“Giovanni Falcone un eroe solo” di Maria Falcone con Francesca Barra
Giovanni Falcone un eroe solo
di Maria Falcone con Francesca Barra
23 maggio 1992: la strage di Capaci, in cui persero la vita il giudice Giovanni Falcone, sua moglie Francesca e tre uomini della scorta, scosse l’Italia come un terremoto immane, segnando le coscienze e dimostrando l’urgenza di una reazione intransigente e senza tentennamenti contro la mafia, da parte delle istituzioni e della società civile. Da vent’anni Maria Falcone si dedica a mantener viva la memoria di suo fratello con un’attività intensa che serva a tutti, ma specialmente ai giovani, come educazione alla legalità. È un’opera meritoria perché fu proprio grazie al lavoro di Giovanni che lo Stato trovò finalmente il modo per combattere con efficacia il fenomeno mafioso. Senza il suo intuito investigativo, la sua visione ampia e la sua determinazione assoluta, Cosa Nostra avrebbe potuto continuare per anni a dominare incontrastata. Eppure – come traspare nelle pagine drammatiche e struggenti di questo libro in cui Maria, affiancata dalla giovane giornalista esperta di mafia Francesca Barra, rievoca la vita di suo fratello – Giovanni Falcone si trovò molto spesso solo nel suo cammino. Solo quando insinuarono che si prendeva troppa confidenza con Buscetta. Solo quando i diari di Chinnici, ucciso da poco tempo, furono utilizzati per gettare ombre sul suo operato. Solo quando fu costretto a «mettere i piedi sul sangue del mio amico più caro», Ninni Cassarà. Solo quando si scatenò il dibattito contro i «professionisti dell’antimafia». Solo quando, al pensionamento di Antonino Caponnetto, fu di fatto decretata la fine del pool antimafia in cui avevano lavorato lui e Borsellino. Solo quando era stimato negli Stati Uniti, molto meno in Italia. Solo quando qualcuno disse che l’attentato all’Addaura se l’era organizzato lui stesso. Solo quando l’amico Leoluca Orlando gli volse le spalle. Solo quando non faceva mai trapelare la paura, nemmeno ai familiari. E poi fu sempre solo perché rinunciò a una vita normale, tanto da doversi spesso tenere a distanza dall’adorata moglie Francesca, da cui pensò addiE che infatti morì con lui, in una delle rare occasioni in cui si erano concessi di stare soli in macchina. Dopo tutto questo, Giovanni Falcone è oggi indubitabilmente un grande eroe italiano, riconosciuto come tale nel mondo. Il suo metodo rivoluzionario ha cambiato la nostra storia, il suo esempio le nostre coscienze.
Pubblicato da SETTE, magazine del Corriere della Sera, del 19 Aprile 2012
A 20 anni dalle stragi. Ecco ciò che non sapevamo del magistrato ucciso
Falcone sfidò il boss in sagrestia
di Francesca Barra
Con Tommaso Spadaro, che divenne il “re della Kalsa”, giocava a ping pong in oratorio, sul campo di calcio conobbe Borsellino. Un ritratto inedito esce dai racconti della sorella del giudice, che ricorda lo scontro con Leoluca Orlando, gli amori e i misteri dell’anno al ministero, a roma.
Per amore e per rabbia. Ma soprattutto per amore si impedisce al ricordo di indebolirsi nel tempo. Sentimenti che si alternano il giorno del funerale delle vittime della strage di Capaci, quando Palermo si raccolse attorno ai feretri bagnati da un temporale estivo. Urlavano, gridavano il nome di Giovanni Falcone, fischiavano contro lo Stato. Tutta la città era lì, arrivata in processione al Duomo di San Domenico. E’ ancora così forte quella tensione emotiva, vent’anni dopo quel 23 maggio del 1992, in cui furono uccisi il giudice Giovanni Falcone, sua moglie il magistrato Francesca Morvillo e i tre giovani agenti di scorta: Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani. Ecco perché la sorella del giudice, Maria Falcone, ha deciso di raccontarmi, nel libro, un Giovanni Falcone inedito.
Questo era il momento più giusto per far dialogare due generazioni. La mia, che non ha l’età per ricordare i particolari, e quella che ricorda perché ha vissuto. Poteva toccare corde tanto intime soltanto una sorella, come ha fatto Maria, presidente dell’Associazione Francesca Morvillo e Giovanni Falcone, con la quale il giudice ha condiviso una vita normale, «fatta di momenti felici e di altri tristi». Il libro si concentra sulle varie stagioni vissute dal giudice. Dalla nascita («Giovanni si presentò al mondo salutandolo con i pugni chiusi») avvenuta nel palazzo di Via Castrofilippo al numero 1, a Palermo, nel cuore della Kalsa, dove vivevano i genitori, Arturo e Luisa Bentivegna, e due sorelle più grandi, Maria e Anna, la maggiore.
Crescere in quel quartiere gli permise di comprendere a fondo le dinamiche centrali della contiguità città-mafia. Adolescente passò i suoi pomeriggi nella sagrestia della chiesa giocando anche con quei ragazzini che un giorno sarebbero diventati boss da perseguire. Come Tommaso Spadaro, con cui si sfidò sul tavolo di ping pong e che anni dopo venne soprannominato il “re della Kalsa”. Maria Falcone racconta: «La capacità di Giovanni di conquistare la stima e la fiducia di Buscetta segnò uno storico passo in avanti nella lotta al crimine sia in Italia sia all’estero. Eppure, nel nostro Paese diventò il pretesto per mettere in discussione la sua affidabilità. Giudicarono i loro rapporti troppo intimi e familiari». E sul campetto da calcio della parrocchia, dove la maggior parte degli uomini saldano le prime alleanze, conobbe il suo amico di sempre. Paolo Borsellino.
Falcone era forte, determinato, ma anche sensibile. Negli studi – si laureò con il massimo dei voti -, nello sport, come il canottaggio, che praticò anche a livello agonistico, nella vita sentimentale: «La fine del primo matrimonio fu un colpo durissimo per Giovanni che aveva cercato in tutti i modi di salvare la sua unione. Mi aveva detto che mai più avrebbe costruito un legame serio perché l’amore lo aveva deluso. Ma una donna arrivò a smantellare quella certezza. Si chiamava Francesca Morvillo ed era un magistrato. Bella e intelligente». Lavorava alla Procura dei minori. «Dovettero rinunciare ad avere figli, consapevoli dei rischi a cui li avrebbero sottoposti».
Rinunciò a molto nella vita. Amava il mare, pescare, nuotare libero, ma dovette interrompere le sue abitudini, anche andare al cinema o camminare da solo. E anche se aveva paura diceva: «L’importante è saper convivere con la paura. Non farsi condizionare. Questo è coraggio. Altrimenti sarebbe incoscienza».
Dovette affrontare non solo limitazioni alla libertà, ma mortificazioni. Sul maxiprocesso (1986) non mancarono frecciate da parte della stampa. In alcuni servizi i giornalisti definirono la lotta alla mafia da parte della magistratura una “moda”, “un grande spettacolo”.
Fu accusato anche di nascondere “carte nei cassetti”, proprio da Leoluca Orlando che era stato un amico. «Un giorno Giovanni raccontò di aver incontrato Orlando in aeroporto e di avergli chiesto: Leoluca, cosa ti sta capitando? La risposta fu lapidaria: Stiamo prendendo strade diverse».
La sua fama e il suo metodo facevano ugualmente il giro del mondo. Basterebbe sfogliare qualche articolo in archivio del New York Times per rendersene conto. All’accademia Fbi di Quantico, Louis Freeh, suo amico e collaboratore a partire dalle indagini svolte in collaborazione negli anni 80, gli ha fatto dedicare un mezzobusto perché per lui era «la più alta rappresentazione della Giustizia e dello Stato».
Le sue sconfitte in Italia avrebbero piegato chiunque: bocciato come consigliere istruttore, come procuratore di Palermo, come candidato al Csm. Leonardo Guarnotta, oggi presidente del Tribunale di Palermo, ricorda l’atmosfera che si respirava al Palazzo di giustizia:
«Percepivamo avversione. Ne dissero tante su di noi, sul pool antimafia voluto dal giudice Rocco Chinnici».
Falcone non si piegò, ma si difese dalle campagne denigratorie che definiva di “inaudita bassezza” . Come accadde per l’attentato dell’Addaura o per le lettere del Corvo. «Questo è un Paese», disse, «in cui, se ti mettono una bomba sotto casa e non esplode, si dirà che è colpa tua».
«Aveva visto morire a uno a uno i suoi amici», racconta ancora Maria Falcone, «aveva dovuto posare i piedi sul loro sangue. Aveva subìto le accuse di amici che l’avevano deluso. Un uomo così, con la sua esperienza, a poco più di cinquant’anni accettò l’incarico del ministro della Giustizia, Claudio Martelli – andò a dirigere gli Affari penali a Roma – Era il 13 marzo 1991 – ed è di questa stagione che si sapeva troppo poco. Perché il lavoro straordinario a Roma, segnato da vittorie professionali e umane, rischiava di essere offuscato dalle puntuali critiche che gli arrivarono e a cui rispondeva secco, senza dare l’impressione di doversi giustificare: «Il posto che ricopro è un posto previsto per i magistrati. In qualsiasi paese al mondo c’è un ministero di Grazia e Giustizia».
Attacchi amari che però non allentarono il suo impegno. Nell’anno e mezzo romano, si sentì certamente un uomo più libero. Di fare una passeggiata a Campo dei Fiori, di mangiare un gelato da Giolitti, di poter andare all’auditorium e ascoltare la musica classica che amava tanto «come fosse un cittadino normale». «Ogni tanto mi chiedo», ricorda il consigliere al Quirinale Loris D’Ambrosio, che partecipa al libro con un ricordo personale, «se ad affrettare la sua morte non siano state anche le notizie secondo le quali, alla fine e pur tra mille dubbi e perplessità, il Consiglio superiore si stava orientando per conferire a Falcone l’incarico di procuratore nazionale. Bisognava bloccarlo».
Sono riuscire a bloccare l’uomo, spiega il procuratore di Caltanisetta Sergio Lari nella postfazione del libro (la premessa è firmata dal presidente del Tribunale di Palermo Leonardo Guarnotta), e anche se le verità sulla strage di Capaci e di Via D’Amelio non sono ancora affiorate del tutto, «ciò che importa è lo sforzo per affrontare il destino e soltanto nella misura di questo sforzo si può raggiungere la vittoria nella sconfitta».