra Cosa Nostra e ‘Ndrangheta. La morte del magistrato aprì la stagione delle stragi di mafia, ma i suoi assassini non hanno ancora un nome
Il giudice Antonino Scopelliti, Sostituto Procuratore Generale presso la Suprema Corte di Cassazione, è stato ucciso con due colpi d’arma da fuoco il 9 agosto del 1991, mentre, a bordo della sua automobile, percorreva la strada provinciale tra Villa San Giovanni e Campo Calabro. Inizialmente si pensò che Scopelliti fosse rimasto coinvolto in un incidente stradale, in un delitto passionale, o addirittura in un regolamento di conti interno, ma l’esame del cadavere fece emergere la verità sulla morte del magistrato, che perse la vita per mano mafiosa a causa del patto segreto tra ‘Ndrangheta e Cosa Nostra che aprì la stagione delle stragi.
Quando fu ucciso, Scopelliti stava lavorando al processo in Cassazione contro i mafiosi condannati nel primo maxiprocesso a Cosa Nostra. Toccava ai lui sostenere l’accusa nell’ultimo grado di giudizio: quello in cui, negli anni precedenti, erano spesso cadute – per ragioni quasi sempre formali – molte sentenze di condanna. Per questa ragione, si ritiene che il suo omicidio sia stato ordinato da ‘Ndrangheta e Cosa Nostra, perché si rifiutò di cedere a diversi tentativi di corruzione. Infatti, in base a quanto dichiarato dal pentito Marino Pulito, a Scopelliti furono offerti 5 miliardi per rivedere la requisitoria contro i boss della Cupola siciliana. Versione confermata anche dai pentiti della ‘Ndrangheta Giacomo Lauro e Filippo Barreca, secondo cui sarebbe stata Cosa Nostra a chiedere l’uccisione di Scopelliti come “favore”alla ‘Ndrangheta. Cosa Nostra, in cambio, sarebbe intervenuta per interrompere la seconda guerra di mafia che divampava a Reggio Calabria dal 1985. Due i processi celebrati a Reggio per questo omicidio: il primo contro Totò Riina e tredici boss della Cupola, il secondo processo contro Bernardo Provenzano ed altri nove boss della Commissione regionale, tra i quali Nitto Santapaola. In primo grado le condanne furono numerose. Ma in Appello, tra il 1998 e il 2000, queste sentenza furono annullate perché le accuse dei diciassette collaboratori di giustizia, nonché del boss Giovanni Brusca, furono considerate discordanti.
Fino ad oggi, la morte del giudice Nino Scopelliti non ha ancora ottenuto giustizia, e per il suo assassinio la ‘Ndrangheta calabrese non è mai stata processata.
Per questa ragione, dall’incontro tra Aldo Pecora, presidente del movimento antimafia calabrese “Ammazzateci tutti” e Rosanna Scopelliti, figlia del magistrato assassinato, è nato “Primo sangue”, un libro-inchiesta sulla storia del giudice solo, ucciso perché “non ha voluto trattare”, presentato a Catania lo scorso mercoledì alla libreria Tertulia.
«Il volume è nato da un’esigenza di memoria per un paese come l’Italia, incline a dimenticare – spiega Aldo Pecora, autore del libro. – Abbiamo voluto ricostruire un periodo storico fondamentale, quando Cosa Nostra si preparava ad attuare un disegno sconcertate: le stragi di mafia. Nino Scopelliti è stato il “primo sangue” perché aveva in mano il Maxi processo in Cassazione e la sua morte è stata un segnale forte che la mafia ha voluto mandare a Roma». Dopo aver chiarito i punti sulla lunga vicenda giudiziaria che ha interessato la morte del magistrato, e le dinamiche che hanno portato alla conclusione dell’accordo “infame” tra Cosa Nostra e ‘Ndrangheta calabrese, Pecora mette sul piatto le ragioni che lo hanno spinto ad accettare di scrivere un volume che «non deve vendere, ma aprire un varco e far luce su quello che è accaduto a Campo Calabro vent’anni fa, e sui nuovi scenari della criminalità organizzata. Scopelliti è stato il primo sangue, ma deve essere anche l’ultimo di un giudice calabrese ucciso e lasciato solo dallo stesso stato che ha servito fino alla morte, e ricostruendo la sua storia ricostruisco la vergogna dello stato italiano in Calabria dal ’91 al 2005», conclude l’autore.
“Primo sangue”, come tiene a precisare Pecora, è rivolto ai giovani e ripercorre con occhio giornalistico la storia della mafia degli anni ’80 e ’90, con un prospettiva anche sul presente della ‘Ndrangheta calabrese. La ricostruzione di quegli anni di fuoco è stata possibile anche grazie ai contributi del giudice Salvatore Boemi, «il Falcone calabrese», come lo definisce Pecora, memoria storica dell’antimafia reggina e «il primo che a voler processare la ‘Ndrangheta come organizzazione unitaria». Il libro contiene anche un’intervista esclusiva al magistrato Nicola Gratteri, considerato dall’autore «il futuro dell’antimafia».
Presente all’incontro anche Rosanna, figlia di Scopelliti, che ricorda il giudice come padre e come uomo che ha dedicato la vita alla ricerca della giustizia. «È stato un magistrato che faceva il suo lavoro. Non amo definirlo un eroe perché è un modo di lavarsi la coscienza: ognuno di noi può essere un eroe nel momento in cui sceglie da che parte stare. Mio padre era una persona normale, e un martire come tutte le vittime della mafia, che credeva nella giustizia e che per difenderla ha sacrificato il bene più grande. Era una persona come la quale ognuno di noi dovrebbe voler essere».
Rosanna è emozionata quando parla del padre che le è stato strappato in un modo così vile quando era solo una bambina. Racconta della sua infanzia, della paura che il padre provava temendo ritorsioni sulla sua famiglia, spaventato a tal punto da celare l’esistenza di sua figlia, costretto a doverla nascondere, durante gli spostamenti, in una “valigia rossa” perché non si fidava di nessuno. «Aveva paura, – dice – ma la combatteva col coraggio della fantasia. E con noi è stato sempre presente ed affettuoso». Rosanna parla anche della difficoltà, vissuta fino a qualche anno fa, nell’accettare le scelte del padre, della sofferenza e del senso di colpa, come se «fossimo noi, i familiari delle vittime, quelli sbagliati» e della solitudine nella quale le istituzioni hanno abbandonato lei e sua madre. Da qui anche la voglia di affidare le sue memorie di figlia e il ricordo del padre ad Aldo Pecora, perché «il libro andava fatto, e volevo che fosse qualcuno esterno alla vicenda a ricostruire la storia del giudice Scopelliti, qualcuno che analizzasse i fatti a mente fredda, non con gli occhi di una figlia. Il libro deve riaprire il fascicolo di un delitto che non è stato risolto e un processo incompleto. Mio padre non ha avuto giustizia e questo è vergognoso per il nostro Paese. Le storie delle vittime di mafia non devono essere dimenticate». E conclude: «Adesso, nonostante il dolore per la perdita di mio padre, posso dire di essere orgogliosa di lui. Non so quanti figli di boss possono dire la stessa cosa».
Fonte: aldopecora.it
Cronaca di una morte annunciata (da “Primo sangue” di Aldo Pecora)
di Aldo Pecora
Quando, dopo diversi mesi dalla morte di papà, trovammo la forza di rientrare a casa, in via della Scrofa, ricordo di aver sentito come mai prima il suo profumo in ogni cosa.
Papà odorava di sigarette, caffè e dopobarba. Sempre. Dalla mattina alla tarda notte quando, tra una pausa dal lavoro e un toast al formaggio, si avvicinava al mio letto per sincerarsi che stessi dormendo.
Quella sera però la piccola casa del centro che profumava di papà era tristemente e inesorabilmente vuota. Mi aggiravo stordita per il soppalco che ospitava il suo studiolo, guardavo la sua scrivania, la macchia di caffè sul verde del portadocumenti, il grande cane di peluche appoggiato sul divanetto di stoffa.
Non era cambiato nulla dall’ultima volta che ero stata lì. Eppure tutto era così privo di senso.
Gli innumerevoli quadri che ricoprivano ogni millimetro delle pareti mi sembravano sconosciuti, i paesaggi ritratti distanti, i soggetti immortalati nemici. E poi c’era il dipinto di un uomo accasciato a terra. Nella mia mente immaginai la sua mano tesa in cerca di aiuto e pensai agli ultimi attimi di vita di papà. Il suo corpo imprigionato nell’abitacolo della Bmw, le lamiere distorte dall’impatto, il sangue che colorava la tappezzeria candida. Cosa mai avrà pensato incontrando la morte?
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Il sole d’agosto sembra faccia sudare anche i crinali dell’Aspromonte che precipitano direttamente in mare, qui, sulla costa viola. La chiamano così da millenni, per il colore dei suoi fondali. «Ogni cosa si tinge con le diverse tonalità del colore viola, dando vita ogni sera, con i suoi spettacolari riflessi, a una visione sempre nuova» scriveva Platone già nel IV secolo avanti Cristo.
L’aria è ferma. Una cappa afosa soffoca quasi il respiro.
Sulla costiera squarciata dalla statale 18 i fichi d’india, che come un miracolo della natura fendono la roccia, sono maturi e i bambini li raccolgono nei secchielli, tra un tuffo e l’altro.
È il 9 agosto del 1991. È da poco passato mezzogiorno, quando un urlo violento scuote i bagnanti del lido Il Gabbiano: «Andate via, correte a riva! È per me, è una bomba!».
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Antonino Scopelliti, conosciuto come una persona discreta, tranquilla, per niente allarmista, non contiene più la paura.
Ultimamente, raccontano, è più teso di una corda di violino. La sua preoccupazione e la sua amarezza sono già emerse in diversi frangenti, in episodi che lasciano trasparire un’ansia sempre più acuta, sempre meno controllabile.
Alla fine di luglio, a Roma, esorcizzava il timore con una battuta e un sorriso. A chi gli chiedeva: «Adesso tra quanto la cambierai questa macchina?» (una nuovissima Bmw 318 color blu notte, consegnatagli in concessionario il 20 luglio), rispondeva: «Cambiarla? Io in questa macchina ci muoio».
Qualche giorno più tardi, intorno ai primi di agosto, non faceva mistero del suo stato d’animo, confidando ad alcuni amici i suoi timori per il maxiprocesso che, come vedremo, aveva capito essere la sua condanna a morte.
«È un’apocalisse» ripeteva.
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Il pomeriggio del 7 agosto, mentre rientrava dal mare, credette di essere pedinato. Sbanda, zigzaga, accelera e rallenta la corsa volutamente, diverse volte. Si tranquillizza, e riprende una guida regolare solo nel momento in cui identifica l’uomo al volante dell’auto dietro di lui: è Angelo Calveri, un conoscente, che preoccupato continua a seguirlo proprio perché crede che quello strano modo di guidare sia dovuto a un malore.
Quella stessa sera, volle sentire d’urgenza Rosanna, che si trovava in vacanza con la mamma e i nonni. Le fece delle bizzarre raccomandazioni, del tipo «mangia tanta tanta cioccolata», «fatti crescere i capelli», «promettimi che farai la brava».
Alla moglie Anna Maria, che nella stessa conversazione chiese spiegazioni circa il suo evidente stato di tensione emotiva, parlò di «cose grosse, grossissime».
E poi quella mattina, due giorni più tardi. Quel grido, «andate via, è una bomba», lanciato con disperazione tra gli scogli. Fortunatamente è solo un sacchetto di plastica, immondizia forse lasciata da uno scafo da poco passato di lì. Ma la memoria di Nino, forse, corre al fallito attentato dell’Addaura contro il collega Falcone, quando il 20 giugno del 1989 erano pronti a esplodere ben trentotto candelotti di dinamite non appena questi si fosse calato in acqua per un bagno, lì nella spiaggetta della villa presa in affitto dal giudice palermitano per le ferie estive.
Per la prima volta, con quell’urlo, Scopelliti condivide apertamente il suo stato d’animo con tutti i bagnanti.
Poche ore più tardi verrà ucciso.