“Borsellino morì tre mesi prima” articolo di Riccardo Bruno
Borsellino morì tre mesi prima
articolo di Riccardo BrunoRiccardo
Pubblicato da SETTE, magazine del Corriere della Sera, del 19 Aprile 2012
A 20 anni dalle stragi/2. Aveva lo stesso nome del procuratore, fu ucciso il 21 aprile 1992
Era un piccolo imprenditore, venne assassinato dalla mafia. Poco dopo spararono anche al padre.
La famiglia cerca la verità. Come il nipote, che sta scrivendo un libro con il fratello del giudice.
Paolo Borsellino venne trovato ucciso nella sua auto la sera del 21 aprile 1992, in un parcheggio polveroso di Lucca Sicula.
Il procuratore Paolo Borsellino telefonò alla giovane collega, Morena Plazzi, che seguiva il caso: “Che fai? Indaghi sul mio omicidio?” provò a scherzare, un po’ per stemperare la tensione e un po’, forse, per esorcizzare la morte. Gli rimanevano meno di tre mesi di vita.
Era un piccolo imprenditore edile, Paolo Borsellino, l’altro Paolo Borsellino, assassinato anche lui dalla mafia in Sicilia in quel tragico 1992. Aveva 31 anni, una moglie e due figli piccoli, quando fu fermato da un colpo di fucile al cuore. La sua Panda era a cento metri da casa, il corpo in una strana posizione, i piedi penzolavano dal finestrino. “L’hanno ucciso da un’altra parte e poi l’hanno abbandonato lì”, dissero subito i familiari. Nessuno può dirlo con certezza. Dopo vent’anni non c’è un colpevole, non c’è mai stato un processo, né un indagato.
Il padre Giuseppe, che lo aiutava nell’impresa, vedendo il cadavere del figlio si fece subito un’idea precisa di chi poteva essere stato. Quella stessa notte, in caserma, davanti al capitano dei carabinieri e al magistrato, iniziò a fare i nomi. Era il suo modo di vendicarsi. Sfidando a viso aperto quelli che credeva fosssero gli assassini, chiedendo allo Stato di fare giustizia. Una scelta eversiva in un paese di tremila abitanti, al confine tra Agrigento e Palermo, dove tutti si conoscono e a volte gli amici si scoprono mafiosi.
Le storie si intrecciano
Anche lui quella sera iniziò a morire. La mafia gli concesse appena otto mesi. Giuseppe Borsellino li passò tornando ossessivamente in caserma, girando le procure, scrivendo all’Antimafia. Raccontò tutto anche a Paolo Borsellino, da pochi mesi procuratore aggiunto a Palermo. Ancora una volta le storie dei Borsellino, più di una semplice omonomia, si intrecciano.
A tutti ripeteva che il figlio Paolo era stato ammazzato perché non si era piegato ai ricatti dei clan. Spiegava che l’inizio era stato quando aveva comprato un impianto di calcestruzzo di seconda mano. Aveva messo su un’impresa promettente ma gli affari non arrivavano. Svelava come funzionava la spartizione degli appalti, piccoli o grandi era lo stesso. Che erano sempre i soliti a decidere chi doveva lavorare, a imporre dove rifornirsi. quella piccola impresa dava fastidio e faceva gola ai boss, al figlio avevano offerto 150 milioni di lire per comprarla. Lui aveva risposto in modo beffardo: “Con quei soldi non vi vendo nemmeno i pneumatici delle betoniere”. Il modo peggiore per trattare con uomini d’onore. Alla fine, pressato dai debiti, Paolo aveva ceduto la metà delle quote ad altri quattro soci. Ma il calvario non era finito. Fino a quella sera di Aprile, quando non rientrò più a casa. “Il padre veniva da noi senza nasconderlo”, ricorda Morena Plazzi, adesso PM a Bologna. “Voleva vendicare il figlio, e noi eravamo cauti nel valutare le sue dichiarazioni”. Giuseppe Borsellino si presentava tutto vestito di nero, dalle scarpe fino alla coppola. Non si tagliava più la barba, di colpo gli era diventata bianca, come i capelli. “Sono un morto che cammina”, ripeteva agli uomini dello Stato denunciando minacce e intimidazioni. La risposta fu un’auto dei carabinieri che passava saltuariamente sotto casa, e che di certo non poteva scoraggiare nessuno. Gli concessero anche il porto d’armi, più una resa che una protezione.
Il 17 dicembre Giuseppe Borsellino esce per l’ultima volta da casa. Va in piazza a comprare le sigarette. Sono le 5 del pomeriggio, c’è ancora molta gente fuori. Rientra in macchina, una moto gli impedisce la retromaccia. Scende un uomo con il volto coperto dal casco e scarica l’intero caricatore della mitraglietta. Potevano colpirlo ovunque, scelgono invece di ammazzarlo nel cuore del suo paese, tra i compaesani. Un messaggio per tutti.
Dopo un mese vengono arrestati i soci del figlio. Accusati dell’omicidio del padre, non di Paolo. Saranno tutti assolti nei tre gradi di giudizio, un’intercettazione ambientale tra due boss e due testimoni che fanno i loro nomi non convincono i giudici. Uno dei testi indica però l’esecutore materiale del delitto, Emanuele Radosta, figlio di Stefano il boss di Villafranca, tradito dalla mitraglietta. Resterà l’unico condannato per l’omicidio. Perché l’ha fatto? Per chi? Dopo vent’anni la famiglia Borsellino non ha smesso di chiedere la verità. Come Benny Calasanzio che aveva 7 anni quando uccisero il nonno e lo zio. adesso è un giornalista freelance e uno scrittore sui fatti di mafia. Il suo ultimo libro uscirà a maggio. La sta scrivendo insieme a Salvatore Borsellino, il fratello del magistrato ucciso in via D’Amelio. ancora una volta le storie dei tre Borsellino si incrociano.