Graziella Campagna, 17 anni, vittima di mafia. Storie di trafficanti, imprenditori e giudici nella provincia dove la ‘mafia non esiste’

CAPITOLO PRIMO – IL CONTESTO

 

1.  Storia di un delitto …

Luglio 1985. Graziella, passando davanti alla lavanderia “La Regina” di Villafranca Tirrena (ME), vede un’offerta di lavoro come aiutante. Per Graziella, che aveva deciso di non continuare gli studi dopo la licenza di scuola media inferiore, è un’ottima occasione per iniziare a guadagnare qualche soldo e contribuire così al sostentamento della famiglia.

Per raggiungere Villafranca, Graziella prende l’autobus al mattino e ritorna la sera. In famiglia vivono questa sua prima esperienza fuori casa con un po’ di apprensione, ma convinti della serietà e della serenità con cui Graziella affronta questa opportunità di lavoro.

La lavanderia è frequentata abitualmente dall’ingegnere Eugenio Cannata e dal suo amico Giovanni Lombardo, due persone in apparenza cordiali e dai modi amichevoli e confidenziali

Un giorno, fine novembre – primi di dicembre 1985 (la data non è mai stata stabilita perchè nessuno ha mai pensato di sequestrare i registri della lavanderia, n.d.r.), l’ingegnere Cannata porta in lavanderia degli indumenti sporchi tra i quali una camicia. Graziella, mentre espleta le normali procedure di controllo della biancheria, trova nel taschino della camicia un portadocumenti di plastica con dentro la foto del Papa e un’agendina contenente dati personali dell’ingegnere. Così, chiama la collega Agata Cannistrà (cognata della titolare), la quale le strappa dalle mani il portadocumenti.

L’8 dicembre 1985 il Cannata e il Lombardo, a bordo di una Fiat Ritmo rubata a Milano, vengono fermati da una pattuglia dei Carabinieri, in località Orto Liuzzo (a pochi chilometri da Villafranca). Il Cannata consegna i documenti (falsi) mentre il Lombardo dice di non aver documenti e consegna ai carabinieri il libretto di circolazione intestato ad un certo Fricano Rosario, dichiarando:

«Non si preoccupi sulla nostra identità può rassicurarla anche il maresciallo (dei carabinieri, ndr.) di Villafranca, Giardina, con cui siamo amici»

Mentre i carabinieri fanno il controllo di routine sull’identità dei fermati, vengono distratti dal sopraggiungere ad alta velocità di un’automobile; il Lombardo e il Cannata approfittano dell’evento e riescono a dileguarsi.

I carabinieri successivamente scopriranno che l’ingegnere Cannata, in realtà, è il pericoloso latitante della mafia palermitana Gerlando Alberti Junior, mentre il Lombardo è in realtà il latitante Giovanni Sutera.

A Villafranca molte persone conoscono l’ingegnere Cannata (Alberti) e il Lombardo (Sutera); infatti, è loro abitudine intrattenere rapporti cordiali con professionisti, uomini delle istituzioni, imprenditori, ….un’integrazione a tutti gli effetti nel tessuto sociale di Villafranca.

Il 9 dicembre 1985, Graziella torna a casa e racconta alla madre che Agata Cannistrà, qualche giorno prima, le aveva strappato dalle mani l’agendina trovata nel taschino della camicia dell’ingegnere Cannata. Graziella lo racconta come un fatto strano: evidentemente quel pomeriggio è successo “qualcosa”…. Graziella sicuramente ignora la gravità del suo ritrovamento. La madre lascia scivolare la notizia considerando il fatto come uno dei tanti episodi, assolutamente normali, che possono accadere lavorando in una lavanderia.

In un giorno non ancora precisato Gerlando Alberti si accorge, mentre si trova dal barbiere Giuseppe Federico (fratello della titolare della lavanderia), di non avere più il portadocumenti con sè, così realizza con immediatezza che può averlo dimenticato nella camicia portata a lavare. Manda Giovanni Sutera in lavanderia. Questi torna dopo pochi minuti dicendo di non aver trovato nulla. Gerlando Alberti si precipita in lavanderia per chiedere conto della presunta scomparsa del portadocumenti. La proprietaria gli fa notare che è stato rinvenuto solo un portadocumenti con dentro l’immagine del Papa. L’Alberti, a questa notizia, palesa molto nervosismo e getta con rabbia il portadocumenti sul bancone della lavanderia.

Il 12 dicembre 1985, Graziella, come al solito, esce dalla lavanderia alle ore 19.45 per andare a prendere l’autobus. Mentre attende alla fermata passa un conoscente, Francesco Giacobbe, che le offre un passaggio. Graziella, persona estremamente riservata e schiva, non lo accetta. Il giovane percorre pochi metri con la macchina, poi si ferma al distributore che dista pochi metri dalla fermata dell’autobus. Pochi istanti dopo passa l’autobus e il giovane Giacobbe non vedendo più Graziella pensa che sia salita sulla corriera. Graziella non farà più ritorno a casa.

Il corpo di Graziella verrà trovato presso Forte Campane (località Musolino – comune di Villafranca), barbaramente sfigurato da 5 colpi di fucile a canna mozza.

 

2.   Il contesto

2.1   L’assalto del banco alla vigilia del terribile Natale del 1984

Poteva essere la rapina della storia. Un tunnel scavato sotto il caveau del Banco di Roma, da una banda di professionisti, avrebbe potuto rendere decine di miliardi. Qualcosa d’inspiegabile aveva però convinto i ladri a tagliare la corda all’ultimo momento. Erano stati alcuni funzionari dell’istituto di credito a scoprire l’enorme buco mentre giravano negli scantinati alla ricerca di infiltrazioni d’acqua. Era il 30 ottobre del 1984 e ai loro occhi apparve una lunga galleria di due metri di diametro che conduceva ad un magazzino di Via I Settembre sfitto da mesi. All’interno c’era di tutto: un trapano elettrico, secchi e borsoni di plastica, bombolette di gas, martelli, pale, scarponi. Su un tavolo vi erano piatti e bicchieri di carta, un thermos vuoto, 7 panini imbottiti e 7 tute da lavoro. Gli inquirenti non ebbero dubbi: la precipitosa fuga dei ladri risaliva ad una settimana prima della scoperta del tunnel. Ladri o provocatori? Sui muri del magazzino comparivano infatti due scritte trionfalistiche: “Dopo tanta fatica è fatta, gli uomini d’oro ringraziano”; “Viva le camere blindate, siamo i più forti”. Bastava a far arenare le indagini su una fitta rete di misteri. Perchè era stata abbandonata la rapina a solo un metro dalla cassaforte? E chi erano gli ‘uomini d’oro’ che per oltre un mese si erano alternati allo scavo del tunnel? Gente venuta da fuori si disse.

A luglio il magazzino era stato ceduto in locazione dal proprietario ad un fantomatico architetto di Roma che doveva installarvi un magazzino d’abbigliamento. Una persona distinta, pronta a tirare il portafoglio e versare caparra e canone mensile. A settembre l’architetto dal “forte accento romano” non si era fatto più vivo e il proprietario fiutava il raggiro. Scelta oculata quella della banda: qualcuno sapeva che i locali del piano superiore erano abbandonati e che scavando scavando si poteva raggiungere il caveau del Banco di Roma…

Archiviato il fascicolo contro ignoti per tentato furto con scasso bisognerà attendere tre anni per conoscere gli autori del formidabile colpo col buco. Davanti al giudice Pierluigi Vigna che indaga sulla strage del rapido 904 dell’antivigilia di Natale dell’84, Crescenzo D’Amato di Roma; Lucio Luongo, Giuseppe e Paolo Misso di Napoli; Rosario Ofele Maldera di Bari, negano ogni loro responsabilità con il tragico fatto di sangue e dichiarano che dal mese di ottobre di quell’anno “si trovavano a Messina dove stavano preparando tutti i dettagli per ‘attaccare’ il caveau del Banco di Roma”. Raccontano il tentativo andato a vuoto e descrivono perfettamente il materiale abbandonato nel magazzino. La Procura di Firenze invierà l’incartamento per competenza al Tribunale di Messina.

2.2    Mafia, camorra e neri strateghi dell’eversione

Il 23 dicembre 1984 un’esplosione squarciava il rapido 904 Napoli-Milano sotto la galleria Vernio-San Benedetto Val di Sambro nel tratto ferroviario Firenze-Bologna, lo stesso luogo dove dieci anni prima una bomba era esplosa sul treno Italicus. Terribile il bilancio delle vittime: sedici i morti e 266 i feriti. Non fu difficile per i giudici di Firenze orientare le indagini nella direzione che vedeva la mafia come mandante e la camorra come esecutrice con il sostegno di alcuni terroristi neri.

Il 9 gennaio 1986 il PM Pierluigi Vigna firmava sette ordini di cattura: tra questi il boss palermitano Pippo Calò ritenuto il “cassiere della mafia”, in contatto con gli esattori Salvo di Salemi e con la cosiddetta ‘Banda della Magliana’, e tale Giuseppe Misso, boss del rione Sanità di Napoli con un marcato orientamento politico di estrema destra. Secondo gli inquirenti, Giuseppe Misso fin dagli anni ‘70 era in contatto con i gruppi neofascisti veneti, da sempre ritenuti tra i protagonisti attivi delle principali stragi di Stato (Piazza Fontana, Brescia, Italicus, ecc.). Il boss napoletano fu sorpreso a Moiarello a pranzo con alcuni guardaspalle in una clinica abbandonata, trasformata in ‘centrale operativa’ della banda con tanto di stazione radio.

Giuseppe Misso aveva proiettato a livello internazionale le sue attività ‘economiche’. Il fratello di Giuseppe, Alfonso Misso, conduceva in Brasile una estesissima proprietà terriera. Rifugiatosi a San Paolo dopo il maxi-blitz della polizia contro i camorristi della “Nuova Famiglia”, Alfonso Misso si era sottoposto a un intervento di plastica facciale per ingentilire zigomi e naso e sfuggire al soprannome con cui era noto nel rione Sanità, Alfonso “o nasone”. In America Latina la famiglia Misso avrebbe coperto la latitanza di alcuni terroristi dell’estrema destra, cooperando nell’apertura di nuovi canali di rifornimento di droga con la Bolivia e il Perù. Due fratelli, i ‘neri’ e i traffici di coca. In più il flirt con certi settori dei servizi segreti nazionali. Secondo fonti giornalistiche proprio Giuseppe Misso sarebbe uno degli autori di alcuni attentati con esplosivo compiuti in Campania e forse anche di quello compiuto a Roma il 22 gennaio del 1983 in cui fu ucciso Vincenzo Casillo, il braccio destro di Raffaele Cutolo che aveva fatto da tramite tra Francesco Pazienza, i servizi segreti e la camorra durante il rapimento del consigliere Dc di Napoli Ciro Cirillo. E il 23 novembre 1985 il maresciallo Antonio Francavilla, in servizio al Sismi, veniva arrestato con l’accusa di aver incassato 100 milioni per far scomparire un rapporto del nucleo operativo dei carabinieri di Napoli concernente proprio il camorrista Giuseppe Misso.

2.3   Una strage profetica

La mafia braccio sanguinario della strategia della tensione anni Ottanta e Novanta, legittimata dalle forze politico-economiche dominanti quale soggetto militare per il mantenimento dell’‘ordine sociale’. La chiave di lettura per spiegare i cadaveri ‘eccellenti’ e le bombe a treni, piazze e monumenti.

Nella loro sentenza-ordinanza di rinvio a giudizio, i giudici di Firenze scrivono che la strage dell’antivigilia di Natale sarebbe stata suggerita “dallo scopo pratico di distogliere l’attenzione degli apparati istituzionali dalla lotta alle centrali emergenti della criminalità organizzata che in quel tempo subiva la decisiva offensiva di polizia e magistratura per rilanciare l’immagine del terrorismo come l’unico, reale nemico contro il quale occorreva accentrare ogni impegno di lotta dello Stato”.

Una bomba dunque per depistare, un’aggressione contro la prima grande stagione dei pentiti caratterizzata dalle dichiarazioni di Buscetta e di Contorno contro il gotha di Cosa Nostra. L’esigenza per la mafia di “indebolire il sistema democratico del nostro Stato, distoglierne con false emergenze l’impegno civile, politico e giudiziario, e determinare dunque quella situazione di incertezza e di disorientamento nei pubblici poteri, (…) presupposti indispensabili per la crescita e il consolidamento del potere mafioso”. Un bagno di sangue profetico sul nuovo corso stragista della mafia nel tentativo di “rinsaldare (…) legami istituzionali che sembravano allentarsi o comunque posti in discussione dall’attivarsi di una nuova stagione, che poneva in crisi un antico patto armistiziale”, come scrive la Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo nella sua relazione del 1995. “In tale prospettiva la strage di Natale del 1984 sembra preannunciare una stagione successiva che abbraccia eventi quali le stragi di Capaci e via d’Amelio e gli attentati dell’estate ‘93”. Menti raffinate che proiettano sinistre ombre di morte sino ai giorni nostri.

Al processo in corte d’Assise a Firenze (febbraio 1989) il PM Vigna chiedeva 9 ergastoli per i principali imputati della strage del rapido 904, sottolineando gli intrecci fra eversione nera, mafia e camorra. I giudici confermavano il quadro accusatorio condannando all’ergastolo i cinque principali imputati, Pippo Calò, il suo braccio destro Guido Cercola, Giuseppe Misso, Alfonso Galeota e Giulio Pirozzi. Veniva assolto per insufficienze di prove Antonino Rotolo, uno spietato killer mafioso assai vicino a Calò, al centro di vasti traffici di droga in compagnia dei boss siciliani Leonardo Greco e Pietro Aglieri.

Condanne a 28 anni per Franco Di Agostino e a 25 anni per Friedrich Schaudinn, il tecnico tedesco che mise a punto il telecomando e su cui sono stati documentati inquietanti contatti con la mafia catanese alla vigilia della strage di Capaci del ‘92. Carmine Esposito, ex poliziotto in strette relazioni con il gruppo di estrema destra ‘I giustizieri d’Italia’ e i camorristi della ‘Nuova Famiglia’ veniva condannato a 4 anni e 2 mesi per favoreggiamento; analoga condanna per Lucio Luongo, il braccio destro di Misso anch’egli implicato nella tentata rapina al caveau del Banco di Roma a Messina. Il reato contestato a Luongo è quello di porto e detenzione di esplosivo: si tratta dei candelotti di nitroglicerina che il deputato napoletano del Msi-Dn Massimo Abbatangelo aveva consegnato a Misso nel retrobottega del suo negozio ai primi del dicembre ‘84, e che trasportati a Roma, sarebbero stati utilizzati per confezionare con l’esplosivo ‘Semtex H’ in possesso del gruppo di Calò, l’ordigno che sventrò il 904. Secondo la ricostruzione dei giudici a collocare la bomba sul rapido ci avrebbe poi pensato il giovane garzone del negozio di Misso Carmine Lombardi, poi misteriosamente assassinato.

Dopo la sentenza di annullamento della Cassazione (prima sezione penale presieduta dal giudice Carnevale), nel marzo ‘92 veniva svolto un nuovo processo che confermava le condanne per Calò, Cercola, Di Agostino e Schaudinn. “La strage è da ascriversi a due bande criminali, una mafiosa siculo-romana e l’altra napoletana a cui facevano capo Pippo Calò e Giuseppe Misso, che ne erano stati gli ideatori” si legge nella sentenza della Cassazione. Pesanti condanne per porto e detenzione di esplosivo venivono inflitte all’ex parlamentare Abbatangelo e al gruppo camorristico napoletano di Giuseppe Misso, Giulio Pirozzi e Lucio Luongo, mentre veniva annullata la sentenza per Alfonso Galeota: era stato ucciso insieme alla moglie di Giuseppe Misso, Assunta Sarno, il 14 marzo 1992. Altre due morti misteriose sulla scia della strage di Natale.

2.4.   Stragisti in missione a Messina

Alla vigilia della strage di Natale dell’84, il gruppo criminale di Napoli utilizzato da Cosa Nostra per il trasporto di una parte dell’esplosivo per il rapido 904 risiedeva tranquillamente a Messina dove preparava una ingegnosa rapina ad uno degli istituti di credito della città. Chi offrì copertura e protezione a Messina alla banda di Misso? E chi le fornì le giuste informazioni sul caveau e sul magazzino sfitto confinante con il Banco di Roma?

La contiguità di Giuseppe Misso con una fitta rete occulta fatta di pezzi di criminalità organizzata, eversione di destra e servizi segreti non poteva non trovare il clima migliore nella città dello Stretto che proprio a metà anni Ottanta rappresentava il crocevia di trafficanti di droga di mezza Italia, di agenti segreti internazionali in grado di eseguire attentati (si pensi all’affondamento di due aliscafi ‘ciprioti’ in riparazione nella zona portuale), di imprenditori rampanti che da Palermo e da Catania si spostavano alla conquista di appalti pubblici e privati, di decine di logge massoniche ‘ufficiali’ e ‘spurie’ in stretto collegamento con la P2 di Licio Gelli e soci. A Messina da oltre un decennio si era consumato il patto scellerato tra ordinovisti e uomini di ‘ndrangheta, attorno all’Università si erano consolidati interessi economici ed eversivi e la vecchia criminalità aveva effettuato il salto di qualità affiliando i suoi uomini migliori alle cosche calabresi. L’infiltrazione nei settori chiave della città era stata pressocchè generale: l’Arma dei carabinieri e la Questura avevano ospitato nelle stanze dei bottoni fior di piduisti con amicizie sin troppo chiacchierate. E a vigilare sullo Stretto faceva la sua comparsa la prima cellula della Gladio siciliana; tante, troppe tessere di un mosaico inquietante, mentre l’opinione pubblica affondava nel torpore dell’idea che “tanto a Messina la mafia non esiste”.

Non sarebbe inopportuno infilare le dita nelle piaghe di quella rapina andata a male nell’ottobre del 1984. Forse si scoprirebbero pezzi importanti di una storia mai scritta. Peccato che il processo al gruppo di Misso sembra proprio che non s’ha da fare. Dopo la trasmissione degli atti da Firenze al Tribunale di Messina, il giudice Marcello Mondello aveva disposto un paio di anni fa il rinvio a giudizio dei 5 indagati. Ma alla prima udienza in Tribunale il fascicolo del procedimento non venne trovato. Dopo il rinvenimento delle carte fu fissata la riapertura del processo il 26 febbraio ‘96. A causa di un difetto di notifica l’udienza venne però nuovamente rinviata al 16 maggio dello stesso anno quando si registrava l’ennesima sorpresa: in cancelleria non c’era più traccia del fascicolo. La Corte ne prendeva mestamente atto e rinviava il procedimento a nuovo ruolo.

Dobbiamo constatare due coincidenze per lo meno strane:

° I locali ‘affittati’ dal misterioso architetto romano nei pressi del Banco di Roma avevano ospitato qualche tempo prima il negozio di tessuti gestito da Antonino Romano, in carcere al momento della vicenda perchè in attesa di giudizio per le estorsioni ai danni di numerosi commercianti cittadini con tanto di attentati dinamitardi. Romano era finito in manette l’11 giugno 1983 in compagnia del suo ‘autista’ Antonino Costa, fratello del noto boss messinese Gaetano, e dell’ex vigile urbano Antonino Ingemi. Il gruppo sarà condannato per associazione mafiosa, ma la sentenza sarà poi annullata dalla Cassazione. Nello stesso periodo (1986) la Procura di Messina rinvierà a giudizio Antonino Romano e i ‘presunti soci’ nell’ambito del primo maxiprocesso contro i clan mafiosi di Messina. A carico di Romano, poi assolto, l’accusa di alcuni pentiti di essere stato affiliato alla cosca capeggiata dal ‘vecchio’ padrino Lorenzino Ingemi (padre-padrone oggi, della squadra di calcio dell’As Messina militante nel torneo dilettantistico) e di aver dato l’ordine insieme al boss Domenico Di Blasi inteso ‘Occhi i bozza’, di incendiare nel luglio ‘84 la porta di casa di un agente di custodia del carcere di Messina”. E sulla vocazione incendiaria del miniclan Ingemi, buone entrature nella ‘ndrangheta e nella mafia palermitana, il pentito Rosario Iannelli dichiarava al maxiprocesso che dietro l’attentato dinamitardo alla ‘Gazzetta del Sud’ del marzo 1985 “c’erano proprio Lorenzino Ingemi e Antonino Romano”. Infine una ‘perla’ del pentito Pino Scriva, per anni ai vertici delle ‘ndrine calabresi: “In carcere si diceva che Lorenzino Ingemi con Antonino Romano, Nino Costa, Mimmo Cavò ed altri, con l’aiuto del presidente del Messina Calcio Michelangelo Alfano, facevano estorsioni alle ditte che si erano aggiudicati i lavori per la ricostruzione del campo sportivo ‘Celeste’, della Villa Mazzini e della Villa Dante, perchè volevano appropriarsi dei relativi appalti”. Dichiarazioni esplosive forse mai valutate con la giusta attenzione. Eppure proprio l’Ingemi aveva ricevuto dall’imprenditore di Bagheria Michelangelo Alfano, la gestione delle maschere al campo sportivo Celeste.

°  Il 25 ottobre 1984, sei giorni prima della scoperta del tunnel realizzato sotto il Banco di Roma dal gruppo di Giuseppe Misso, era scattata in tutta Italia la maxiretata ordinata dalla Procura di Palermo contro 127 presunti appartenenti a Cosa Nostra, in seguito alle rivelazioni di Buscetta e di Contorno. A Messina quel giorno i poliziotti busseranno invano nell’abitazione di Michelangelo Alfano, prontamente datosi latitante. L’ex presidente dell’Acr Messina, titolare della società che ha tuttora in appalto la pulizia dei vagoni letto delle Ferrovie dello Stato, era stato accusato da Contorno di essere affiliato al clan di Leonardo Greco, boss della famiglia di Bagheria, e di riciclaggio di denaro sporco. Contro Alfano c’erano le prove dei legami di amicizia e di affari con Domenico Cavò, braccio destro del padrino Gaetano Costa, poi assassinato. Proprio Alfano avrebbe nominato il Cavò referente delle cosche palermitane a Messina. Nel passato dell’imprenditore di Bagheria c’erano poi altri particolari ‘piccanti’: l’emissione il 18 febbraio 1974 di un mandato di cattura per favoreggiamento personale del ricercato Antonino Scaduto e la storia di un auto posseduta da Alfano, una grossa Bmw, notata a S. Cipriano d’Aversa nel 1981 sotto l’abitazione del latitante Antonio Bardellino, all’epoca uno dei capi camorristi della ‘Nuova Famiglia’ , vicino al vecchio boss del barcellonese Pino Chiofalo. L’imprenditore di Bagheria era comunque riuscito a dimostrare di aver venduto l’auto qualche tempo prima ad un autosalone di Milano. E qualche mese prima dell’emissione del mandato di cattura, Alfano era stato sentito dal sostituto procuratore Rossi come teste nel procedimento contro i pregiudicati messinesi indagati per fatti estorsivi (Romano, Costa, Ingemi).

2.5   I  riveriti  signori  della  ‘pizza connection’

La latitanza di Michelangelo Alfano sarebbe durata 4 anni, sino al sopravvenuto proscioglimento da parte del Tribunale di Palermo. A incrinare l’immagine del ricco signore di Bagheria verranno poi il racconto del grande pentito di mafia Antonio Calderone sui baci scambiati con “i mafiosi della famiglia Alfano che avevano in appalto la pulizia dei vagoni delle ferrovie” durante le loro visite a Catania e un rinvio a giudizio con l’accusa di essere il mandante del tentato omicidio del noto giornalista sportivo Mino Licordari avvenuto a Messina il 20 giugno 1987. Infine, alla vigilia della notte del Capodanno ‘97, una clamorosa condanna a 4 anni (pena condonata) da parte del tribunale di Palermo al cosiddetto ‘processo maxiquater’ che lega il filone siciliano della ‘Pizza Connection’, i traffici di droga di Cosa Nostra con gli Stati Uniti, con l’oscura vicenda del falso rapimento del finanziere di Patti Michele Sindona. Accanto al reo Michelangelo Alfano molti i volti noti della criminalità mafiosa: i figli di Gaetano Badalamenti, Leonardo e Vito; i Giuseppe Greco omonimi figli dei padrini di Ciaculli Michele e Salvatore Greco; i boss napoletani Ciro Mazzarella, Angelo Nuvoletta e Salvatore Zaza tutti notoriamente alleati dello scomparso Antonio Bardellino; i mafiosi Giuseppe Madonia, Salvatore Scaduto e Salvatore Greco fratello del vecchio capomandamento di Bagheria Leonardo; l’imprenditore palermitano Salvatore Sbeglia, uomo d’onore della famiglia della Noce in stretto contatto con torbidi ambienti massonici, oggi sotto accusa al processo per la strage di Capaci .

Nello sfondo dei traffici mafiosi un complesso sistema organizzativo: alcuni boss come Nunzio La Mattina e Antonino Rotolo, il luogotenente di Pippo Calò indagato per la strage del rapido 904, a cui è demandato il compito di reperire la morfina dai fornitori turchi (tra essi Yasar Avni Mussululu, protagonista dell’inchiesta sui traffici di armi del giudice Carlo Palermo); Leonardo Greco, il padrino della cosca di Bagheria, punto di riferimento dei gruppi che gestiscono i laboratori per la trasformazione dell’eroina e il suo trasferimento negli Stati Uniti; i mafiosi del ‘gruppo americano’ legato alla ‘famiglia Bonanno’ che si occupano della vendita al dettaglio grazie al paravento di una catena di pizzerie (tra di essi Salvatore Greco, fratello di Leonardo); alcuni finanzieri e insospettabili imprenditori che si occupano internazionalmente del riciclaggio di denaro (l’industriale del ferro Olivero Tognoli – compare d’anello di Leonardo Greco, Vito Palazzolo, Pippo Calò, Michele Zaza, il faccendiere svizzero Remo Donada). Per comprendere il livello finanziario raggiunto dal gruppo Leonardo Greco-Tognoli & soci è opportuno citare che l’inchiesta ha provato come sui loro conti aperti all’estero siano transitati ingenti capitali provenienti dai boss italo-venezuelani Pasquale Cuntrera e Alfonso Caruana (famiglia di Siculiana), o dal noto capomandamento di Altofonte Francesco Di Carlo indiziato dell’assassino del banchiere Calvi a Londra.

3.   Tra Messina e Villafranca il regno di boss e latitanti

La strage di Natale, il gruppo camorristico ‘nero’ di Giuseppe Misso, la tentata rapina al Banco di Roma, il terremoto giudiziario contro Cosa Nostra dopo le dichiarazioni di Buscetta e Contorno, la conquista di Messina da parte delle imprese in odor di mafia, l’ascesa del racket in città, l’indifferenza e le collusioni delle istituzioni. Una tela del ragno fittissima, un labirinto di storie e di poteri che conducono ad un piccolo paesino alle porte di Messina, Villafranca Tirrena, meta dei tranquilli soggiorni di latitanti e trafficanti di droga. Latitanti come Gerando Alberti junior, principale indiziato dell’omicidio di Graziella Campagna. In quell’agendina, ritrovata da Graziella, non potevano non esserci nomi, indirizzi e appunti di un pezzo di storia d’Italia che doveva restare nascosta a prezzo della morte di una minorenne innocente.

Ma cosa c’entra Alberti con la bomba esplosa a San Benedetto Val di Sambro? Lo ricorda il commento a caldo del procuratore di Firenze Vigna dopo la sentenza della cassazione che confermava l’impianto accusatorio: “E’ sicuro che a Napoli operava la mafia, c’erano gruppi camorristici inseriti in Cosa nostra. Fu provato, per esempio, che nel gruppo di Misso figurava Gerlando Alberti junior, nipote di Gerlando Alberti senior, braccio destro di Pippo Calò. Non c’era neppure bisogno di parlare di alleanza tra mafia e camorra: era la mafia che in un certo senso si alleava con se stessa”.

Alberti dunque era organico al gruppo napoletano in trasferta a Messina nell’ottobre ‘84 per l’assalto al Banco di Roma. Finalmente un volto tra chi potrebbe aver guidato la mano nella clamorosa rapina ‘fallita’ in coincidenza con l’ondata di mandati di cattura (ad opera del pool antimafia di Palermo) contro i pezzi da novanta della mafia siciliana.

3.1 Gerlando Alberti Junior, latitante-cittadino…

Nato a Palermo il 18 ottobre 1947, ufficialmente residente nel comune di Cololziocorte (Bergamo) dal 1961, Gerlando Alberti junior gode di una sospetta autonomia di movimento nel territorio dell’hinterland messinese (la sua presenza nel triangolo Villafranca-Rometta-Messina è stata accertata per tutto il periodo che va dalla fine dell’82 a tutto il 1985), pur avendo a carico un certificato penale zeppo di condanne e carichi pendenti e un mandato di cattura per associazione a delinquere di stampo mafioso e traffico di sostanze stupefacenti emesso nell’82. Il primo ‘conflitto’ dell’Alberti con la giustizia risaliva all’ottobre 1967 quando il tribunale di Palermo lo aveva condannato a un anno e quattro mesi per furto in concorso. Quattro anni più tardi le questure di Milano, Bergamo e Palermo lo avevano schedato come soggetto in odor di mafia. Altre due pesanti condanne per associazione a delinquere, furto continuato, falsa dichiarazione, lesioni personali e oltraggio a pubblico ufficiale gli erano state attribuite a metà anni Settanta. Poi erano giunti tutta una serie di contravvenzioni alle prescrizioni relative all’obbligo di soggiorno nei comuni di Sassari e Capriate (Alessandria) e gli arresti nel 1980 su mandato della questura di Palermo ancora per furto, falso e guida senza patente. Infine Gerlando Alberti junior veniva colpito da una condanna a 6 mesi di reclusione per ricettazione e, un paio di mesi prima dell’omicidio di Graziella Campagna, da una altrettanto pesante condanna per truffa.

“Elemento di cattiva condotta morale e civile, ritenuto socialmente pericoloso, iscritto al n.1281 dell’elenco dei mafiosi della questura di Palermo, Gerlando Alberti junior risulta affiliato al ‘clan dei Corleonesi’” scrive di lui il Nucleo informativo della Legione dei Carabinieri di Palermo nella seconda metà degli anni Ottanta. Ancora più esplicita la Criminalpol che considera l’Alberti “uno dei maggiori elementi della mafia internazionale orbitante nel mondo della droga”. La sua forza intimidatrice e il ruolo di rispetto nel panorama mafioso del tempo gli derivano dalla strettissima parentela con alcuni dei principali boss storici di Cosa Nostra: lo zio Antonio Alberti, uomo di fiducia di Joe Adonis, esponente della criminalità organizzata italo-americana alla pari di Lucky Luciano e Vito Genovese, e soprattutto lo zio Gerlando Alberti senior a cui la cosca di Michele e Salvatore Greco aveva attribuito il nomignolo di ‘paccarè’, il “furbo”. Distaccato nei primi anni Sessanta a Milano per la gestione e il controllo del contrabbando di sigarette, Gerlando Alberti senior è stato al centro di numerose inchieste giudiziarie, quelle sulle stragi di Ciaculli e viale Lazio e sugli omicidi del procuratore Scaglione e del giornalista De Mauro. Dedito principalmente ai sequestri di persona in Lombardia, particolarmente legato al palermitano Salvatore Enea, ai fratelli Bono e all’emergente Gaetano Carollo, Gerlando Alberti senior ospita nella sua abitazione di Cologno Monzese il vertice che sancisce l’ingresso di Cosa Nostra nei traffici internazionali di droga, presenti Giuseppe Calderone, Tommaso Buscetta, Gaetano Badalamenti, Salvatore Riina e Salvatore Greco. Sino al suo definitivo arresto avvenuto nel 1980 durante un blitz in una raffineria di eroina a Trabia, Gerlando Alberti senior sarà uno dei personaggi più importanti nel complesso sistema di produzione e commercio di droga. Egli farà da raccordo della fitta ragnatela intrecciata da Cosa Nostra in mezzo mondo, protagonisti il re napoletano del contrabbando Michele Zaza, i clan marsigliesi, il padrino italoamericano John Gambino, i ‘chimici’ dei laboratori siciliani gestiti dai fratelli Vernengo, dai Grado e dalle famiglie di Santa Maria del Gesù (Bontade-Pullarà), Bagheria (Leonardo Greco) e Porta Nuova (Pippo Calò).

Un’eredità imponente quella ricevuta dal nipote Gerlano Alberti junior, interessi e uomini che per tutti gli anni Ottanta si spostano nel messinese alla ricerca di una zona franca per i traffici e per reinvestire i profitti. Tutto ciò non può che segnare l’ascesa e le fortune di chi si fregia di un nome che conta, Alberti appunto, e di quei colletti bianchi che all’entourage del grande traffico internazionale della droga e delle armi sono indissolubilmente legati.

3.2     Gli   insospettabili  amici  del  boss

Gerlando Alberti junior durante la sua latitanza dorata nel centro tirrenico si spacciava per l’ingegnere Tony Cannata e diceva di svolgere importanti progetti per alcune imprese edili; di tanto in tanto si allontanava per alcuni giorni da Villafranca con la scusa di recarsi in alcuni cantieri del nord Italia. Secondo gli inquirenti era un assiduo frequentatore dell’esercizio del barbiere Giuseppe Federico e della lavanderia ‘La regina’, gestita dalla sorella Francesca, in cui prestava servizio Graziella Campagna. Altro negozio ‘visitato’ con continuità quello di generi alimentari di proprietà di Francesco Catrimi, ufficialmente bidello, e della moglie Maria Calderone.

“Circa tre anni e mezzo fa si è presentato nel mio negozio per fare delle compere un certo ingegnere Cannata Tony. Da quel tempo lui è diventato assiduo mio cliente e quindi è subentrata tra noi un’amicizia al quanto leale” ha dichiarato ai Carabinieri Francesco Catrimi. “Il 13 giugno 1985 in occasione del suo onomastico, mi ha invitato a pranzo con la famiglia in un ristorante in località Piano Torre a Spartà. Con lui c’era la moglie, i suoi due figli ed un giovane dell’età di anni 25-27 che il Cannata mi ha presentato come suo cugino di nome Gianni. Da quella volta è capitato spesso che lo ho invitato con la famiglia ed  il Gianni che viveva con lui, a casa mia a cena o pranzo, e lui contraccambiava nella stessa maniera. Una volta siamo stati a pranzare in un ristorante all’uscita dell’autostrada di Falcone dove i i figli del titolare del locale lo conoscevano bene e lo chiamavano ingegnere Tony Cannata”.

E’ la famiglia Catrimi che si adopera a reperire a Rometta Marea un appartamento per l’ingegnere Cannata-Gerlando Alberti. Ad affittare una villetta in via Vini 103 è il rappresentante di commercio messinese Salvatore Siragusa. “Nell’aprile del 1985, mentre mi trovavo nel negozio di generi alimentari di Franco Catrini, questi mi ha presentato un signore che a loro dire si chiamava Cannata Antonio. Egli mi disse che doveva lasciare la sua casa che aveva in affitto in località Acqualadrone di Messina e mi chiese se ero disposto a concedergli la mia, sempre in fitto” ha raccontato il sig. Siragusa. A firmare il contratto di affitto, poi regolarmente depositato, la moglie dell’’ingegnere Cannata’, “tale Mancuso Rosa Emilia, nata a Palermo e residente a Cololziocorte”. “In effetti” ha chiarito il Siragusa, “firmatario del contratto doveva essere il predetto Cannata il quale, all’atto della apposizione della firma, mi dichiarava di aver smarrito la patente e per tanto di non poter firmare non avendo altro modo di avvalorare le proprie generalità”. Sarebbe bastato un semplice controllo dello stato di famiglia per verificare che la signora Mancuso Rosa Emilia risultava coniugata con il signor Alberti Gerlando junior, mafioso-latitante. Ma sulle generalità del falso ingegnere era poco opportuno indagare….

Ai primi di dicembre dell’85, la villetta viene venduta ad un imbianchino di Saponara Marittima, il sig. Antonino Costa. “Formalizzato l’acquisto, dopo qualche giorno dissi a mio cognato Costanzo Benito che abita nella stessa località di presentarmi l’inquilino che occupava la mia casa” ha raccontato il Costa. “Il pomeriggio del giorno 8-12-1985 in compagnia di mio cognato ci portammo nella villetta e qui mi venne presentato il signore che mi fu detto essere ingegnere. Dopo aver parlato del più e del meno ci salutammo e andammo via”. Per strana coincidenza il giorno è lo stesso in cui ad Orto Liuzzo l’Alberti e il Sutera venivano fermati per un controllo da una pattuglia dei carabinieri.

Dopo quel rapido incontro tra il neoproprietario sig. Costa, il cognato Costanzo e l’inquilino ingegner Cannata avviene un altro fatto singolare. “Dopo circa due ore dall’avvenuta presentazione, trovandomi a casa di mio cognato l’ingegnere mi chiamò e pregò se potevo accompagnarlo in località Fondaco Nuovo in quanto la sua autovettura si era guastata” ha riferito Antonino Costa. “Non ebbi nulla in contrario e così con la mia macchina accompagnai l’ingegnere prima dell’abitato di Spadafora dove lo stesso scese dalla mia auto. Nel tardi della serata appresi da mio nipote Costanzo Maurizio che lo stesso con il suo motorino aveva accompagnato in Villafranca Tirrena il parente dell’ingegnere”. Una richiesta di favore perlomeno strana se fatta da una persona appena conosciuta. Ma evidentemente la fiducia doveva essere tanta e reciproca, forse perchè c’era di mezzo il cognato Benito Costanzo, professione pescivendolo, conoscente da lungo tempo dell’ingegnere e della moglie. “Di tanto in tanto gli fornivo il pesce che mi veniva pagato “profumatamente”” ha spiegato il Costanzo. “Durante la stagione estiva vennero ad abitare nella villa la moglie e i due figli dell’ingegnere e così con più frequenza gli fornivo il pesce. Finita la stagione estiva la moglie dell’ingegnere andò via però ogni sabato mattina ritornava e restava fino alla domenica sera. La stessa giungeva sempre alla guida di un’autovettura che non era mai la stessa ma che comunque erano quasi tutte targate Bergamo o Palermo. Ciò è avvenuto fino all’8-12-1985, quando portai del pesce a casa dell’ingegnere per un importo di L. 120.000”.

3.3.   La  fortunata  fuga  di  un  assassino  che  non  deve  essere  visto

Da quella sera dell’8 dicembre si perde ogni traccia del Cannata-Alberti e del suo taciturno guardaspalle. Interrogato dal Giudice istruttore Pasquale Rossi nel 1987, Gerlando Alberti riferirà di essersi allontanato lo stesso giorno Rometta, “raggiungendo Milano in treno, lasciando la Ritmo a Spadafora ed usufruendo della A/112 del Catrimi”. Quattro giorni più tardi, 12 dicembre ‘85, sparisce Graziella Campagna dopo essere stata prelevata dalla fermata dell’autobus che doveva condurla da Villafranca a Saponara. Parte l’inchiesta che tra ambiguità e contraddizioni non potrà che puntare dritto contro l’Alberti e il suo ancora misterioso cugino Gianni.

Il 13 dicembre il maresciallo Carmelo Giardina, responsabile della Stazione dei Carabinieri di Villafranca contatta Francesco Catrimi chiedendogli di accompagnarlo presso la villetta di Rometta affittata dall’‘ingegnere Cannata’. “Giunti sul posto, ore 10 circa”, scrive il Maresciallo nel suo rapporto all’autorità giudiziaria, “non veniva, tuttavia, riscontrata la presenza di alcuno, mentre, nelle adiacenze del pianerottolo si notava l’esistenza di orme di scarpe lasciate verosimilmente a causa della pioggia della nottata precedente. Detto elemento faceva ritenere che qualche persona fosse entrata, poco prima, e pertanto si procedeva alla osservazione anche per i giorni successivi della villetta, senza peraltro che alcuno si presentasse”.

Secondo poi il racconto del pescivendolo Benito Costanzo, il successivo 14 dicembre due autovetture targate Catania, un’Alfa Romeo Giulia con 4 individui ed un’A/112 con tre persone a bordo si accostavano nei pressi della villetta del ‘Cannata’. “Da quest’ultima autovettura scendeva un individuo e parlando con accento catanese mi chiedeva ove abitasse l’ingegnere. Indicavo allo stesso la villa e gli facevo presente che da circa sei giorni non lo vedevo e che probabilmente si trovava al cantiere di lavoro in località Acqualadrone… L’individuo senza scomporsi mi diceva: ‘Va bene ora lo andiamo a trovare noi’ e quindi andarono via le autovetture”. Nonostante i ‘controlli’ fissati dalla Stazione dei carabinieri di Villafranca, di quella strana visita alla villetta dell’Alberti non c’è traccia nei rapporti di servizio. Per giungere alla perquisizione dell’immobile bisognerà poi attendere sino all’8 gennaio 1986. Non sarà rilevato alcunchè di interessante. Solo un paio di videocassette, del pesce putrefatto in frigo e della frutta avariata nella credenza. “Si poteva tuttavia capire”, sentenzia il rapporto dei Carabinieri, “che l’abitazione fosse stata abbandonata precipitosamente”. Quindici giorni dalla presunta fuga dell’Alberti sono invece necessari per ritrovare la Fiat Ritmo targata Palermo. L’auto era stata parcheggiata  nel pieno centro di Spadafora, comune a pochi chilometri da Rometta.

La denuncia per omicidio, ricettazione e furto d’auto contro l’Alberti sarà formalizzata l’11 gennaio. Bisognerà giusto attendere un anno affinchè il boss palermitano finisca agli arresti, quando verrà identificato ad Avellino da una pattuglia dei carabinieri. Il mandato di cattura per l’omicidio di Graziella Campagna gli sarà notificato in carcere il 29 marzo ‘87. Venti giorni più tardi il primo contatto con il giudice istruttore: l’Alberti si dichiara in preda ad una violenta colica renale, ma nonostante il medico del carcere attesti che le condizioni del mafioso palermitano garantivano il regolare svolgimento dell’interrogatorio, questo viene sospeso. Si dovrà attendere il successivo 22 luglio per verbalizzare le prime dichiarazioni, reticenti, dell’imputato. Qualche mese più tardi l’Alberti verrà condannato dalla Corte d’assise di Palermo a 15 anni di reclusione per associazione mafiosa, detenzione di stupefacenti e lesioni personali, mentre altri 18 mesi gli saranno attribuiti dal tribunale di Napoli per violazione delle disposizioni sul controllo delle armi e degli esplosivi.

Ottenuto dal Tribunale di Messina nel marzo ‘89 il trasferimento presso il reparto Urologico dell’ospedale Piemonte per ricevere le cure di cui “non può avvalersi nei centri clinici degli istituti penitenziari”, Gerlando Alberti junior, imputato in attesa di giudizio per l’omicidio di una ragazza appena diciassettenne otterrà nel maggio ‘89 la scarcerazione per decorrenza dei termini di custodia cautelare.

3.4   I  fedeli  compagni  di  affari  e  latitanza

A fianco dell’ingegnere Cannata-Alberti negli ultimi sei mesi del 1985, è costante la presenza a Villafranca del mafioso Giovanni Sutera, un  palermitano poco meno che trentenne con a carico precedenti per resistenza a pubblico ufficiale e falsità materiale e una condanna per furto continuato, infine latitante a seguito di una pesantissima condanna a 25 anni per omicidio, tentata rapina, porto e detenzione di armi, sancita dal tribunale di Firenze nel novembre ‘85. Gli inquirenti li identificano almeno una volta a bordo di un’autovettura Fiat 127 targata Firenze, intestata a Salvatore Sutera, fratello di Giovanni, al tempo detenuto presso la Casa Circondverdana, sans serife di Pelago (Fi), per omicidio ed altri gravi reati. Come accertato dal rapporto giudiziario dei Carabinieri di Messina “l’Alberti ed il Sutera Giovanni unitamente ad altri numerosi pregiudicati e ricercati” utilizzavano il circondario di Villafranca Tirrena “quale rifugio e, nel contempo, come piattaforma dalla quale muovevano, o comunque dirigevano attività illegali con prevalenza il grosso traffico di stupefacenti”. Inoltre il Sutera, sotto le mentite spoglie di Giovanni Lombardo, è tra i più assidui frequentatori della lavanderia ‘La Regina’ dove ama scherzare con la giovane Graziella Campagna. Con il ‘cugino’ Alberti dividerà l’infamia di un omicidio terribile.

Sempre secondo i Carabinieri a Villafranca Gerlando Alberti junior sarebbe stato notato “più volte” in compagnia del pregiudicato Sebastiano Cavallaro, quest’ultimo “anche alla guida della Fiat Ritmo targata Milano di proprietà dell’Alberti, auto risultata poi rubata”. Per la cronaca Sebastiano Cavallaro è il maxicorriere di eroina sulla rotta Sicilia-New York, vicino ai clan catanesi di Nitto Santapaola e dei Pillera-Cappello, arrestato il 18 febbraio ‘86 – due mesi dopo l’omicidio di Graziella Campagna – nella sua residenza di Furnari con l’accusa di traffico internazionale di droga e di armi insieme a Giuseppe Montesanto, commerciante ambulante di frutta originario di Casteldaccia, il catanese Salvatore Conticello e il genero Giovanni Novello. La droga trasportata negli Usa grazie a speciali cinture sistemate attorno alla vita del Cavallaro, veniva appunto scambiata con le cosche palermitane a Furnari, dove il Montesanto possedeva un casolare che ospitava saltuariamente i corrieri.

Sebastiano Cavallaro soggiorna nella fascia tirrenica dopo la carcerazione subita in seguito al blitz di polizia che il 9 agosto ‘82 aveva scompaginato a Valverde (Catania) il clan Pillera-Cappello, al tempo in guerra contro gli uomini di Santapaola. Con il trafficante di droga erano finiti in manette, tra gli altri, il fratello Rosario Cavallaro, Gaetano Laudani e l’emergente Francesco Viola inteso ‘Berry White’. “La villa di Valverde dove ci arrestarono era frequentata dai fratelli Laudani, da Turi Pillera e Salvatore Cappello” ha raccontato il Viola all’udienza del processo ‘Orsa Maggiore’. “Salvatore Cappello si appoggiava poi nel messinese. Lui e Nino Pace sono stati ospitati dal costruttore Enzo Pergolizzi in una casa che questi aveva a Milazzo. Se ne andavano spesso lì, dove aveva un motoscafo. Con Pergolizzi … poi abbiamo mangiato insieme al ristorante di fronte ai traghetti di Messina…”. Il binomio Cavallaro-Alberti determinante ad affermare il nuovo patto tra il clan etneo e i corrieri della droga della Sicilia occidentale. Una ulteriore coincidenza è rilevata dagli inquirenti: nel complesso di Portorosa a Furnari Gerlando Alberti junior aveva locato una villa sin dalla primavera del 1985, “a mezzo telefono, per conto dei suoi amici”. E nella vicinissima Falcone la questura di Messina aveva rivelato in un rapporto del 23 dicembre ‘85 gli “stretti vincoli di amicizia” dell’Alberti  “con tale Mazzagatti Tindaro Santo, proprietario della trattoria denominata ‘Jonatan’, già denunziato per costruzione abusiva ed arrestato per falsa testimonianza”…

Tra i personaggi di spicco identificati accanto all’Alberti nella sua latitanza tra Villafranca e Rometta c’è sicuramente il mafioso Carlo Greco, a conferma del ruolo che il messinese assume a metà anni Ottanta nei processi di raffinazione e traffico internazionale di stupefacenti. Come è stato processualmente provato Carlo Greco è stato per anni insieme a Giovanni Pullarà, Giuseppe La Mattina e Salvatore Profeta uno dei maggiori ‘chimici’ dei laboratori di eroina che Cosa Nostra aveva distribuito in Sicilia. Divenuto il ‘fornitore unico’ dell’anidride acetica, prodotto indispensabile nella trasformazione della morfina in eroina, Carlo Greco ha operato direttamente nel laboratorio installato nel ‘79 a Barcellona da Giuseppe ‘Pino’ Savoca, rappresentante della famiglia di Brancaccio, insieme a Filippo Graviano, ai fratelli Vernengo e ad uno dei capi storici della mafia del Longano, Carmelo Coppolino, il commerciante di frutta e verdura di Terme Vigliatore poi ucciso il 16-6-90 su mandato di Giuseppe Chiofalo all’uscita della discoteca ‘Genesis’ di Portorosa. Secondo quanto raccontato al giudice Falcone da Francesco Marino Mannoia a supervisore del laboratorio di Barcellona ci sarebbe stato il feroce killer di Ciaculli Giuseppe Greco ‘Scarpa’  e parte dei proventi dell’eroina sarebbero stati consegnati ad Ignazio Pullarà per le famiglie dei detenuti della cosca di Santa Maria del Gesù e direttamente a Totò Riina e Pippo Calò.

3.5    Due  persone  in  una:  lo  sbarco a  Messina  di Greco e Aglieri

Genero del vecchio boss di Villagrazia Giovanni Adelfio, già denunciato nell’81 per tentato omicidio e reati contro il patrimonio, segnalato quale ‘presunto mafioso’ l’anno successivo, nel 1984 Carlo Greco riesce a sfuggire a un controllo di polizia a Mondello esibendo un documento falso, proprio come l’amico-socio Gerlando Alberti avrebbe poi fatto a Villafranca. Sottoposto al soggiorno obbligato a partire dal dicembre ‘89, il Greco si darà ad una lunga latitanza conclusasi appena un anno fa con l’arresto in una villa di Buonfornello. Il suo nome è legato alle maggiori vicende di sangue della mafia: accusato delle morti di Giovanni Bontade, di Antonino Bonanno a Misilmeri e di Benedetto Grado, condannato per il cosiddetto ‘libro mastro’ delle estorsioni scoperto nel covo della famiglia Madonia, Carlo Greco è oggi imputato ai processi ‘maxiquater’ (in stralcio), ‘Golden Market’, a quello sui ‘Dieci anni di mafia’ (insieme a Giovanni Scaduto e Leonardo Greco di Bagheria, Pippo Calò, e Antonino Rotolo). Greco è anche considerato un vero e proprio ‘cervello dell’intelligence’ delle cosche, capace di coordinare l’infiltrazione di mafiosi negli apparati dello Stato per la raccolta di informazioni utili alle attività di Cosa Nostra. Secondo quanto riferito al processo maxi-quater dal pentito Giovanbattista Ferrante, autoaccusatosi dell’omicidio di Salvo Lima e dell’agente Emanuele Piazza collaboratore del Sisde, “grazie a Carlo Greco mi si fece sapere che la Dia stava indagando su di me e che c’erano delle foto che mi ritraevano (…). Un’altra volta Carlo Greco c’informò che la Dia aveva piazzato una telecamera in un palazzo che aveva fatto oltre duemila ore di registrazione. Sempre Carlo Greco nel ‘91 ci fece avere delle foto di una villa a Carini che era tenuta sott’occhio dagli investigatori”.

Le vicende umane e giudiziarie di Carlo Greco sono comunque indissolubilmente legate alla figura di Pietro Aglieri ‘u signorinu’, il mafioso provocatoriamente insignito da ‘The Guardian’ “uomo dell’anno 1996”, con un ruolo paragonabile dopo gli arresti di Totò Riina e Giovanni Brusca solo a quello ricoperto in Cosa Nostra da Bernardo Provenzano. Carlo Greco e Pietro Aglieri avrebbero retto congiuntamente sino al ‘96 il mandamento di Santa Maria del Gesù e della Guadagna, cogestendo i colossali traffici di droga con il Nord e il Sud America e partecipando alla Commissione mafiosa che avrebbe dato il via alla stagione stragista del ‘92. Carlo Greco e Pietro Aglieri compaiono infatti tra i mandanti della strage di Capaci e tra i diretti esecutori della strage di via d’Amelio. In occasione della tragica morte del giudice Borsellino e della sua scorta, Aglieri avrebbe  premuto il telecomando, mentre il Greco avrebbe svolto il ruolo di ‘staffetta’ del gruppo di fuoco.

Come ha dichiarato il procuratore aggiunto di Palermo Guido Lo Forte, la compresenza alla guida della famiglia di Santa Maria del Gesù di Greco e Aglieri trova giustificazione nella sua “gestione non monocratica ma pluralistica, una regola introdotta dai Corleonesi”. Secondo il pentito Salvatore Cangemi  il legame tra i due è così stretto che “le persone sono due ma la mente è unica”. L’ascesa alla leadership della cosca è segnata nel 1989 dall’omicidio del vecchio padrino Giovanni Bontade. Aglieri ne diviene capomandamento, mentre Carlo Greco viene nominato sottocapo. Alle dipendenze dei due, vengono assegnati boss della portata di Giovanni e Ignazio Pullarà, Giuseppe La Mattina (uno dei killer dell’europarlamentare andreottiano Salvo Lima), Salvatore Profeta e i fratelli Vernengo, tutti personaggi ben radicati in affari di droga e appalti del messinese. E del resto la presenza di Carlo Greco nell’hinterland di Villafranca a fine ‘85 non può che essere collegato alle contemporanee frequentazioni nel messinese del suo alter-ego Pietro Aglieri.

Mentre il Greco si fa vedere accanto a Gerlando Alberti, Aglieri s’incontra più volte con l’allora boss di Giostra Mario Marchese e con l’emergente Luigi Sparacio. In una stanza dell’hotel Riviera di Messina i due stringono un patto d’acciaio che regolerà sino al ‘92 i traffici di eroina da Palermo ai Peloritani. Periodicamente giungeranno in città ingenti quantitativi di droga che saranno smistati al consumo da piccoli manovali e tossici, mentre una quota finirà direttamente ai gruppi catanesi capeggiati da Salvatore ‘Turi’ Cappello e Giuseppe Pulvirenti ‘u malpassotu’. Marchese con il suo gruppo si farà garante della protezione dei familiari di Pietro Aglieri e dei suoi più stretti collaboratori (Giuseppe La Mattina) quando essi giungono nello Stretto per risiedere al Riviera. La Santa Alleanza del gruppo Aglieri-Greco con il clan di Giostra comporterà l’uccisione a Milazzo dell’ambulante Santo Stramandino, reo di uno ‘sgarbo’ alle famiglie palermitane in un affare di droga, e finanche l’intervento a sostegno elettorale dei candidati andreottiani messinesi in lizza alle amministrative (l’ex deputato regionale Pino Merlino e l’ex assessore comunale alla viabilità, avvocato Alfio Ziino), intermediario il bancario barcellonese Salvatore Valenti, poi assassinato  nel febbraio dell’86 nella sua villetta a Torre Faro da sicari vestiti con maschere di carnevale. Una conferma diretta dell’interesse dei gruppi palermitani ad intercedere a favore di certi democristiani dello Stretto è venuta al processo Andreotti dall’audizione del primo vero grande padrino locale, Gaetano Costa, oggi collaboratore di giustizia, che ha raccontato di essere stato avvicinato nel carcere di Novara direttamente da Leoluca Bagarella: “Egli mi invitò, ad attivarmi al fine di indirizzare in favore di esponenti della corrente andreottiana il consenso elettorale nel messinese. Io feci sapere a Mimmo Cavò di adoperarsi al fine di sostenere elettoralmente le persone, che a Messina, erano vicine all’on. Andreotti”. Ricompare ancora una volta l’uomo di fiducia dell’imprenditore Michelangelo Alfano.

“Oltre a intrattenere affari con Pietro Aglieri e Giuseppe La Mattina, io mi rivolgevo a Giuseppe Piddu Madonia di Caltanissetta, a Leonardo Greco e al suo socio di Bagheria Antonino Gargano” ha ammesso lo stesso Mario Marchese. L’ennesima quadratura del cerchio.

3.6   Devastanti  affari  edilizi  targati “cosa  nostra”

Tra le carte degli inquirenti sul procedimento per l’omicidio di Graziella Campagna, spiccano le testimonianze della titolare della lavanderia ‘La Regina’ Franca Federico e del fratello Giuseppe, sui conviviali contatti a Villafranca tra Gerlando Alberti junior e i cugini omonimi Giuseppe Greco, figli rispettivamente di Salvatore “il Senatore” e di Michele “il Papa”, i boss storici della famiglia di Croceverde di Giardini-Ciaculli implicati negli omicidi ‘politici’ dei primi anni Ottanta (Mattarella, Costa, Giuliano, La Torre, Dalla Chiesa, Chinnici), con ottime entrature nel mondo economico isolano (i Salvo di Salemi), nella politica (gli andreottiani di Sicilia), nella massoneria (il Centro Sociologico italiano, la superloggia di via Roma zeppa di militari, colletti bianchi e boss mafiosi). Curriculum giudiziario di tutto rispetto quello dei due cugini abituali frequentatori del latitante Alberti. Oltre alla recente condanna al maxiquater di Palermo, Giuseppe Greco di Salvatore è imputato con Carlo Greco al processo sui cosiddetti delitti dei ‘Dieci anni di mafia’, e sarebbe stato implicato secondo il pentito Mannoia, nel sequestro Fiorentino. Giuseppe Greco di Michele, già colpito da una condanna per associazione mafiosa, è finito sulle cronache per un arresto nel novembre ‘92 durante la cosiddetta operazione ‘Leopardo’. Di lui ha parlato al processo Andreotti l’ex boss di Altofonte Francesco Di Carlo, accennando ad una sua cena politico-mafiosa in un ristorante romano nel 1980. Giuseppe Greco sarebbe stato in compagnia del padre Michele, dei comici Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, del senatore Dc Giuseppe Cerami, del boss della camorra Michele Zaza e dell’esattore Nino Salvo.

Dall’edilizia all’agricoltura passando finanche dall’industria cinematografica, i Greco curavano mille affari. In particolare gli anziani boss Michele e Salvatore erano soci della DAS (Derivati Agrumari Siciliani), e in compagnia dell’ex sindaco andreottiano di Bagheria Michelangelo Aiello, della DE.A. (Derivati Agrumari), società coinvolta nel 1982 nello scandalo delle truffe miliardarie alla CEE. Le industrie di derivati agrumari dei Greco e dell’Aiello, facevano parte del complesso sistema della ‘Pizza Connection’ allo scopo di mascherare le ingenti operazioni finanziarie finalizzate al traffico di stupefacenti e al riciclaggio di denaro sporco.

Michelangelo Aiello ci riporta di colpo nuovamente a Messina: notoria era la sua amicizia con il concittadino Michelangelo Alfano. E altrettanto notorio il fatto che dietro le società agrumarie dell’ex sindaco di Bagheria c’era il grande trafficante Leonardo Greco. Sempre al boss Leonardo Greco farebbe riferimento la società SICIS dei fratelli Bruno, anch’essi di Bagheria, la quale dopo aver realizzato con un’impresa del conte Arturo Cassina numerosi alloggi popolari a Borgo Nuovo (Palermo), si trasferiva in quegli anni a Messina per edificare il complesso cooperativo Casa Nostra di Tremonti e il Complesso Peloritano a San Giovannello, entrambi al centro di importanti inchieste giudiziarie, compresa quella sul ‘buco’ del Banco di Sicilia con cui la SICIS di Bagheria risulterebbe esposta per svariati miliardi. Lo scorso dicembre la Procura di Messina ha accusato Michelangelo Alfano di concorso esterno in associazione mafiosa “per essere stato il referente a Messina di Leonardo Greco e di averne curato dal 1979 gli interessi insieme con Domenico Cavò e quindi con Luigi Sparacio, nella realizzazione del complesso edilizio Casa Nostra di Tremonti”. Alla base del procedimento le dichiarazioni dei pentiti Gaetano Costa, Rosario Spatola, Giovanni Vitale e Antonio Cariolo. “Per il complesso edilizio di Tremonti” secondo il Costa, “erano direttamente interessati Leoluca Bagarella, Luciano Liggio, Mariano Agate, Totò Riina, Leonardo Greco ed altri esponenti di Cosa Nostra,  e vi sovrintendeva materialmente a Messina Tommaso Cannella sotto la supervisione di Michelangelo Alfano”. L’intero gotha della mafia con le mani in pasta negli affari della provincia dove “la mafia non esiste”.

3.7    Gerlando  Alberti  ricompare  tra  le  ville  di  Portorosa

Passata la tempesta giudiziaria e riottenuta la libertà vigilata, Gerlando Alberti junior non abbandonerà le vecchie frequentazioni e l’amore per gli affari della latitanza dorata a Villafranca. Dimesso dalla Casa circondverdana, sans serife di Fossombrone, l’Alberti fisserà il domicilio per un paio di mesi a Torre Faro per poi trasferirsi nel luglio ‘89 a Falcone in un appartamento della centralissima via Nazionale. Il trafficante si allontanerà da questo comune ‘ufficialmente’ solo in due occasioni: la prima volta sarà per un permesso di 10 giorni concesso nell’89 dal Giudice istruttore Marcello Mondello per una ‘visita specialistica’ a Milano. La seconda volta sarà nell’aprile ‘90 in seguito all’arresto in esecuzione ad una vecchia condanna per oltraggio a pubblico ufficiale e furto.

Nella cittadina turistica nota per il villaggio di Portorosa, altro grande esempio di cementificazione selvaggia del territorio, Gerlando Alberti si farà ‘visitare’ da Luigi Sparacio, Mario Marchese e da Carmelo Romeo inteso ‘nocciolina’, l’affiliato al clan Cavò indiziato dell’agguato al giornalista televisivo Mino Licordari per “fare un favore allo ‘zio Angelo’ Alfano”.

“Il trafficante Alberti Gerlando, per eludere la vigilanza da parte degli Organi di Polizia, da qualche tempo ha trasferito il domicilio nel barcellonese (Messina), ove continua ad esercitare attività illecite, in combutta con la mafia del messinese” scrivono in una loro informativa del 21 aprile ‘90 i Carabinieri di Palermo. “Il pregiudicato Alberti viene notato a Falcone assiduamente in compagnia del signor Antonino Geraci nato il 22-2-1966 a Palermo, di cattiva condotta e di pessima stima e reputazione pubblica, anche se sul suo conto figura solo una segnalazione del marzo ‘88 per emissione di assegno a vuoto”. Sempre secondo i Carabinieri il Geraci Antonio “ufficialmente svolgerebbe l’attività di cameriere presso un non meglio specificato ristorante del messinese, ma di fatto esercita l’attività di autista alle dipendenze del citato mafioso Alberti Gerlando”.

Alberti sarà tra i più puntuali frequentatori del noto locale ‘La cantina’ di Portorosa, gestito insieme al ristorante ‘Villa Liga’ dall’imprenditore barcellonese Giuseppe Munafò, arrestato nel ‘91 per una vicenda di riciclaggio insieme a due noti commercianti di Milazzo, Angelo Bellamacina e Antonino Startari. In una occasione il mafioso palermitano farà pesare tutto il suo prestigio criminale per alleviare la stretta usuraia sull’amico ristoratore. “Un giorno del 1991 fui agganciato al CEP dal titolare di un negozio di Pelletteria di via S. Cecilia tale Placido Lucà e dal titolare di una finanziaria di via La Farina per il recupero di un grosso credito di centinaia di milioni che vantavano nei confronti di Giuseppe Munafò” ha raccontato ai giudici della DDA Carmelo Ferrara, fratello dell’ex boss della zona sud, Sebastiano. “Fissato un incontro con il Munafò, quel giorno nella mia abitazione si presentò un individuo dicendo di essere il nipote di Gerlando Alberti junior, in compagnia di un’altra persona che mi disse essere il Munafò. Il primo chiamandomi in disparte mi disse che era venuto a nome di suo zio, il quale voleva che si sistemasse la faccenda nel migliore dei modi”. “Fu così che proposi al Lucà ed al suo amico la dilazione del credito” conclude il Ferrara. L’imprenditore Giuseppe Munafò sarà poi assassinato in un agguato mafioso nei pressi della sua abitazione a Portorosa il 23 gennaio ‘94.

3.8    Non vedo,  non sento,  non parlo

Alberti junior, i Greco, una lunga sfilza di latitanti palermitani legati sia alle famiglie vicine ai Corelonesi che ai clan perdenti di Stefano Bontade e Salvatore Inzerillo: sono questi gli uomini che si muovono alla luce del sole nei tranquilli centri di Villafranca Tirrena, Rometta, Portorosa. Chi dovrebbe avere istituzionalmente il controllo del territorio e marcare i principi della legalità sembra non accorgersene. Non vede. Forse tollera silenziosamente. O subisce per ignavia.

Gerlando Alberti junior quando viene fermato l’8 dicembre dell’85 in località Orto Liuzzo dichiara sfrontato alla pattuglia dei militari di “essere amico del maresciallo Carmelo Giardina Comandante della Stazione dei Carabinieri di Villafranca”. Ciò lo esonerebbe dall’esibire i documenti al controllo. Il militare dell’Arma chiamato a testimoniare davanti al giudice Mondello cerca di ridimensionare il presunto rapporto di amicizia: “Avevo visto l’Alberti a Villafranca prima dei fatti solo due volte, una volta dal barbiere “Federico” e l’altra volta nel negozio di generi alimentari della moglie del Catrimi Francesco. La prima volta, appena entrai nel negozio l’Alberti mi salutò rispettosamente e io successivamente chiesi chi fosse tale persona. Mi fu risposto che era un gentiluomo e come tale era conosciuto a Villafranca”. Evidentemente l’alto tenore di vita e il gran numero di auto mostrati dall’Alberti in oltre tre anni di residenza a Villafranca non generavano alcun sospetto sulle guardinghe forze dell’ordine. Eppure c’è chi ha sollevato forti ombre sull’immagine e l’operato dell’Arma di Villafranca, proprio quella che ha condotto tutte le indagini del delitto Campagna. E lo ha fatto dall’alto di un’aula di giustizia.

Famà è l’attuale Comandante dei Vigili Urbani di Villafranca. Accennando ad una sua attività di collaborazione informativa con gli organi di Polizia in occasione di indagini su pregiudicati o latitanti presumibilmente residenti nel centro tirrenico, durante l’udienza di un recente processo ha raccontato di aver detto nel ‘94 al maresciallo Farris dei Carabinieri di Reggio Calabria “di stare attento andando a Villafranca”.

“Da chi si doveva guardare il maresciallo Farris?” gli chiede il PM. “Dal Comando Stazione Carabinieri che per determinate situazioni, noi non ci fidavamo…” risponde il Famà. “Ma non ero solo io a dire questo. Perchè, venivano quelli del Reparto Operativo e mi dicevano di non fare menzione delle loro visite al locale comando stazione. Tra di essi c‘era il maresciallo Biagio Gatto, l’allora brigadiere Aveni o Avenia, mi pare si chiamasse. In quel periodo particolare noi operavamo con la Squadra Mobile, col dottor Montagnese… Con i Carabinieri del luogo c’è stato da parte nostra un certo disimpegno, perchè su determinate attività informative per episodi accaduti, non ritenevo utile avvalermi del locale Comando stazione Carabinieri” prosegue il racconto del Comandante Famà. “C’è stato un motivo particolare che mi ha indotto a questo tipo di atteggiamento. Durante la latitanza del pregiudicato Anastasi che era accusato di tentato omicidio, una nostra pattuglia individuò l’Anastasi su un autoveicolo e fu immediatamente fatta la segnalazione alla locale Comando stazione Carabinieri. Neanche un’ora e mezza dopo, l’agente che accertò la presenza del pregiudicato e del latitante nel nostro territorio, fu avvicinato dall’autista che lo rimproverò: – Come ti sei permesso di dire che io ero su quella autovettura? – notizia che era in possesso del locale Comando Carabinieri. Come mia abitudine la segnalazione, viene fatta direttamente al comandante della stazione che all’epoca era il maresciallo Giardina”.

Il Famà punta ancora il dito contro il maresciallo Giardina raccontando un episodio che lo avrebbe coinvolto direttamente: “Avendo un appartamento sul mare a disposizione e avendo messo un’inserzione sul giornale per l’affitto, fui contattato da persone che lo volevano per il periodo non estivo. Fu fatto un sopralluogo nell’appartamento da un certo Fabio Nicotra insieme ad una ragazza. Poi mi chiamarono alle 11 di notte per la chiave. Il fatto mi ha insospettito immediatamente. Quando chiesi il documento di riconoscimento, mi accorsi che era di un pregiudicato. Forse era Giuseppe Ioppolo, collegato con la criminalità organizzata. Con lui c’era un personaggio che parlava con accento napoletano. L’indomani mattina, recatomi in ufficio con i dati, accertai i precedenti di questo Ioppolo. Chiamai immediatamente i Carabinieri. Il maresciallo mi disse: – Comandante avvisi subito il maresciallo Giardina di mettersi immediatamente in contatto con il Reparto Operativo. Cosa che feci immediatamente alle 8 e mezzo. Ci siamo incontrati con il Giardina verso le cinque di sera e mi dice: – No. Non ho avuto tempo. Non solo, ma mi dice: – Andiamo a prendere qualcosa al bar. Dissi: – Maresciallo se ci vedono assieme… Non mi sembra il caso… Neanche a farlo apposta, arrivati al bar c’erano seduti fuori questi personaggi …. L’indomani presi contatto con il maresciallo Gatto che verbalizzò le mie dichiarazioni individuando Ioppolo e Fabio Nicotra della famiglia calabrese dei Nicotra. Però, queste persone all’indomani sparirono. A distanza di 20 giorni, vennero, mi lasciarono la chiave e se ne andarono. In seguito vidi la fotografia del terzo personaggio, che era Ciro Aprile, collegato alla camorra”. Per l’ennesima volta fu sprecata a Villafranca l’occasione per una retata di pezzi da novanta di mafia, ‘ndrangheta e camorra. Il napoletano Ciro Aprile, killer legato al clan Nuvoletta ma a disposizione del gruppo barcellonese di Pino Chiofalo, verrà poi assassinato nel maggio ‘94, in contrada Bazia a Furnari.

3.9    A trafficare  droga  e armi con l’emergente Pimpo

Un gruppo ‘composito’ quello che si nasconde nell’hinterland messinese che per carisma e strapotere economico gode del ‘rispetto’ dei giovani clan peloritani, i quali trovano in Gerlando Alberti junior & soci gli uomini d’onore in grado di fare da ‘mediatori’ e ‘pacieri’ nelle lotte che lacerano la provincia. Eppure nell’ambiente della mafia palermitana proprio l’Alberti era noto per il suo carattere violento che lo portava a commettere delitti senza la ‘giusta motivazione’. Per questo gli era stato appioppato il termine ingiurioso di ‘fanguso’. Ma nel messinese Gerlando Alberti junior diviene la migliore entratura per espandere i traffici di droga e di armi con le famiglie barcellonesi capitanate da Carmelo Milone e Giuseppe Gullotti e le cosche della Sicilia occidentale, e per ‘avvicinare’ insospettabili potenti della politica, delle istituzioni e della magistratura.

Nel capoluogo di provincia Gerlando Alberti e il cugino Tony Alberti si erano inseriti nel mondo dell’edilizia privata costituendo un’impresa di movimentazione terra che lavorava a Santa Lucia sopra Contesse. A presidiare i cantieri vennero chiamati gli uomini di Salvatore Pimpo, il pregiudicato legato al clan catanese dei Ferlito, che raggiunge la leadership nei gruppi mafiosi messinesi dopo la morte di Cavò per essere infine ucciso nel ‘90 in un agguato in via Palermo su ordine dei boss di Giostra Luigi Galli e Mario Marchese. I legami tra Gerlando Alberti e il Pimpo erano di vecchia data: il messinese ne aveva conosciuto lo zio, Gerlando Alberti senior inteso ‘Paccarè’ durante la detenzione nel carcere di Volterra. Il vecchio boss gli aveva salvato la vita intervenendo su alcuni detenuti che avevano deciso di avvelenarlo con del pesce su richiesta del boss Pippo Leo. Salvatore Pimpo si era poi inserito nei traffici di armi e droga del nipote Alberti junior, incaricando più volte Antonino Caliò, successivamente ucciso, di recarsi a Palermo  presso gli affiliati alle cosche vicine agli Alberti per rifornirsi di grosse partite di stupefacenti che venivano poi spacciate a Messina per conto dello stesso Pimpo e dei fratelli Rizzo, suoi cugini.

Il boss emergente di Messina si metterà a piena disposizione dell’Alberti durante la sua detenzione in carcere, facendogli ottenere una cella in compagnia di altri mafiosi palermitani. Settimanalmente il Pimpo si faceva autorizzare un colloquio con l’Alberti, onorandolo con ricchi doni compreso uno splendido orologio d’oro “dal valore di venti milioni”. Sarà proprio Salvatore Pimpo, prima di morire, a raccontare ad alcuni suoi uomini movente ed esecutori dell’omicidio della diciassettenne Graziella Campagna.

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