Progetto di ricerca sulle vittime delle mafie “Un nome, una storia” – classe 3^D della Scuola Michelangelo di Napoli a.s. 2007/2008

 

 

 

ROCCO GATTO

raccontato da Chiara

Rocco Gatto nacque nel 1926. Da bambino aiutava suo padre Pasquale come garzone in un mulino di Gioiosa Ionica nella Locride; aveva cinque fratelli. Diventò  proprietario del mulino nel 1964 e da allora incominciarono i suoi guai, incominciarono le prime richieste di “pizzo”dalla cosca degli Ursini.
Ma Rocco aveva preso il carattere del padre, così fiero da non accettare compromessi e imposizioni da nessuno; persino durante il fascismo si era rifiutato di iscriversi al partito. Perciò non volle mai pagare  la tangente che gli veniva richiesta, subì furti, incendi e minacce da Luigi Ursini e Mario Simonetta, che poi furono condannati nel1988 per estorsione aggravata.
Non era il solo a opporsi alla ‘ndrangheta in quegli anni,  prima di lui c’erano state le proteste delle gelsominaie  sullo Ionio in provincia di Reggio Calabria, quella dei braccianti sulla Piana. Gioiosa fu il primo paese, in cui fu organizzato uno sciopero cittadino contro la mafia, nel 1975, fu il primo in Italia. In questo paese vivevano anche don Natale Bianchi, un prete che si scontrò con chi, anche nella Chiesa, era vicino alla mafia, e il capitano dei Carabinieri Gennaro Niglio, che faceva davvero il suo dovere.

Rocco  venne ucciso il 12 marzo del 1977. Suo padre Pasquale accusò gli Ursini, si ribellò per mesi, continuando a chiedere giustizia per la morte ingiusta di suo figlio. Per fermarlo venne anche profanata la tomba di Rocco, ma lui continuò a ribellarsi e a parlare con i giornalisti e nelle trasmissioni televisive.
Nel 1982 il presidente Pertini si recò in Calabria per consegnargli la medaglia al valor civile conferita al figlio e ruppe le regole abbracciandolo. Il processo portò molti arresti e condanne. Rocco fu ricordato nella comunità comunista  anche con un murales in piazza Vittorio Veneto a Gioiosa Ionica, realizzato da artisti delle CGIL di Milano [www.ammazzatecitutti.it].

“Arrivarono da Milano nell’estate del ’78, ospiti del Pci di Gioiosa Ionica. Creativi-militanti della Cgil meneghina e artisti locali gemellati nel nome di Rocco Gatto. Nacque così il murales di piazza Vittorio Veneto. E’ il Quarto Stato dell’anti-‘ndrangheta, ricorda le vittime delle cosche e gli onesti che si sono opposti e ancora si oppongono alla mafia. E’ il simbolo dell’altra Calabria. Ma ora il murales rischia di scomparire, insieme alla memoria delle tante storie di resistenza che rappresenta. L’associazione daSud e il ”Comitato pro murales teatro Gioiosa” hanno promosso una campagna per il restauro, per dare un segnale forte in un momento delicato” [www.libera.it del 26 dicembre 2007].

 

 

 

 

 

PIETRO PATTI
GIOVANNI CARBONE

raccontato da Silvia e Sara DB

Era il periodo di massima potenza della mafia e del pool-antimafia, quando due imprenditori di Palermo, Pietro Patti e Giovanni Carbone si opponevano alla mafia e ai suoi ricatti. Pietro Patti fu ucciso il 27 febbraio del 1985, Giovanni Carbone il 13 marzo, dopo la morte il loro ricordo è rimasto solo ai parenti (morti di serie “B”).
Il loro ricordo mette in risalto le contraddizioni di una società che non riesce a ribellarsi alla mafia. Patti e Carbone volevano combattere un aspetto del potere mafioso che nessuno aveva il coraggio di denunciare: quello commerciale-economico.
I due non accettavano i politici corrotti, le persone che in qualche modo aiutavano la mafia non denunciandola e facevano di tutto per cambiare il sistema politico-mafioso.
Per i rappresentanti istituzionali è più facile ricordare le vittime più conosciute e più seguite dai mezzi di comunicazione. Perché alcune vittime sono state ricordate e altre no? [www.solidariaweb.org/documenti/Patti-Carbone.pdf] Una dichiarazione simile ha fatto il vicepresidente della Commissione parlamentare Antimafia, Giuseppe Lumia, ricordando Pietro Patti, nel febbraio 2008 [www.primapress.it].
Tutti loro hanno il diritto di vivere attraverso il nostro ricordo; per ricordare il loro coraggio e  la loro voglia di dire NO AL RACKET, NO ALLA MAFIA.

 

 

 

 

 

DONATO BOSCIA

raccontato da Andrea

Donato Boscia era un ingegnere  che fu ucciso a 31 anni, perché si oppose alla mafia e non volle pagare il pizzo. Lui non era un imprenditore autonomo, ma era direttore di un cantiere per conto della ditta “Ferrocemento”. Era il sostituto di un ingegnere che se ne era andato poiché aveva subito minacce  dalla mafia, allora la ditta lo mandò a sostituirlo alla direzione  del cantiere, aperto  per la costruzione di enormi serbatoi d’acqua a MonteGrifone, nel cuore di Ciaculli.
Era il 1986; dopo un poco la ditta ebbe un avviso, una piccola esplosione fece saltare in aria un elettrocompressore del valore di 50 milioni di £. Lui dichiarò che non c’erano state minacce, ma dopo 2 anni, il 2 marzo 1988, venne ucciso di sera, mentre tornava a casa. Subito si venne a sapere chi era il mandante dell’assassinio, perché un pentito confessò che il mandante era Giuseppe Lucchese. Tutti lo ricordano perché aveva detto di no alla mafia, ma noi lo ricordiamo grazie ai ragazzi delle scuole medie Falcone – Borsellino di Lascari, quindi dovremmo dire grazie a loro [da “Il Giornale di Sicilia” 18 agosto 2004].

 

 

 

 

 

LIBERO GRASSI

raccontato da Vincenzo

Libero Grassi nacque a Catania nel lontano 19 luglio 1924 e fu un imprenditore ucciso perché si rifiutava di pagare il pizzo.
Il suo destino fu un po’ segnato fin da quando era piccolo, poiché il suo nome era ispirato a Giacomo Matteotti che morì per difendere la libertà.
Da giovane si trasferì a Roma per studiare, sempre a Roma seguì un corso in seminario per non andare in guerra.
Lasciato il corso, andò a Palermo per studiare giurisprudenza.
Finiti gli studi avrebbe voluto seguire la carriera diplomatica, ma seguì il padre nel suo lavoro di commerciante. Imparò l’arte dell’imprenditoria a Gallarate, per poi aprire un’impresa tessile a Palermo.
Si dedicò anche alla politica, scrisse alcuni articoli e si candidò col Partito Repubblicano Italiano.
La sua impresa tessile incominciò ad avere problemi, che aumentarono con alcune richieste di pizzo.
Lui ed i suoi operai ebbero il coraggio di ribellarsi e di denunciare gli estorsori.
Le sue condanne a morte furono una lettera pubblicata dal Giornale di Sicilia ed alcune interviste televisive; in queste due interviste rivelò i nomi ed i cognomi degli estorsori.
Venne ucciso il 29 agosto 1991 a Palermo. Per il suo omicidio vennero condannati Totò Riina, Bernardo Provenzano  e Pietro Aglieri [http://www.addiopizzo.org/].
Ricevette anche una medaglia d’oro al valore con la seguente motivazione:
“Imprenditore siciliano, consapevole del grave rischio cui si esponeva, sfidava la mafia denunciando pubblicamente richieste di estorsioni e collaborando con le competenti Autorità nell’individuazione dei malviventi. Per tale non comune coraggio e per il costante impegno nell’opporsi al criminale ricatto rimaneva vittima di un vile attentato. Splendido esempio di integrità morale e di elette virtù civiche, spinte sino all’estremo sacrificio”.
All’indirizzo  http://www.addiopizzo.org/documenti si può vedere l’intervento di Libero Grassi alla trasmissione Samarcanda l’11 aprile 1991.

Dalla trasmissione Rai “Cominciamo bene: figli”: Alice e Davide ricordano il padre; lei era la sua cocca, con il figlio giocava a biliardo e vinceva sempre. Era convinto che la sua azienda doveva dare benessere alle persone che ci lavoravano. L’azienda è stata riaperta dal figlio con l’aiuto dello stato, ma questo sforzo ha logorato tutti i familiari. Eredi di Libero Grassi, secondo la figlia, sono i ragazzi di Addiopizzo, che hanno tappezzato la città di manifesti “un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità”. I familiari non hanno voluto una targa, ma ogni anno mettono nel luogo del delitto un manifesto con una frase scritta da un cittadino anonimo il giorno dopo la sua morte e dipingono di rosso il marciapiede.

RIFLESSIONI DI SARA V.

Come tutti noi ben sappiamo, la legalità è una cosa serissima, sono state fatte molte cose per appoggiarla, aiutarla… per la legalità si è anche formata una grande associazione contro la mafia che coinvolge nella sua azione tutta l’Italia, il suo nome è Libera! Si, Libera e cioè libertà dalla mafia, libertà di pensiero, parola, nessuna oppressione, “LIBERA”, fondata da Don Luigi Ciotti, un prete che sta davvero facendo di tutto per aiutarci, e che, secondo me, potrà riuscire nel suo intento, ma solo con l’appoggio di tutti noi, perché uniti si può, ma divisi… siamo troppo piccoli!
Quante persone hanno cercato di aiutarci, ma non sono riusciti ad avere il nostro appoggio e quello dello stato, siamo stati corrotti, e loro… sono morti.
Proprio per ricordare queste vittime che hanno voluto fare qualcosa per la società o che sono state uccise per sbaglio dalla mafia, facciamo una lunga manifestazione, il 21 marzo, cioè il primo giorno di primavera, il giorno della rinascita…di solito si svolge in una zona dell’Italia meridionale, perché è soprattutto lì che accadono queste brutalità…
Come ho detto prima le vittime sono tantissime e bisogna ricordarle, ognuna allo stesso modo; intanto però dobbiamo darci una mossa, perché la mafia si sta allargando sempre più. Per prevenire questo, l’associazione Libera, tra l’altro, ha deciso di creare un’iniziativa, cioè delle botteghe, dove si vendono varie cose, anche alimenti, prodotti da cooperative nelle terre sottratte alla mafia; questa iniziativa può essere di grande aiuto ed è per me molto utile. La Bottega dei Saperi e dei Sapori a Napoli si trova a S. Lucia.

Ultimamente, ma credo che ormai possiamo dire da sempre, stiamo parlando di mafia e camorra e di vari fattori che la riguardano; sinceramente, questo argomento mi piace molto, perché poi, alla fine ne risponde il nostro futuro, però … a volte è anche un po’ pesante.
Nella nostra società ci sono tanti problemi e la maggioranza ha a che fare con la mafia, come per esempio il problema dei rifiuti in Campania e, nessuno potrà mai capire il rancore e la rabbia che mi viene dentro quando ci penso; anche la spazzatura, oggetto inanimato e puzzolente, viene sfruttato dalle forze mafiose e non a fin di bene! Quest’oggi Napoli è tanto sporca perché la camorra viene pagata per trasportare qui rifiuti tossici da altri luoghi, e qui si parla del nord, abbiamo le prove!! La corruzione si diffonde ovunque…

 

 

 

 

 

 

PAOLO E GIUSEPPE BORSELLINO

raccontato da Sara V.

Nel giorno della manifestazione, lungo tutta la via, una voce al megafono dice il nome di ogni vittima, una lista lunga, piena di vittime innocenti… Giancarlo Siani, Rita Atria, Silvia Ruotolo… e poi Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, si, due giudici molto importanti, ma allo stesso tempo molto amici; secondo me, però, non tutte le vittime vengono ricordate allo stesso modo di Falcone, Borsellino… questo perché loro erano più importanti, non come altri, e questo non è giusto; per esempio non tutti, anzi forse quasi nessuno, tanto meno io, sanno che oltre al magistrato Paolo Borsellino esistevano altri due Borsellino,  uccisi Paolo il 24 aprile 1992 e il padre, Giuseppe, il 17 dicembre 1992 a Lucca Sicula, in provincia di Agrigento.
La storia dei due imprenditori è raccontata dal nipote di Giuseppe, Benny Calasanzio Borsellino, nel suo blog.
Giuseppe nacque a Lucca Sicula nel 1936; crebbe in una famiglia in cui il lavoro doveva essere fatto già da bambini. Si sposò giovanissimo con Lilla e da qui cominciò a fare una serie di lavori, andati più o meno bene che lo portarono a condurre camion e a fare il trasportatore.
Nel 1961 nacque suo figlio, Paolo, nonché zio di Benny; anch’ egli era orientato verso il genere di lavoro del padre… ciò portò entrambi i Borsellino a condurre un lavoro che riguardava  il movimento terra e trasporto di inerti; partirono con un budget molto basso, acquistarono un piccolo impianto usato per la produzione di calcestruzzo per una somma di 39 milioni di lire, che pagavano a rate.
Purtroppo, però, l’impresa non era tanto semplice da potare avanti, serviva molto denaro ed i Borsellino non ne possedevano poi così tanto.
Verso la metà degli anni ‘80 l’impresa riuscì ad avere una buona produttività, iniziò a fornire materiali prevalentemente ai privati, perché i lavori pubblici erano assegnati sempre alle stesse tre imprese: due erano di Agrigento e una di Giuliana, quasi come ci fosse stato un “patto” tra queste tre aziende, ma molto probabilmente tutte facevano parte di “Cosa Nostra”.
La mafia decise di impadronirsi di quella piccola azienda in posizione strategica e, approfittando del disagio che iniziava ad esserci nell’impresa Borsellino, alcuni imprenditori offrirono 150 milioni per rilevarla e Paolo al solo sentire questa offerta rispose con una frase beffarda e tagliente: “Con quei soldi non vi vendo nemmeno i pneumatici delle betoniere”. Dopo qualche mese ebbero una nuova offerta da parte della cosca di Lucca: 150 milioni per rilevare solo il 50% dell’impresa, da parte di Calogero Sala, imprenditore di Bugio, e altri soci.
I Borsellino decisero di accettare, anche perché ormai la situazione economica era al collasso.
I nuovi soci iniziarono subito ad investire nell’acquisto di mezzi e beni per l’impresa, mettendo sempre più in difficoltà i Borsellino, chiedendo loro sempre più denaro con l’intenzione di  costringerli a rinunciare del tutto alla loro quota dell’impresa..
I nuovi imprenditori erano decisi più che mai a mettere fuori gioco i Borsellino, i quali non si diedero per vinti e continuarono a lottare…
Si arrivò alle minacce, ai danni, poi  i soci  arrivarono a minacciare Giuseppe e Paolo anche in pubblico; i Borsellino, però, gente molto onesta, non avrebbe mai pensato, proprio per la loro onestà, che si arrivasse  alla morte di qualcuno, non se ne preoccuparono per niente, ma le vite dei due Borsellino iniziarono ad essere appesi ad un filo, un filo che il 21 aprile del 1992 si spezzò per Paolo Borsellino. Venne ritrovato con i piedi fuori dal finestrino, nella sua panda parcheggiata in uno dei depositi dell’impresa, come se fosse stato ucciso lì… bluff!
Quasi sicuramente il corpo fu portato, invece, lì dopo l’uccisione in un altro luogo. Quel giorno era tornato da Alcamo in compagnia del suo amico Giuseppe Maurello; erano andati a ritirare un pezzo di ricambio per un camion… Probabilmente al ritorno fecero una strada diversa che Paolo non conosceva, e forse anche Maurello era un complice di “Cosa Nostra”…
Pochi giorni dopo la morte di Paolo, venne restituita la sua auto ai Borsellino, i quali, guardando all’interno di quella Panda trovarono ancora i pallettoni del fucile sotto il sedile, quasi come se non fosse stata nemmeno esaminata…
La sera stessa della morte di Paolo, il padre decise di andare alla polizia e raccontare tutto ciò che sapeva, raccontò tutto, dalla nascita dell’impresa, alla vendita, alle minacce…
La polizia, però, non seppe ascoltare bene la storia di Giuseppe, anzi diciamo che non volle ascoltar. Egli  tentò di tutto: parlò con gli inquirenti, chiamò la commissione antimafia, si mise in contatto con il Centro Studi Impastato, cercò magistrati, capitani dei carabinieri, associazioni, non si fermò un solo minuto fino a quando, nel pomeriggio del 17 dicembre 1992, esattamente 8 mesi dopo la morte di Paolo… anche Giuseppe Borsellino fu ucciso. Borsellino? Erano tre, cerchiamo di non dimenticarlo… [http:/bennycalasanzio.blogspot.com].
La storia dei due imprenditori è raccontata nel libro “Senza storia” di Alfonso Bugea ed. Elio Di Bella

Il 30 maggio 1994 venne ucciso a Bivona, sempre in provincia di Agrigento, Ignazio Panepinto. Anch’egli gestiva una cava e un impianto di frantumazione di materiali per le costruzioni e la produzione di calcestruzzo. Il fratello, Calogero Panepinto, riaprì la cava pochi giorni dopo e riprese il lavoro. Il 19 settembre 1994 anch’egli venne assassinato, insieme a un operaio della ditta, Francesco Maniscalco. Il figlio di Calogero, Luigi Panepinto, decise di riprendere il lavoro. Ma, nonostante la presenza dell’esercito, inviato a presidiare l’azienda, la maggioranza dei lavoratori dipendenti della ditta ebbe paura e ben 19 operai, su 25, per paura preferirono rinunciare al loro posto di lavoro.
Fu proprio questa la colpa di questi imprenditori… volevano lavorare, volevano un lavoro onesto e sono morti… Ma come mai la mafia ha così tanto bisogno delle cave? E’ semplice, quella è la loro occasione per procurarsi esplosivo e uccidere le persone che per loro rappresentano una minaccia, inoltre il settore dell’edilizia e dei lavori pubblici è uno dei più controllati dalla mafia.

 

 

 

 

 

 

VINCENZO E SALVATORE
VACCARO NOTTE

raccontato da Giorgio

Vincenzo e Salvatore Vaccaro Notte Vincenzo e Salvatore Vaccaro Notte erano andati in Germania e lavoravano come pizzaioli, poi con i soldi guadagnati tornarono in paese, cioè a Sant’ Angelo Muxaro, e avviarono un’attività di pompe funebri.
Fu proprio questa la causa del loro contrasto con la mafia, perché in quel paese i funerali erano gestiti dai fratelli Milioto, che erano in contatto con i Fragapane. Essi cercarono di accordarsi con i Vaccaro Notte, ma loro erano irremovibili e fecero anche un gesto di sfida: attaccarono sulle mura del paese dei manifesti dove scrissero che per i funerali dovevano rivolgersi a loro, perché erano gli unici autorizzati e avevano prezzi convenienti (un milione di lire per ogni funerale bara compresa).
La vendetta avvenne il 3 novembre 1999, quando fu ucciso Vincenzo che era il titolare dell’attività. Il fratello Salvatore, però, non si dichiarò sconfitto e intimorito dalla sua morte, anzi continuò l’attività e si mise subito in cerca degli assassini. Chiese  notizie in paese e scrisse un memoriale, poi un giorno in piazza disse di aver trovato gli assassini di Vincenzo e il giorno dopo, il 5 Febbraio 2000, fu ucciso con un colpo di fucile alla testa.
La partita ormai sembrava  chiusa, ma invece non fu così: esisteva un altro fratello, Angelo, più prudente, che prese il memoriale scritto da Salvatore e andò dai Carabinieri chiedendo protezione e diventò testimone [Http://it.groups.yahoo.com].
Dopo mesi di indagini con le microspie in due luoghi sospetti, il primo luogo era la masseria dei fratelli Fragapane, il secondo  la casa di campagna di Pietro Mangiovi, dalle registrazioni fatte venne fuori di tutto: traffico di droga, di armi e la copertura di latitanti eccellenti e dopo di questo ci furono decine di arresti.
Esecutori dell’omicidio di Vincenzo Vaccaro Notte risultarono Giuseppe Vaccaro e Stefano Fragapane invece quelli di Salvatore erano Pietro Mangiovi e Agostino Sacco. Gli esecutori di tutti e due gli omicidi sono pentiti,  mandante dell’omicidio di Salvatore è  stato riconosciuto  Stefano Fragapane, mandante di tanti altri omicidi e detenuto nel carcere di Pagliarelli di Palermo [www.teleacras.tv/].

ABBIAMO INCONTRATO UN IMPRENDITORE CHE HA DENUNCIATO IL RACKET: LUIGI COPPOLA

Appunti di Sara V

Il 15 gennaio 2007 abbiamo incontrato nella nostra scuola Luigi Coppola, un imprenditore, proprietario negli anni ’90 di due concessionarie di auto.
Ci ha raccontato che un giorno entrarono nella concessionaria delle persone:  all’inizio sembra che siano dalla tua parte, comprano auto e ti pagano, poi iniziano a chiederti un favore e poi alla fine “tu lavori e loro guadagnano”. Nei primi anni lui li ascoltava e poi nel 1997 lui aprì un altro salone e “scaricò” i camorristi. Per un anno lo lasciarono in pace, poi un giorno trovò il cancello dell’ autosalone aperto con quattro vetture mancanti, fece una denuncia regolare. dopo due giorni sentì per telefono un camorrista che gli disse di aver ritrovato le auto:
e gli chiese 30 milioni di £ e poi da 30 ancora di più. Un giorno lo contattarono e trovò le auto in un posto abbandonato, lo aveva chiamato un amico poliziotto che lo aveva aiutato.
Si trovò in una situazione terribile, perché non uno, ma due clan volevano che pagasse la tangente e ognuno gli diceva che non doveva pagare l’altro clan.
Un altro giorno delle persone lo portarono in un posto e gli dissero: poi una sera bussarono dal citofono e dicevano e lui decise di non aprire.
I camorristi gli chiedevano i soldi e lui ogni volta diceva che non li aveva e loro non lo costringevano, anzi aumentavano la richiesta, arrivando a cifre inimmaginabili.  Ben presto si impossessarono della sua vita portandogli sotto casa auto cariche di armi, droga… Lui  era terrorizzato e non sapeva più dove trovare i soldi per pagarli, ma cercava di tenere fuori la famiglia.
Nella sua casa non c’ era neanche il latte, non riusciva a pagare gli stipendi e chiedeva soldi alle persone.
Un giorno dovette portare la moglie all’ospedale per un forte spavento: stava facendo la doccia, avevano bussato e l’avevano fatta uscire, poi davanti al cancello l’avevano fatta inginocchiare, le avevano puntato una pistola in testa e le avevano detto che il marito gli doveva dare 30 milioni .
Allora lui decise di non cedere più e da lì partirono tante denunce. Questo problema era così grande che le bambine dovevano andare a scuola accompagnate dai carabinieri.  Poi furono costretti ad entrare nel programma di protezione dei testimoni, a lasciare la casa, il lavoro, i parenti, cambiare nome, però quelli che li perseguitavano furono arrestati e condannati. Ora sono tornati nel loro paese.

 

 

 

 

 

 

DOMENICO GULLACI

raccontato da Giovanni

Domenico Gullaci era un imprenditore di Gioiosa Ionica, proprietario con alcuni familiari di  una ditta di materiali per l’edilizia; aveva anche contatti di lavoro con la Sicilia. Fu ucciso dalla ‘ndrangheta, forse per conto della mafia, con una bomba posta sotto la sua macchina, azionata a distanza, ed erano diciotto anni che la ‘ndrangheta non uccideva così. Aveva quattro figli che alla sua morte erano ancora piccoli. Era il 13 aprile 2000 ai funerali parteciparono 42 sindaci della Locride e il vescovo, ma non c’erano rappresentanti dello Stato.
Per il suo omicidio è stato arrestato Domenico D’Agostino, trafficante  di stupefacenti. Augusta Torricelli Frisina, presidente di un comitato per l’educazione alla legalità, ha scritto una lettera al prefetto di Reggio, pubblicata sulla Gazzetta del sud, per ricordare Gullaci, anche perché  i suoi familiari non hanno avuto nessun riconoscimento né  aiuto economico.
Un cognato di Gullaci, il commerciante Francesco Marzano, era stato ucciso a Sidereo nel 1997 [www.cuntrastamu.org].

Gullaci era un signore che non pagava il racket quindi dovrebbe essere un esempio per i commercianti che sono costretti a pagarlo. Anche ora ci sono persone coraggiose come lui ed altre che combattono per un paese senza mafia. Se tutti combatteranno con convinzione e impegno si riuscirà a sconfiggerla, perché la mafia non è un’organizzazione invincibile, ma la sua forza è alimentata dalla paura dei cittadini che non trovano il coraggio per reagire.

 

 

 

 

 

 

DOMENICO NOVIELLO

raccontato da Sara Db

Domenico Noviello era un uomo di 65 anni, caratterialmente tranquillo, aveva una vita modesta,  era un padre di famiglia  e un uomo coraggioso.
Abitava a Castelvolturno, dove possedeva un’autoscuola che gestiva con uno dei suoi tre figli; Noviello ebbe delle richieste di denaro da parte del clan dei Casalesi, quindi nel 2001 decise di denunciare l’accaduto, permettendo l’arresto di cinque uomini.
Il 16 Maggio 2008 il signor Noviello, non riuscì a raggiungere il solito bar, dove tutte le mattina nell’andare al lavoro si fermava per la sua colazione, poiché  la sua auto fu affiancata da quella dei  suoi uccisori…Noviello si accorse subito della loro presenza e in preda al panico e alla voglia di vivere, cercò di scappare, scappare verso una luce, verso un minimo di speranza…non ci riuscì, i due uomini, con tutta la loro cattiveria, con tutto il loro odio, gli impedirono di vedere nuovamente la luce, fu ucciso come una bestia feroce, con tanti colpi di pistola, uno dopo l’altro, colpi che a poco a poco lo fecero smettere di pensare e lo portarono alla morte.

Il clan dei Casalesi in questi ultimi tempi si sta attivando, compiendo numerose uccisioni e agguati, quasi come se volesse dimostrare la propria forza e le proprie competenze…chi ha osato sfidarlo non ha avuto un lungo avvenire…come nel caso del padre di un pentito dello stesso clan.
C’è stato l’incendio alla fabbrica di materassi del presidente di un’associazione antiracket di Caserta; ci sono state minacce  allo scrittore del bestseller Gomorra, Roberto Saviano, alla giornalista Capacchione e al magistrato Cantone.
Ma c’è stato anche il processo al clan, il processo Spartacus, considerato importante come il maxiprocesso alla mafia, che si è concluso con la condanna all’ergastolo di 16 boss, la maggior parte dei quali già in carcere. “E’ una vittoria dello Stato, della procura antimafia e anche di tanti cronisti che hanno lavorato nell’ombra. Ma credo sia soltanto l’inizio”, ha detto lo scrittore Roberto Saviano, autore del libro di grande successo Gomorra.

Dopo questo processo uno dei figli, Massimo Novello, ha dichiarato a Repubblica che il padre “Amava la vita. Voleva viverla alla luce del sole, senza vergognarsene. Non era un don Chisciotte, non era un pazzo, non era un visionario, come gli hanno detto poi. Non era un eroe, soprattutto. Era un uomo dignitoso, che credeva al decoro e alla legge. Si è soltanto rifiutato di inchinarsi alla forza, alla prepotenza della camorra. Non lo ha fatto per insegnare qualcosa agli altri. Lo ha fatto soltanto per se stesso, per potersi guardare allo specchio con serenità, senza sentirsi umiliato. Mio padre non è finito in un gioco sconosciuto. Conosceva le regole perché il dolore e il sangue avevano già abitato la nostra casa. Trent’ anni fa il fratello di mia madre, a 33 anni – all’ età che ho io oggi – fu ammazzato per non aver voluto pagare il prezzo del ricatto sulle sue proprietà terriere. Quando è toccato a mio padre ricevere la visita di quei delinquenti, ci ha chiamati e ci ha detto che non avrebbe pagato. Lo ha detto subito e lo ha ripetuto anche a mia madre Luisa, terrorizzata dal ricordo del fratello. Io sono stato d’ accordo con lui e continuo a pensare che ha fatto la cosa giusta. Ancora oggi mi sembra di sentirlo quando mi chiede: vale la pena vivere docili e ubbidienti come pecore? Lo capivo. Capivo che non c’ era alcuna intelligenza nella tentazione di arrendersi. Come avremmo potuto vivere con quella avvilente rabbia in corpo? Come avrebbe potuto vivere lui, in quella situazione? Quella sofferenza avrebbe ucciso la sua gioia di vivere, lo avrebbe immiserito, e lo sapeva, lo diceva. Non c’ era altra strada. Non doveva pagare. Per anni, siamo andati in giro armati, guardandoci le spalle, prudentissimi. Appena prima di morire, mio padre mi scongiurava di non accettare appuntamenti in luoghi isolati anche se a chiamarmi lì fosse stato il mio migliore amico. Diceva: se quelli hanno perduto tutto, si toglieranno i sassolini che hanno nelle scarpe”.Dice Massimo: “Non ho alcun ripensamento sul passato, ma so che è giunto il tempo di andar via da Castelvolturno dove abbiamo sempre vissuto. Siamo ormai stranieri nella nostra terra. Al funerale c’era soltanto la nostra famiglia, le associazioni antiracket, la polizia. La gente ci guardava da lontano, indifferente. Non c’ è stato un negozio che ha ritenuto di calare la saracinesca in segno di lutto. Peggio è andata alla messa del trigesimo. Non c’era nessuno. I nostri amici, anche quelli più cari, ci evitano come se fossimo dei lebbrosi. C’è sempre un motivo che impedisce loro di venire a casa o di raggiungerci in pizzeria. Abbiamo avuto accanto, per ora, soltanto lo Stato. Avere fiducia nello Stato è la sola opportunità che ci resta” [D’Avanzo : “La Repubblica” 20 giugno ‘08].

MANIFESTAZIONE ANTIRACKET
A BAGNOLI
DOPO L’INCENDIO DEL MINIMARKET “ARCOBALENO”

raccontata da Carolina

Già dal balcone di casa potevo vedere un mucchio di gente davanti a questo piccolo negozietto ormai bruciato. Arrivata sul posto ho incontrato la professoressa che mi spiegò chi si trovava lì. Esattamente non sapevo chi ci fosse ma i volti li ricordo, e anche bene, pieni di tristezza, ma anche rabbia. Noi cittadini siamo andati lì non solo per consolare queste povere persone che, nonostante abbiano fatto la cosa giusta, sono stati colpiti cosi duramente. Noi siamo andati per un preciso motivo cioè dimostrare ai delinquenti che hanno combinato quello sfacelo, che noi cittadini ci trovavamo li per dimostrare che ci siamo, combattiamo e un giorno vinceremo questa dura battaglia. Io sono stata li un’oretta e ascoltare le cose che dicevano; era dura soprattutto guardando quella povera donna, la moglie del negoziante, minacciata già per la seconda volta, nascondere le lacrime, mostrare il dolore che la affliggeva. Mi sarebbe piaciuto avvicinarmi e confortarla, dirle che non bisogna nascondere i propri sentimenti. Dirle anche che non bisogna avere timore perché loro non ha fatto che il meglio, non solo per sé, ma per tutta la comunità di Bagnoli.

 

 

 

 

 

 

 

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