Progetto di ricerca sulle vittime delle mafie “Un nome, una storia” – classe 3^D della Scuola Michelangelo di Napoli a.s. 2007/2008

 

JOE  PETROSINO

raccontato da Riccardo

Una delle prime vittime della mafia è stato Joe Petrosino. Giuseppe nacque a Padula nel 1860. Era di una famiglia non benestante, ma  con  il suo lavoro di sarto il padre era riuscito a pagare gli studi dei quattro figli. A tredici anni Joe emigrò insieme ai suoi familiari, crescendo nel difficile ambiente di Little Italy. Iniziò a vendere giornali, a lucidare le scarpe e ad imparare la lingua inglese. Nel 1877 ottenne la cittadinanza americana. Dopo il lavoro di spazzino passò  a  quello di informatore nel 1833 e poi con molti sacrifici entrò in polizia. Conoscendo la lingua e  i metodi dei criminali, Petrosino si fece strada, nonostante fosse l’unico poliziotto italiano.  Nel 1905 prese il comando di una piccola squadra di poliziotti e si specializzarono contro “la mano nera” che era un’organizzazione a carattere mafioso, collegata con la Sicilia, che controllava il racket. Seguendo una pista che poteva infliggere un colpo alla “mano nera”, Petrosino andò in Sicilia, ma venerdì 12 marzo 1909 fu ucciso con tre colpi di pistola in una piazza di Palermo. Cadde lentamente a terra e subito dopo si videro due persone svanire nell’ombra. Circa 150.000 persone parteciparono al suo funerale a New York.
Su Joe Petrosino sono stati scritti diversi libri, anche a fumetti. In particolare si ricorda una biografia pubblicata negli anni Ottanta dal giornalista e scrittore Arrigo Petacco.
Negli anni Trenta fu molto in voga una raccolta di figurine che avevano come punto centrale le avventure del poliziotto italo-americano.
Petrosino è stato al centro di diversi film e – sulla base appunto del libro di Petacco – anche di uno sceneggiato televisivo in 5 puntate, interpretato dall’attore Adolfo Celi nella parte del popolare investigatore, prodotto dalla RAI nel 1972 e intitolato Joe Petrosino. Sempre la RAI nel 2005 ha prodotto un nuovo sceneggiato pure intitolato Joe Petrosino, questa volta con l’attore Giuseppe Fiorello nei panni del poliziotto italo-americano [www.wikipedia.org].

In tre anni abbiamo molto approfondito il problema della legalità. Ci siamo molto attivati su questo argomento vedendo vari film e seguendo le storie riguardanti le vittime innocenti delle mafie.
La mia domanda è questa: ma c’è legalità nella società? La mia risposta è che secondo me in Italia la mentalità predominante è sempre quella di imbrogliare, fare i furbi quindi fare sempre qualcosa di illecito che va contro la legge. A mio avviso anche i responsabili delle istituzioni non applicano le regole con serietà e questo fa sì che la gente non rispetti la legge.

 

 

 

 

LIBORIO ANSALONE

raccontato da Mena

Liborio Ansalone abitava a Corleone, era comandante dei vigili urbani del paese e figlio dello storico segretario comunale.
Era un padre ed aveva 6 figli che vivevano a Palermo con la madre per  motivi di studio, tranne una di loro, la più grande, di nome Maria, che abitava in paese con il papà perché era in attesa di un bimbo. Egli non abitava più nella sua vecchia casa, ma in un appartamento preso in affitto.
Il 20 dicembre 1926 Ansalone  aveva guidato i militari del prefetto Cesare Mori per le vie del paese, indicando una per una le abitazioni dei mafiosi da arrestare.  Poi essi  sfilarono incatenati per il corso principale, fino al grande spiazzo del “Piano del Borgo”, dove sostarono, in attesa di essere tradotti all’Ucciardone. Questo era lo stile del prefetto Mori, che voleva suscitare grande impressione con le sue azioni.
Ma la mafia si vendicò molto tempo dopo, il 13 settembre 1945.
Ansalone era in piazza, entrò in un negozio per comprare del bicarbonato e andò verso casa, all’improvviso si udì  il crepitare di alcuni colpi di fucile, proprio nella sua direzione. Ansalone cadde al centro della piazza, accanto alla fontana di ghisa, colpito a morte. Al comandante dei vigili urbani, Liborio Ansalone, l’amministrazione comunale di Corleone ha dedicato una strada in contrada “Punzonotto”. Si tratta della traversa – ancora senza nome – che collega la via Rocco Chinnici alla via Ugo Triolo [La Sicilia, domenica 14 agosto 2005 articolo di Dino Paternostro].

 

 

 

 

 

BORIS GIULIANO

raccontato da Susy e Serena

Giorgio Boris Giuliano nacque a Piazza Armerina nel 1930. Fu investigatore della Polizia di Stato e Capo della Squadra Mobile di Palermo. Dedicò gran parte della sua vita alla lotta contro la mafia. La sua più grande soddisfazione  fu quando negli anni Settanta i processi contro la mafia iniziarono ad avere una conclusione positiva, mentre negli anni Sessanta la maggior parte dei processi contro la mafia erano chiusi con assoluzione degli imputati per mancanza di prove [www.wikipedia.it].

La sua storia è stata raccontata tante volte: fu il primo ad intuire che fra la fine degli anni ‘70 e ‘80 Palermo era diventata passaggio del traffico internazionale dell’eroina, dove inoltre si raffinava l’oppio che arrivava dalla Thailandia, dal Laos e dalla Birmania.
Giuliano si distingueva per le intuizioni brillanti, la tecnica e l’intelligenza, gli ottimi studi, l’ottima conoscenza dell’ inglese. Nel 1975, al suo ingresso in polizia, aveva frequentato un corso dell’ F.B.I. in  Virginia, unico poliziotto italiano.
La sua abilità e la sua decisione cominciarono a dar fastidio, egli sequestrò droga che apparteneva a Leoluca Bagarella. Poi scoprì delle armi della mafia e dopo questo episodio giunse al 113 una telefonata anonima : ”Giuliano morirà “.
Nel luglio del ’79 accompagnò la moglie e i suoi figli a Piedimonte Etneo dove avrebbero trascorso le vacanze, promettendo di raggiungerli una settimana dopo e se ne ritornò a Palermo.
Il giorno dopo, il 21 Luglio del 1979, uscì di casa, pagò il portiere e andò al bar Lux, che si trovava lì vicino e ordinò l’ultimo caffè  della sua vita. Boris Giuliano era stato il capo della squadra mobile di Palermo, costretto a lavorare  tra gente che rendeva difficile il suo lavoro, ma per i Palermitani era un mito, si dedicava anima e corpo al suo lavoro e aveva un temperamento forte e coraggioso, era coraggioso anche quando affrontava gli esponenti della mafia [http://www.piazza-grande.it/iniziative/borisgiuliano/lodato.htm – Boris Giuliano, un poliziotto all’antica di Saverio Lodato sull’Unità del 25 giugno 2005].
Fu l’ultimo poliziotto all’antica che lavorava da solo, scrivendo a mano, usando la macchina da scrivere,  prima della fase dei famosi pentiti, del pool antimafia e dei Maxi processi.
Si pensava che Boris Giuliano e il capitano dei carabinieri Emanuele Basile fossero  stati uccisi perché stavano lavorando a qualche indagine che vedeva coinvolti piccoli esponenti della mafia di campagna di Monreale, oppure perché stava scoprendo qualcosa di importante, che non si è più saputo, nei dintorni di Monreale.

Secondo me se Boris avesse lavorato negli anni ’90, magari al fianco di Falcone e Borsellino, le sue indagini avrebbero avuto maggiore successo e avrebbero reso possibile l’arresto di numerosi esponenti mafiosi. Giuliano fu l’ ultimo dei poliziotti all’ antica e il primo dei moderni.

Boris Giuliano mi è piaciuto molto, perché era una persona semplice e un gran poliziotto, anche se sapeva che sarebbe potuto morire, andò avanti ugualmente. Leggendo i documenti ho capito molte cose di lui, era una persona affidabile e tutti gli volevano bene. Nel testo è descritto il suo carattere e soprattutto il suo lavoro, però non si soffermava sull’aspetto fisico, che mi incuriosisce.

 

 

 

 

 

 

GIOVANNI BELLISSIMA
DOMENICO MARRARA
SALVATORE BOLOGNA

raccontati da Enrico

Altre tre vittime della mafia morirono in un agguato il 10 novembre 1979, solo perché facevano il loro lavoro. Questa vicenda sconvolse i familiari e  la città  a tal punto che  molti anni dopo, nel 2002, gli hanno eretto un monolito e tutta la città, i carabinieri, l’arcivescovo e il sindaco erano presenti alla benedizione [www.comune.san-gregorio-di-catania]. Credo che questo sia stato un gran campanello d’allarme per la polizia e la città, che devono reagire a queste ingiustizie e dire STOP alla mafia. Questi uomini sono degli eroi perché sapendo che rischiavano la vita hanno continuato a fare il loro lavoro fino alla morte, ma non sono morti per nulla, perché ci hanno dato una forza in più per combattere la mafia.

Nel 2006 c’è stata la XIV edizione del Memorial Day del SAP e dell’Associazione delle Vittime della Criminalità e del Terrorismo, l’AVICRI, in cui vengono ricordati ogni anno il Commissario Beppe Montana, l’Ispettore Giovanni Lizzio, i giornalisti Mariagrazia Cutuli e Giuseppe Fava, i carabinieri Horacio Mayorana, Giovanni Bellissima, Domenico Marrara e Bologna Salvatore, i fratelli Sebastiano e Giovanni Conti, Rita Privitera e Daniela  Mayorana, “tutti  morti perché convinti  di vivere la loro esistenza seguendo i valori della legalità, della solidarietà e della responsabilità.”[www.aetnanet.org/modules.]

 

 

 

 

 

CARLO ALBERTO DALLA CHIESA

raccontato da Andrea e Riccardo

Carlo Alberto dalla Chiesa nacque a Saluzzo il 27 settembre 1920. Generale dei carabinieri, fu famoso per la lotta contro il terrorismo italiano e più tardi per la battaglia contro la Mafia. Anche il padre lavorava nell’arma:  si dice che “la mela non cade mai lontano dall’albero”. Da giovane entrò a far parte della Resistenza ed operò in clandestinità nelle Marche e in Abruzzo, dove ebbe ruoli di importante livello. Nel 1944 partecipò alla liberazione di Roma.
Dopo la guerra fu inviato in Campania, precisamente a Caloria. Lì combatteva il banditismo e in questa lotta Carlo Alberto si fece conoscere. Su sua richiesta fu mandato in Sicilia, dove entrò a far parte delle Forze Repressione Banditismo, un corpo che combatteva criminali come Salvatore Giuliano, e non solo. Nell’isola fu a capo del Gruppo Squadriglie di Corleone dove svolse importanti indagini di grande delicatezza, meritando la medaglia d’argento al Valor Militare. Indagò sulla scomparsa di Placido Rizzotto che poi si rivelò omicidio, incriminando per quel delitto Luciano Liggio, in quell’epoca agli inizi del suo percorso in Cosa Nostra. Dalla Chiesa indagò anche sulla morte di  Enrico Mattei. Il suo aereo precipitò poco prima dell’arrivo all’aeroporto. Lavorò non solo in Sicilia, ma anche a Firenze, Como, Roma. Dal 1966 al 1973 stette in Sicilia col grado di colonnello, al comando dei carabinieri di Palermo, e grazie alle sue tecniche di investigazione catturò boss come Gerlando Alberti o Frank Coppola. Nel 1970 svolse indagini sulla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro. Le indagini furono condotte insieme alla collaborazione della polizia, dell’indagine si occupava Boris Giuliano. Nel 1973 fu promosso al grado di generale di brigata, dopo aver selezionato 10 ufficiali dell’arma, creò un’organizzazione antiterrorismo. Nel 1974 arrestò Renato Curcio e Alberto Franceschini che erano due esponenti delle Brigate Rosse grazie anche all’infiltrazione di un agente, Silvano Girotto. Nel 1977 fu nominato coordinatore del Servizio di Sicurezza degli Istituti di prevenzione e pena; in seguito a questo, nel 1978 ebbe poteri speciali e fu nominato coordinatore delle forze di polizia e degli agenti informativi per la lotta contro il terrorismo. Operò anche contro le Brigate Rosse alla ricerca degli assassini di Aldo Moro. Da alcuni questa nomina fu vista come pericolosa, nacquero delle polemiche, ma vennero subito messe a tacere dall’impressionante lavoro di Dalla Chiesa. Egli introdusse, inoltre, il metodo di parlare con il carcerato disposto a collaborare, che prese il nome di “pentito”, ma sfruttò anche le infiltrazioni. Si scoprì abbastanza sull’organizzazione terroristica da poterla contrastare efficacemente.  Il generale ebbe successo nel capire chi fossero gli assassini di Moro e della sua scorta e così l’arma dei carabinieri guadagnò la fiducia della gente.

Il 2 Aprile  1982 scrisse al presidente del Consiglio Spadolini e dichiarò che in Sicilia la corrente che aveva a capo  Giulio Andreotti  era quella più inquinata da rapporti con la mafia.
Il 2 maggio  venne inviato a Palermo  come prefetto per la lotta contro la mafia.
Il 12 Luglio in seconde nozze si sposò con Manuela Setti Carraro. A Palermo egli lamentò la carenza di sostegno dallo stato  e secondo me anche per questo fu ucciso dalla mafia.
Egli chiese al ministro democristiano dell’interno, Rognoni, poteri speciali e aggiuntivi per poter assumere il controllo delle attività investigative dirette alla lotta contro la mafia. Gli fu  promesso che li avrebbe avuti e perciò egli aveva accettato l’incarico, ma la decisione tardava, perciò egli rese pubblica questa richiesta  con un’intervista  ad una TV nazionale. In seguito Rognoni dichiarò  di aver fissato proprio per  il 3 settembre, giorno in cui Dalla Chiesa fu ucciso, una riunione dei prefetti  per conferirgli  questi poteri.
Dalla Chiesa ricoprì l’incarico solo per 100 giorni, il delitto  avvenne il 3 settembre 1982 e  fu eseguito in modo militare, perciò suscitò scalpore, non solo per la morte,  ma anche per la dinamica.
Secondo la ricostruzione,  la A112 guidata dalla moglie, dove viaggiava il prefetto, fu affiancata da una Bmw con a bordo Antonino Madonia e Calogero Ganci (poi pentito); i due fecero fuoco, ma in realtà pare che a fare fuoco fu solo Antonino Madonia, con un fucile AK-47. Contemporaneamente l’auto della scorta  fu affiancata da una moto guidata da Pino Greco detto “scarpuzzeddo” che fulminò l’agente di scorta, Domenico Russo. Oltre a questi criminali ce ne furono altri di riserva per intervenire nel caso di una reazione  efficace del Russo, che non avvenne.
Le carte relative al sequestro Moro, che il prefetto aveva portato con sé  a Palermo, sparirono dopo la sua morte. Ai funerali di Dalla Chiesa, la figlia Rita pretese che fossero tolte di mezzo le corone di fiori inviate dalla regione Sicilia, che secondo lei ostacolava il lavoro di Dalla Chiesa, affermando che il fenomeno mafioso era “pura invenzione di detrattori della Sicilia” [www.wikipedia.it].

In una puntata della trasmissione Rai “Cominciamo bene: figli”: i figli dell’agente Domenico Russo, Dino e Antonio, parlano del padre e precisano che lui è morto il 15 settembre, per le ferite riportate cercando di difendere Dalla Chiesa e la moglie. Loro avevano 4 e 2 anni, pensano che il padre sia stato dimenticato; raccontano che era un tipo molto allegro e socievole.

IL FILM “100 GIORNI A PALERMO”

Commentato da Camilla

Il film è chiamato così perché il prefetto è stato ucciso precisamente a 100 giorni dal suo arrivo. Coincidenza? C’è chi dice che non è una semplice coincidenza, ed onestamente non l’ho capito nemmeno io. Nel film però erano molto impresse le inquadrature dei giornali in cui veniva scritto ’96 giorni, 97, 99…’, ed era proprio la moglie a sospettare ansiosamente, e facendo i calcoli, le cose coincidono…
Dalla Chiesa era molto temuto dalla mafia, perché fu il primo a capire che il modo più efficace per abbassare il potere economico ed anche morale alla mafia era mirare agli interessi economici. Era molto preciso e premuroso non solo nei confronti della moglie, con la quale discusse più di una volta per non farsi raggiungere a Palermo, prima di sposarsi, ma anche nei confronti di se stesso e del proprio lavoro.
Infatti la prima cosa di cui si preoccupò fu di avere ‘le carte’ di coloro che lavoravano con lui. Fu così che scoprì che al servizio nel palazzo del prefetto c’erano più di un parente di mafiosi o collaboratori della mafia…

Regia di GIUSEPPE FERRARA
Anno 1984

 

 

 

 

 

 

ANTONINO AGOSTINO

raccontato da Andrea

Agostino era un agente PS in servizio presso la questura di Palermo. Le ragioni del suo omicidio sono ancor oggi ignote e nulla in 22 anni è stato scoperto. Fu ucciso il 5 agosto 1985 a Villagrazia di Carini (Pa) insieme alla moglie Ida Castellucci che era in attesa di un bambino.

Nino fu ucciso davanti alla sua casa, e il padre fece in tempo solo a poggiare la sua testa dolcemente sull’ asfalto pieno di sangue. Ora il padre vorrebbe sapere chi è stato ad uccidere il figlio, ma sono passati 20 anni e aspetta ancora di sapere chi è stato. La polizia diceva sempre “stiamo indagando” ma gli hanno ripetuto questo per 20 anni. Quando il presidente Prodi fece una manifestazione, lui andò e indossò due cartelloni come i “sandwich man” fanno in America. Il presidente gli disse che lo stato si stava interessando, ma intanto già erano passati 20 anni e lui, come segno di testimonianza del suo dolore e della sua attesa di giustizia, da quando è morto il figlio non si taglia più la barba.
Ormai è diventato vecchio, ha i capelli bianchi e aspetta ancora giustizia. Ha detto che se ancora dovrà aspettare andrà a chiedere quelle “persone”, i mafiosi, pur di sapere  chi è stato e perché, già una volta incontrò Bernardo Provenzano in questura e gli disse:
“PRIMA DI MORIRE RICORDATI DI MIO FIGLIO”, ma lui lo guardò negli occhi e non disse niente, poiché neanche la Mafia sa chi è stato, infatti Cosa Nostra stava facendo una ricerca sui due assassini, e forse un giorno si verrà a sapere chi sono [“Chi uccise mio figlio? Dovrò chiederlo al boss” da L’Unità del 19 novembre 2006].

 

 

 

 

 

 

VITO SCHIFANI

raccontato da Serena

Nella macchina di scorta a Falcone c’era pure Vito Schifani, secondo la moglie il migliore agente di Falcone , che morì con gli altri il 23 maggio 1992.
Al suo funerale lei, Rosaria Costa, volle parlare agli uomini della mafia e disse parole simili: “Io vi perdono, però inginocchiatevi e diventate anche voi operatori di pace, giustizia  e speranza, altrimenti non solo vi troverete contro il popolo, ma anche i vostri figli che vedranno le vostre mani sporche di sangue; convincetevi di non essere padroni della vita e della morte spargendo solo odio. Nella strage dell’autostrada avete commesso l’errore più grande tappando cinque bocche ne avete aperte tante cinquanta milioni, ma se noi ci convincessimo di non voler perdonare allora la daremmo vinta a voi.”
Vito Schifani era un ragazzo alto e atletico che ha dato la sua vita per aiutare Falcone, gli era molto fedele e amava sua moglie e il suo bambino, che chiamava Bibi, amava stare sempre con la gente [dal libro “Vi perdono, ma inginocchiatevi” di Costa  e Cavallaro]. Questi particolari sono raccontati nel libro scritto dalla moglie e da un giornalista,  ne ho letto una parte e mi ha commosso.
In un articolo si racconta il ritorno di Rosaria a Palermo 15 anni dopo, con il figlio Manù, che vede per la prima volta la Sicilia [www.corriere.it/Primo_Piano/Cronache/2007/05_Maggio].
Su internet è possibile vedere il filmato del famoso discorso di Rosaria Costa ai funerali del marito e degli altri agenti di scorta [http://mediacenter.corriere.it/].

 

 

 

 

 

 

EMANUELA LOI

raccontato da Stefania

Emanuela Loi era una ragazza che aveva solo ventiquattro anni ed era solo una piccola poliziotta che, senza esperienza e  maturità, fu mandata a lavorare a Palermo dove i “corleonesi” avevano tolto la vita a tanti giudici, poliziotti, magistrati. La notizia preoccupò tutti i familiari, ma lei aveva scelto quel mestiere liberamente e voleva svolgerlo al meglio. In realtà la sua prima idea era fare la maestra, poi partecipò al concorso insieme alla sorella e fu lei ad entrare in polizia, come la sorella racconta nella trasmissione “Niente di personale” Quando la mattina del 19 luglio 1992 Emanuela andò a lavorare, sembrava un giorno normale, ma lei sapeva molto bene che il mestiere che faceva le poteva costare la vita: addirittura faceva parte della scorta di Paolo Borsellino. Solo pochi mesi prima avevano ucciso Giovanni Falcone e quindi tutti sapevano che prima o poi doveva arrivare il turno di Paolo, ma lei era legata al suo lavoro ed era fiera di scortare quell’uomo che lottava da solo contro i mafiosi. Emanuela era una ragazza che amava questo mestiere e voleva sconfiggere la mafia. Era domenica e tutti i poliziotti che facevano parte della scorta di Borsellino andarono in Via D’Amelio perché Paolo quando aveva un po’ di tempo libero andava a trovare sua madre. Ma i “corleonesi” fecero prima di loro, parcheggiarono una 126 in Via D’Amelio che portava un carico di tritolo. All’improvviso non si capì più niente, solo pianti, urla di persone.
Solo pochi minuti dopo si sentì la notizia alla radio, alla televisione, e dal telegiornale lo seppero anche i genitori.
Ancora oggi si parla di tutto ciò perché sono morti tanti giudici e tanti altri che difendevano la giustizia. La mafia ha spento tanti sogni, anche quelli di Emanuela, le ha portato via la possibilità di godersi l’età più bella.
Infatti Emanuela Loi è stata la prima ragazza a far parte di una scorta assegnata a obbiettivi e rischio!
Con lei morì Agostino Catalano, il capo scorta, a 43 anni già vedovo e padre di un bambino, agente esperto, che faceva un po’ da padre a tutti gli altri ragazzi della scorta, Walter Eddie Cosina (30 anni), Claudio Traina (26 anni) e Vincenzo Li Muli (22 anni)[da “La ragazza poliziotto” di F. Massaro ne  “La scelta” pp120- 124]. L’assistente capo Agostino Catalano, lasciò due figli. Appena poche settimane prima aveva salvato un bambino che stava per annegare in mare, dinanzi alla spiaggia di Mondello. L’agente scelto Walter Eddie Cosina era giunto volontariamente a Palermo alcune settimane prima, subito dopo la strage di Capaci, proveniente dalla Questura di Trieste.
L’agente Claudio Traina era sposato e padre di un bimbo in tenera età [www.cadutipolizia.it].

 

 

 

 

 

 

LUIGI BODENZA

raccontato da Manuela

Luigi Bodenza nacque a Enna nel 26 settembre 1994, primogenito di tre figli. Negli anni 50 il padre cominciò a lavorare all’ospedale Umberto I di Enna. Luigi dopo aver frequentato le elementari si iscrisse all’avviamento professionale e dopo aver ottenuto la licenza iniziò a lavorare come apprendista idraulico. Grazie alla sua grande capacità di apprendere in fretta, venne assunto da una ditta del nord. In seguito partì per Milano dove lavorò come saldatore specializzato all’Alfa Romeo fino al momento del servizio militare. Dopo aver avuto il congedo, Luigi tornò ad Enna e decise di partecipare ad un concorso per entrare nel corpo degli agenti di custodia. Come primo incarico di questo lavoro venne assegnato alla casa circondariale di Capraia. Dopo due anni venne trasferito a Catania, dove diventò assistente capo della casa circondariale di piazza Lonza.
A Catania conobbe una ragazza di Gravina. La ragazza si chiamava Rosetta. Dopo pochi mesi decisero di sposarsi e dopo poco nacquero Paola e Giuseppe.
La mattina del 24 marzo chiamò la moglie in cucina per mostrarle un documento in cui c’era scritto che il giorno prima la direzione del carcere aveva concesso l’utilizzo di una cabina in un lido riservato alla polizia penitenziaria. Luigi Bodenza dopo poche settimane sarebbe andato in pensione, non sapeva che in quella stessa notte lo attendeva un tragico destino. Fu ucciso il 25 marzo 1994 dalla mafia [www.giustizia.it].

Questo è il terzo anno che svolgiamo questo tipo di lavoro, ma rispetto alla prima media credo che quest’anno siamo stati più in grado di capire.
Nell’educazione alla legalità non si parla solo di persone uccise dalla mafia, ma anche dello sfruttamento dei minori, delle eco mafie, di molto altro.
Con la scuola siamo andati anche alla manifestazione del 21 marzo che quest’anno si è svolta il 15 marzo a Bari. E’ stata una manifestazione molto bella,  almeno per me che ci sono stata; mi sono sentita molto presa, specialmente dalla gente che era lì e veniva da molti posti per sentire tutti quei nomi delle vittime uccise dalla mafia e le loro storie.

 

 

 

 

 

GIUSEPPE MONTALTO

raccontato da Stefano

Giuseppe Montalto era un Agente di Polizia Penitenziaria, aveva prestato servizio prima al carcere Le Vallette di Torino e poi all’Ucciardone di Palermo, nella sezione detentiva per soli mafiosi. Un uomo buono e generoso, che svolgeva il suo lavoro mostrando comprensione verso chi era costretto a vivere in carcere, ma fu assassinato la sera del 23 Dicembre 1995, davanti alla moglie e alla figlia di 10 mesi. La sua colpa era quella di avere sequestrato all’Ucciardone un foglietto con cui due boss comunicavano [www.cittafuturatrapani.it].
Donato Placido gli dedicò il volume “Montalto, fino all’ ultimo respiro”. Gian Carlo Caselli, giudice che  sostituì Giovanni Falcone, nella prefazione del volume disse che lui e gli altri sono forse morti perché noi non siamo stati abbastanza vivi e non abbiamo vigilato a dovere [www.leduecitta.com/].

La mafia e la camorra non sono solo morti e ingiustizia, ma sono anche collegate a tutti i problemi della nostra vita, come i rifiuti a Napoli. La nostra società non è rigorosa nel rispetto delle regole e non dà molta importanza alla legalità. Molti politici sono corrotti e hanno paura di affrontare la camorra.
Una delle tante vittime della mafia che, invece, aveva scelto di opporsi a questa è Giuseppe Montalto, un grande uomo a parer mio.

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