QUANDO GLI ANGELI CANTANO … CIAO GABRIELE di Christian Abbondanza

Gabriele Fazzari era un ragazzo d’oro. Amava la semplicità e la gioia che viene dalla vita. Da una vita che è anche e soprattutto fatica quotidiana. Che è condivisione con chi ha accanto, delle gioie e dei dolori, delle ansie e delle speranze. Che è il rispetto e l’educazione. Dignità. Questo era Gabriele Fazzari.
E così bisogna ricordarlo. Questo è ciò che basterebbe per far capire chi è stato questo ragazzo, nonostante ciò che di devastante ha accompagnato, giorno dopo giorno, la sua famiglia. Una famiglia che ha amato e che lo ha amato. Rolando, Mari ed Eleonora, da oggi hanno un angelo che li accompagna. Quel Gabriele che troppo presto, per una tragedia devastante, oggi, ha chiuso gli occhi.

In diversi mi hanno chiesto di scrivere. Di raccontare. Di ricordare. Non è facile. Non lo è perché il dolore e la rabbia accompagnano questi istanti. Dal momento della notizia. Non svaniscono, come tenace è lo sconforto. Non è facile, ma ci provo. Ci devo riuscire. Lo devo fare per quell’angelo. Lo devo alla sua mamma, al suo papà, a sua sorella, alla loro straordinaria umanità. Lo devo agli occhi bagnati di chi lo conosceva, di chi gli era amico.

Ed allora ecco. I pensieri che si sovrappongono. Si cerca di razionalizzare… di metterli in fila, dargli un ordine. Non si possono tacere le emozioni. Non si possono nemmeno tacere i pensieri…

Gabriele Fazzari oggi è andato a lavorare. Nell’impresa di famiglia. Là, in cima ad una strada che entra nel monte e sbuca in quel piazzale, a tre chilometri dalla strada provinciale che da Toirano va a Balestrino. E’ andato da solo, senza dire nulla. Voleva, anche oggi, fare qualcosa. Sporcarsi di sudore, così come ha fatto per tutta la vita suo padre. Pioveva, ma questo non lo spaventava.
Era solo a lavorare… E’ salito da solo, in silenzio, ed era solo perché l’ultimo operaio lo avevano dovuto mettere in cassa integrazione la settimana scorsa, visto che nessuno andava più a comprare i blocchetti per le pavimentazioni, di ottima qualità, che, artigianalmente, uno ad uno, producevano. La crisi. L’isolamento. Il pagare dazio per essere una famiglia con la schiena dritta.

Gabriele sa che vita d’inferno ha passato suo padre da quando, ragazzo, ha scelto di camminare lungo strada della dignità e della legalità. Gabriele conosce le fatiche di suo padre e di sua madre per tenere in piedi quella piccola azienda, rimboccandosi le maniche, per il quotidiano e per resistere e superare i tanti, troppi, continui danni e dispetti subiti. Gabriele conosce quelle fatiche, così come l’umiltà. Con i suoi familiari ha voluto difendere la Dignità del loro lavoro, della loro vita. Così su, in quel piazzale, ai piedi del fronte di cava. Così a casa, sul divano… con i suoi, con sua sorella. Così come quando era con gli amici… o non usciva per non “pesare”.

E Gabriele, questa mattina, era là, da solo. Non doveva usare l’escavatore, papà non voleva, perché da soli è pericoloso. Non c’era papà, Gabriele è andato su senza dire nulla. Voleva fare qualcosa. Anche lui, anche oggi, sotto la pioggia, voleva dare il suo sudore per quella loro piccola impresa.
Un pezzo del monte è caduto. Lo ha preso in pieno. Lo ha schiacciato insieme all’escavatore. Non c’è stato scampo. Il peso della roccia lo ha schiacciato. A soli diciotto anni.

Ora sono al lavoro gli inquirenti. Devono capire cosa sia successo. Perché quel pezzo di montagna è caduto ed ha ucciso.

Ora la sua famiglia è distrutta. E’ un dolore che non trova freno. Non trova giustificazione. Non c’è alcuna parola o gesto che posta alleviare la ferita. E’ una tragedia. E davanti alla tragedia c’è lo sconforto. Il pensare agli infiniti “se”… Il considerarsi responsabili anche quando non c’è responsabilità alcuna… Il sentirsi venire meno il respiro, ogni appoggio, ogni spinta ad andare avanti. E’ il sentirsi crollare, definitivamente. Ci si sente attoniti, come se imprigionati in un incubo. Questo però è quello che Gabriele non avrebbe mai voluto… Non è questo l’animo dei suoi cari che ha amato e che lo hanno cresciuto. Tenace come il suo papà, forte come la sua mamma, e pieno di speranza come sue sorella. E questo volto di Gabriele, quello segnato da questi tratti, è quello che la tragedia non può rubare. E’ il volto di un ragazzo che avremo sempre davanti ai nostri occhi… che sentiremo nel nostro cuore. Quel volto e quel calore che mai si spegnerà e che ricorda ai suoi cari quello che loro hanno insegnato a lui: andare avanti, sempre, a testa alta, perché la vita va vissuta, anche quando ci sembra che non ci sia più speranza, anche quando la fatica ti piega la schiena e le ferite l’anima!

Ma torniamo, dobbiamo tornare, a ciò che è accaduto. Dobbiamo capire. Vogliamo capire. E’ un dovere capire tutto. Ogni tassello. Lo dobbiamo a quell’angelo… Lo dobbiamo a chi lo ama.

Dicono che non è per responsabilità della pioggia. Non lo so. Non sappiamo ancora la causa. Sappiamo altro. Sappiamo che avevano chiesto alla Regione Liguria di intervenire su quella Cava. Avevano presentato alla Comunità Montana la richiesta di poter intervenire per mettere in sicurezza quel vecchio fronte di cava. Sappiamo che avevano presentato anche un progetto per i lavori, a loro spese, per intervenire. Sappiamo che la Regione Liguria non è intervenuta, che la Comunità Montana non ha acconsentito alla realizzazione della messa in sicurezza da parte della Ligur Block. Qualcuno dovrà risponderne.

Non sappiamo se quel pezzo di monte, quindi, è caduto da solo o meno. Non si sa ancora. Forse non lo sapremo mai con certezza. Ma una certezza c’è. La Regione Liguria non aveva acconsentito a mettere in sicurezza l’area. Un elemento inquietante. Non erano solo carte. Non erano solo segnalazioni e richieste di verifiche ed intervento, su quella vecchia area nominata “Cava di Camporosso”, nel Comune di Balestrino. Erano richiesta di prevenzione. Era: evitare il possibile disastro. Sarebbe stato: evitare una morte!

Non sappiamo perché quegli Uffici della Regione, così come della Provincia, della Comunità Montana, abbiano chiuso gli occhi davanti a quei segni evidenti di frattura a monte del fronte di cava. Ferite visibili ad occhio nudo. Profonde. E così non sappiamo come sia possibile che venisse concessa la proroga alla coltivazione dell’attività estrattiva che ferisce il monte. Non a loro, alla Ligur Block, ma alla CoMiTo (e poi Samoter), che operano lì accanto. Anche qui, segnalazioni ripetute. Segni evidenti di omissioni di intervento persino sulla canalizzazione delle acque meteoriche nell’area di cava. Ed ecco, conseguenti eventi franosi, più o meno intensi. Cedimenti. Comunicati sempre, costantemente alla Regione, ma ignorati.

Sappiamo invece che se Orlando Fazzari non fosse stato “soffocato” da quella famiglia da cui si era distaccato, la sua impresa, la Ligur Block, oggi non sarebbe stata lì.

Sarebbe stata altrove, se solo non gli avessero portato via tutto. Se solo la Giustizia avesse fatto il suo dovere davanti alle denunce che, ripetutamente, produceva. Se non ci si fosse lavati le mani davanti alle cause che intentava. Se avesse avuto un poco di ossigeno, lui e la sua famiglia, quel posto “maledetto”, dentro tre chilometri ad un monte ferito, lo avrebbero abbandonato. Si sarebbero trasferiti altrove. Ed invece: condannati a subire, per una vita, anno dopo anno, sino a quando, una vita, di soli diciotto anni, è stata spazzata via.

Sappiamo anche che se quella dignità e quell’onore, dettato dal rigore e dalla fatica quotidiana per vivere onestamente, lo avessero avuto anche altri oltre a loro, oggi forse non ci sarebbe stato un ragazzo di diciotto anni morto. Non ci sarebbe stato se l’economia locale non avesse isolato quell’impresa, costringendola a restare in quel posto “maledetto”.

Se le imprese, se gli Enti locali, anziché andare a comprare i blocchetti di cemento, pagandoli anche ben più cari, lontano, altrove, li avessero comprati dalla Ligur Block, loro si sarebbero potuti permettere di spostarsi altrove. In un posto più sicuro. Ma i tanti hanno preferito non “turbare” chi voleva “soffocare” Orlando Fazzari, la sua famiglia, giorno dopo giorno, nel silenzio.

La responsabilità è collettiva. Certo non quella materiale della tragedia. Ma quella morale per il contesto in cui la tragedia si è fatta realtà. Ed è una responsabilità pesante. Io personalmente la sento sulle mie spalle. Perché dovevo fare di più. Dovevo andare oltre a ciò che ho fatto e riuscire, in qualche modo, a smuovere ciò che pareva un immutabile realtà. Altri, tanti altri, la comunità, ha la stessa responsabilità. Aver fatto finta di nulla, per non rischiare nulla. Ecco, oggi le coscienze di ciascuno di coloro che sapevano ed hanno preferito tacere, sono chiamate a risponderne.
Lo Stato, anche, è chiamato a rispondere perché non devono passare anni ed anni, susseguirsi di episodi, per dire basta e garantire una sacrosanta sicurezza alle persone che subiscono e vanno avanti, denunciando, stando a testa alta. L’isolamento deve essere per i carnefici, che “soffocano” quotidianamente le vittime. Quando accade l’inverso, tutti, la comunità, comprendiamolo, una volta per sempre, anche se è tardi, è responsabile!

Gabriele non tornerà più. Nessuno lo potrà più riabbracciare, rivedere. Nessuno avrà più il dono della gioia e voglia di vivere e di dignità, che trasmetteva anche con poche parole. Ma che almeno, dopo tanto soffrire, dopo questa tragedia, è il momento che la comunità, quella comunità che troppo spesso si è voltata dall’altra parte, si stringa intorno a Rolando, Mari e Eleonora… Abbracciando loro, stando vicini a loro, facendogli sentire il proprio sostegno e calore, si può riabbracciare Gabriele.

Christian

 

Foto ed Articolo del 1 Novembre 2012 da casadellalegalita.info

 

 

 

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