Ragazzi della terra di nessuno di Gianni Solino
Editore La Meridiana
Articolo del 25 Settembre 2008 da caffenews.it
L’agro aversano raccontato da Gianni Solino in “Ragazzi della terra di nessuno”
“Perché piangevo, perché provavo tanto dolore, tanta pietà? D’improvviso capii. In quella bara c’ero io, la mia anima, i miei ideali, le mie speranze. Era la mia morte quella che piangevo. Ero stato ucciso ma non volevo morire. A parlare si può correre qualche rischio. A volte, però, a stare zitti si rischia molto di più”.
Prefazione di don Luigi Ciotti
Quella “terra di nessuno” qui raccontata da Gianni Solino, del Comitato don Peppe Diana di Casal di Principe, in realtà, da alcuni anni sta cominciando ad appartenere ai cittadini che la abitano, che se ne stanno riappropriando in un percorso di liberazione. Se non ancora dal giogo della camorra, quanto meno da quella “sorta di collettiva sindrome di Stoccolma” che acutamente l’autore rileva e che contribuisce a spiegare il relativo radicamento sociale del fenomeno criminale.
La camorra è un mondo, con le sue leggi, i suoi codici, identità e linguaggi, con regole di governo interno e sistemi di relazione esterna. Un “Sistema”, appunto. Che viene percepito come escrescenza e corpo estraneo dagli altri cittadini, quando uccide e fa strage, ma col quale si finisce per convivere nella quotidianità. Proprio come impara a fare uno dei protagonisti delle storie che seguono, il Drago, al secolo Giorgio Villan. Commerciante di abbigliamento di Chioggia, aveva spostato la sua attività imprenditoriale in Campania. Probabilmente, come molti suoi colleghi, finché operava in Veneto si sarà lamentato delle tasse e del fisco, ma al sud pagava regolarmente il “pizzo”, come fosse una cosa normale, una specie di assicurazione sul negozio e sulla vita. Si è trovato invece stritolato nella guerra tra due bande rivali di taglieggiatori, finendo ucciso.
Il potere delle mafie cresce e si rafforza grazie all’omertà (sottolinea giustamente Solino: a parlare si possono correre rischi, ma a stare zitti si rischia molto di più, perché si diventa schiavi), alla rassegnazione e a quel particolare sentimento che fa percepire l’organizzazione criminale come benevolente, magari e paradossalmente semplicemente perché anziché ucciderti si è limitata a sparare alle gambe, come nel caso del vicesindaco “comunista” di Casapesenna, Antonio Cangiano, raccontato in queste pagine. La facoltà di uccidere e quella di “graziare” sono due facce della stessa medaglia, del potere assoluto e criminale che si presenta come il sistema di governo del territorio più forte e maggiormente efficiente, inflessibile e anche spietato, ma capace di magnanimità. Come un padre severo però attento ed equanime.
Di questa immagine, sapientemente accreditata dagli uomini dei clan, si nutre la camorra, che invece somiglia semmai a un vampiro, una creatura orrenda che si rafforza dissanguando le sue vittime, sottraendo loro ogni energia vitale, sino a ucciderle.
Le vittime diventano tali anche perché non osano ribellarsi, perché la paura genera passività e infine convivenza. Eppure, osserva Solino, “la camorra non è un ‘male endemico’ da cui non si può guarire, ma un fenomeno socio economico criminale che ha avuto un inizio e avrà una fine”.
È una considerazione importante, così come è istruttiva l’analisi che l’autore svolge su come, dopo il terremoto del 1980 e gli imponenti fondi stanziati per la ricostruzione, decine di migliaia di miliardi di lire, sia avvenuta una profonda trasformazione della camorra “da fenomeno di arretratezza meridionale, dedita al controllo del contrabbando, delle estorsioni e della prostituzione, a moderna holding del crimine in grado di dominare e governare gli appalti di opere pubbliche, di infiltrare e condizionare le amministrazioni locali, potendo disporre del fiume di denaro derivante dal florido traffico di stupefacenti, proponendosi in tal modo come ‘mafia imprenditrice”. Va aggiunto che è in quella fase e attorno a quella montagna di miliardi che si sono coagulate, come mai in precedenza, le cointeressenze e i connubi con la politica, con esponenti di partiti e di realtà finanziarie.
La fine della camorra si è senz’altro avvicinata con l’omicidio di don Peppino Diana, avvenuto il 19 marzo 1994 a Casal di Principe, nel casertano. Una morte che scosse in profondità le coscienze, perché era stato colpito un sacerdote nella sua chiesa, esattamente come era successo a monsignor Oscar Romero, assassinato in San Salvador mentre celebrava messa.
Don Peppino, promotore di un importante documento dal significativo titolo ispirato al profeta Isaia, Per amore del mio popolo non tacerò, aveva denunciato la camorra, divenuta “una forma di terrorismo”, e il fatto che “il disfacimento delle istituzioni civili ha consentito l’infiltrazione del potere camorristico a tutti i livelli”, così che “la camorra riempie un vuoto di potere dello Stato che nelle amministrazioni periferiche è caratterizzato da corruzione, lungaggini e favoritismi”; monsignor Romero aveva incalzato la dittatura salvadoregna, indicato le responsabilità delle oligarchie economiche, della casta politica e del governo nelle violenze dell’esercito, nella sanguinosa e costante repressione del popolo. Due uomini sicuramente molto diversi, che vivevano in due contesti assai distanti ma accomunati dall’amore per la verità e per una chiesa che aveva scelto (e non sempre è stato così) di schierarsi con i più deboli, di essere vicina anche fisicamente ai poveri. Due uomini infine uniti dal comune destino di martirio.
Anche Gianni Solino, pur se già fortemente e da tempo impegnato contro la criminalità camorrista, da quel tragico assassinio venne indelebilmente segnato, intimamente addolorato e ulteriormente motivato. Questo libro, dalla forte valenza educativa, si rivela anche come un sentito omaggio, come un atto di amore e riconoscenza verso il sacerdote assassinato.
Ai funerali di don Peppino, l’omelia del vescovo Lorenzo Chiarinelli era diventata vibrante esortazione a ripudiare la logica della violenza: “Terra di Casale e intero Agro Aversano, bandisci le armi! Gettale via. Non ce ne siano più nelle tue case, nelle tue mani, nei tuoi pensieri”.
Con passione, cognizione di causa e anche sincero dolore Gianni Solino ci rende evidenti i meccanismi sociali e prima ancora culturali che portano tanti giovani a lasciare che le armi entrino nei loro pensieri e poi nelle loro mani e nelle loro case, a lasciarsi arruolare dal “Sistema”, illudendosi di “diventare qualcuno”, di essere instradati in carriere di boss, ma essendo invece solo povera carne da macello, assassini e in qualche modo vittime al tempo stesso. Proprio come Diego, arruolato nelle bande criminali e infine a sua volta ucciso, la cui storia ci viene raccontata con partecipazione dall’autore, nell’infanzia suo compagno di giochi.
È tuttavia netto, sin dalla premessa, il rifiuto di Solino verso ogni giustificazionismo: non sono solo le condizioni di miseria o di disoccupazione alla radice dell’arruolamento nelle bande del crimine organizzato. La scelta camorrista va considerata appunto una scelta, un atto di responsabilità negativa che va fatta pesare.
Anche perché è solo in quest’ottica, quella della responsabilità e della scelta, che è possibile, viceversa, sottrarsi alla carriera criminale e alla fascinazione della violenza.
Non vi sono fatalismi né tolleranza possibili. Le armi vanno bandite. Dalle logiche di morte si può e si deve uscire. Senza queste esortazioni morali e senza messaggi di speranza, allora sì, la violenza potrebbe vincere e le mafie restare eterne.
La vicenda che chiude il volume, quella di Luciano, è limpida e commovente. Ci racconta di come possa essere l’amore a fermare sull’orlo del baratro e di quanto spesso siano le figure femminili − le madri, le mogli, le fidanzate − le più determinate e lucide nel contrastare le derive violente.
“Anche l’inverno ha nel cuore la primavera” recitava il motto della Scuola di pace “don Peppe Diana” che, l’anno successivo al suo omicidio, venne costituita da Gianni e un gruppo di altri cittadini impegnati sul territorio.
Sono le parole aperte al futuro che possono convincere i giovani a rifiutare carriere di morte. Ma prima ancora sono gli esempi, la capacità di essere credibili, vale a dire coerenti. Perché l’antimafia non si fa solo a parole. Queste storie e l’impegno di Gianni Solino ci mostrano una strada vera ed efficace, quella di cittadini in cammino che sanno tenere la testa alta e lo sguardo fermo, che sanno porre domande scomode, ma anche interrogarsi.