Sdisonorate – Le mafie uccidono le donne – Associazione daSud
1896
Emanuela Sansone, Palermo.
Si chiama Emanuela, è la figlia della bettoliera Giuseppa Di Sano. La ammazzano a Palermo, il 27 dicembre 1896. È probabilmente una ritorsione: i mafiosi, come emerge dal rapporto del questore di Palermo Ermanno Sangiorgi, sospettano che la madre li abbia denunciati per fabbricazione di banconote false. Dopo l’omicidio, la madre di Emanuela collabora con la giustizia: uno dei primi esempi del ruolo positivo delle donne, troppo spesso ignorato e dimenticato.
1945
Angela Talluto, Montelepre (PA).
La sera del 7 settembre 1945 il bandito Salvatore Giuliano organizza un agguato contro il militante socialista Giovanni Spiga. Il blitz scatta davanti alla porta di casa. I colpi di pistola lo feriscono a una gamba. Ma il bilancio dell’aggressione è ben più tragico: viene uccisa Angela Talluto, una bambina di un anno.
1946
Marina Spinelli, Burgio (AG).
È ancora un agguato a un militante del mondo politico e sindacale a costare la vita a una donna. Si tratta di Marina Spinelli, colpita a morte nell’agguato in cui muore Antonio Guarino, segretario della Camera del lavoro di Burgio, il 17 marzo 1946. La sua unica colpa è stata passare dal posto sbagliato nel momento sbagliato.Tommasa (Masina) Perricone (in Spinelli) fu uccisa a Burgio (AG) il 7 marzo del 1946. Casalinga di 33 anni, appena sposata, stava rientrando a casa nello stesso istante in cui un commando stava cercando di eliminare il candidato sindaco di Burgio, Antonio Guarisco. I colpi sparati furono tanti. Uno colpì a morte Masina. Guarisco si salvò. Fu ferito solo ad un braccio.
Masina è vittima due volte. Uccisa dalla mafia e dimenticata dallo Stato per un incredibile errore. Nelle liste delle vittime della regione siciliana, probabilmente per un errore dattilografico, è indicata come MARINA SPINELLI, nome storpiato e il cognome del marito. Data per assassinata a Favara nell’attentato contro il sindaco Gaetano Guarino. “Con il risultato che pur essendo stata dichiarata vittima innocente della mafia i parenti non hanno potuto ottenere alcun aiuto e beneficio dall’amministrazione pubblica. Ed ancor oggi non sanno di aver avuto in casa una martire di Cosa nostra sancita dalla legge.” (Senza Storia di Alfonso Bugea e Elio Di Bella).
1947
Vincenzina La Fata, Margherita Clesceri, Vincenza Spina, Eleonora Monchetto, Portella della Ginestra (PA).
Il primo maggio del 1947 alla Festa del lavoro nel pianoro tra Piana degli Albanesi, San Giuseppe Jato e San Cipirello arrivano contadini e lavoratori da tutta la provincia. C’è da festeggiare anche la vittoria delle sinistre, raccolte nel Blocco del Popolo, alle prime elezioni regionali siciliane del 20 aprile. Improvvisamente si scatena un inferno: un commando comincia a sparare sulla folla dalle montagne. Le fonti ufficiali raccontano di 11 morti e 27 feriti. Le vittime però sono molte di più. Solo quattro mesi più tardi si viene a sapere che a sparare materialmente sono stati gli uomini del bandito Salvatore Giuliano. Tra le vittime ci sono anche Margherita Clesceri, madre di sei figli e incinta, la piccola Vincenzina La Fata di appena 8 anni, Vincenza Spina e Eleonora Moschetto.
1959
Anna Prestigiacomo, Palermo.
Ha 15 anni Anna quando viene uccisa. È la sera del 26 giugno 1959 e Anna si trova nel giardino di casa quando viene colpita al petto da diversi colpi di fucile caricato a pallettoni. La sorellina Rosetta, di appena 11 anni, vede in volto il killer e lo riconosce nel vicino di casa. Un amore rifiutato e il contrasto tra una “famiglia perbene” e un delinquente di borgata pronto a scalare i gradini della criminalità sono gli ingredienti di questo assassinio. La morte di Anna crea enorme scalpore e commozione a Palermo.
Giuseppina Savoca, Palermo.
Viene colpita per caso da un proiettile vagante Giuseppina. Passa per strada nel corso della sparatoria in cui viene ucciso il pregiudicato Filippo Drago. Viene soccorsa e trasportata in ospedale. Le cure disperate non servono a nulla, Giuseppina muore dopo tre giorni in seguito a complicazioni polmonari. È il 19 settembre 1959 e Giuseppina ha solo 12 anni.
1962
Maria e Natalina Stillitano, Gioia Tauro (RC)
È una strage compiuta all’interno della faida tra gli Stillitano e i Maisano quella che porta alla morta Maria e Natalina Stillitano. A progettare la vendetta è Domenico Maisano: riteneva lo zio delle vittime il responsabile del ferimento di suo nipote, Martino Seva, ridotto sulla sedia a rotelle per le pistolettate ricevute. Il piano di morte scatta a Drosi, piccolo centro della Piana di Gioia Tauro, il 22 dicembre 1962. Maisano massacra a colpi di arma da fuoco Maria e Natalina Stillitano, rispettivamente di 22 e 21 anni. Quella sera le due ragazze sono nella loro abitazione in compagnia d’una nipote quindicenne intente nel loro lavoro di sartoria. Domenico Maisano bussa all’uscio di casa e, appena Maria spalanca la porta, le scarica addosso una fucilata, uccidendola. Fa quindi irruzione nello stabile e chiede alla terrorizzata Natalina dove si trova suo padre Francesco. La donna, in preda allo shock, non è in grado di rispondere. Maisano reagisce male e le scarica contro tutti i proiettili contenuti nel caricatore della pistola che teneva alla cintola. Alla ragazzina quindicenne riserva invece tre pallottole alle gambe. Compiuta la strage, fugge per le campagne. L’omicida viene poi ucciso in un omicidio di ‘ndrangheta.
1965
Concetta Iaria, San’Eufemia d’Aspromonte (RC)
La notte del 17 gennaio 1965 a Sant’Eufemia d’Aspromonte un commando di killer mai identificati sfonda il portone d’ingresso della casa in cui vive Concetta Iaria, 36 anni, insieme ai suoi quattro figli. Sono lì per compiere una vendetta.
Il marito della vittima, Giuseppe Gioffrè, infatti, sette mesi prima a Sinopoli aveva ucciso dopo una lite Antonio Dalmato e Antonio Alvaro. Poi s’era costituito finendo in galera.
I “vendicatori” sparano all’impazzata a colpi di lupara: uccidono prima il figlio dodicenne Cosimo, che dorme in un lettino insieme con il fratellino di otto anni. Si spostano poi verso il letto matrimoniale poco distante dove sono sdraiate Concetta e le sue bimbe Maria, cinque anni, e Carmelina, di appena sei mesi. Gli attentatori rivolgono le armi contro la casalinga e la colpiscono alla testa. Feriscono anche le figliolette. Poi fuggono. La storia ha un esito tragico: Giuseppe Gioffrè, dopo aver perso la moglie e un figlio, scontata la pena inflittagli per il duplice omicidio, si trasferisce a San Mauro Torinese. Lì viene assassinato l’11 luglio del 2004. Trent’anni dopo il duplice delitto che aveva commesso.
1969
Maria Immacolata Macrì, Mammola (RC)
Anche le donne esigono vendetta. E a volte la praticano. Per Maria Teresa Ferraro la morte del figlio è un evento insuperabile. Tanto da poterlo superare forse soltanto dispensando nuova morte. Suo figlio, Nicodemo Iannizzi, è morto a vent’anni durante un banale parapiglia: una discussione tra un gruppo di giovani e un uomo di 54 anni, Nicodemo Sansalone, che, ubriaco, usa il suo ombrello come una spada. Il ragazzo si becca una sciabolata in un occhio e se ne va dopo ore di agonia. Da quel 14 dicembre 1968 a Mammola si cova l’odio. La vendetta arriva il primo giugno 1969. E non importa se a pagare è una zia dell’omicida. Alla prima occasione, la mamma straziata dal dolore spara otto colpi di pistola contro Maria Immacolata Macrì. Così trova la sua pace.
1970
Rita Caccia, Rosa Fazzari, Nicolina Mazzocchio, Letizia Palumbo, Adriana Vassalla, La Freccia del Sud partito da Palermo sta andando verso nord. È il 22 luglio e ci sono a bordo oltre 200 persone. All’altezza di Gioia Tauro, il treno deraglia. Il caso viene liquidato: si tratta di un incidente. Eppure i sospetti che possa essersi trattato di un attentato ci sono da subito e le incongruenze nelle indagini sono molte. Muoiono sei persone. Cinque sono donne: Rita Cacicca, Rosa Fazzari, Nicolina Mazzocchio, Letizia Palumbo, Adriana Vassalla. I feriti sono 72. Il caso resta chiuso fino al 1993. Quell’anno il pentito della ‘ndrangheta di Reggio Calabria Giacomo Ubaldo Lauro rivela che si è trattato di un attentato stragista, la cui responsabilità è da attribuire alla ‘ndrangheta e alla destra eversiva. Il 5 luglio 2007 la Cassazione mette il punto sulla vicenda, confermando che la ricostruzione di Lauro è veritiera. I cinque “anarchici della Baracca” avevano scoperto tali retroscena e sono stati uccisi per questo motivo.
Annalise Borth, Ferentino (FR).
Annalise Borth è una ragazza anarchica tedesca. È arrivata a Reggio Calabria e lì, insieme a suo marito Gianni Aricò, e ad alcuni amici ha messo in piedi un gruppo di controinformazione e di azione politica. Sono diventati noti come “gli anarchici della Baracca”. Si interessano in particolare di due eventi accaduti nell’estate del 1970: la rivolta di Reggio Calabria e il deragliamento del treno Freccia del Sud a Gioia Tauro. Sostengono da una parte che c’è l’infiltrazione dei neofascisti di Ordine Nuovo e di Avanguardia Nazionale nei Moti di Reggio con l’obiettivo di strumentalizzare la piazza. E ritengono che il deragliamento del non è stato incidentale, ma provocato da una carica di esplosivo piazzata dai neofascisti aiutati dalla ‘ndrangheta. Insieme ai reggini Angelo Casile e Franco Scordo e al cosentino Luigi Lo Celso il 27 settembre i 5 ragazzi si mettono in viaggio per Roma in macchina a bordo di una mini minor: vogliono partecipare alla manifestazione contro Nixon e soprattutto consegnare a un avvocato del movimento un faldone con le loro ricerche sul coinvolgimento della ‘ndrangheta nei due episodi.
Durante il viaggio rimangono tutti uccisi in uno strano incidente stradale nei pressi di Ferentino: l’incidente chiama in causa il principe nero Valerio Borghese, persona nota negli ambienti di estrema destra, perché il camion con cui hanno avuto lo scontro è di una ditta che fa capo al principe nero. I documenti e le carte che dovevano consegnare non sono mai ritrovate.
1973
Francesca Bardo. Seminara (RC)
(Impegnata in ruolo attivo all’interno della ‘ndrangheta – dal libro Mamma ’ndrangheta – La storia delle cosche … di Arcangelo Badolati)
Il 26 gennaio viene assassinata a Seminara Francesca Bardo, 40 anni, vedova di Rocco Pellegrino. La donna viene colpita da una scarica di pallettoni mentre torna dalla messa funebre celebrata in occasione dell’anniversario della morte del marito. L’omicidio rientra nella faida tra la famiglia Pellegrino e quella dei Gioffrè.
Maria Giovanna Elia, Crotone.
Una casalinga di 67 anni, Maria Giovanna è la prima vittima innocente della faida tra i Vrenna e i Feudali. A Crotone si spara per strada: il 26 luglio, durante un conflitto a fuoco, un proiettile vagante la colpisce mentre prende il fresco della sera sul balcone di casa. Non c’è nulla da fare.
1974
Maria Teresa Tedesco, Angela Rosa Daniele, Guardavalle (CZ)
Guardavalle, un paesino della fascia ionica catanzarese, è scosso da una faida antica che si trascina da decenni. Lascia sul campo uomini, donne e bambini colpevoli spesso soltanto del cognome che portano. I Tedesco-Gallace e i Randazzo, con le famiglie alleate dei Vetrano, Daniele e Famà, si affrontano dall’ottobre del 1955. Ma è nel 1974 che la guerra giunge all’apice. L’anno si apre con il duplice omicidio di Luigi e Domenico Randazzo. Il giorno successivo, Nunziato Randazzo, passato alla leggenda con il soprannome di “vendicatore solitario”, decide di onorare la memoria dei fratelli a colpi di lupara. È un gesto efferato, spietato: muoiono Rocco Gallace, Nicola Tedesco, Maria Teresa Tedesco e Agazio Famà. Poco dopo muore un’altra donna, Angela Rosa Daniele.
1975
Cristina Mazzotti, Eupilio (CO)
Cristina Mazzotti è nota alle cronache come la prima sequestrata che morì nella lunga e dolorosa stagione che vide l’Anonima sequestri agire al Nord.
La ragazza è figlia di Helios Mazzotti, un industriale del settore dei cereali. La sera del 30 giugno Cristina sta rientrando con una coppia di amici dalla festa di diploma, quando l’auto su cui viaggiano viene affiancata da alcuni banditi. L’obiettivo dei malviventi è Cristina. Inizia così il suo rapimento. I sequestratori si fanno vivi il giorno dopo chiedendo un riscatto record di 5 miliardi di lire. Poi il silenzio. I genitori si rivolgono ai rapitori tramite i giornali, spiegando l’impossibilità di reperire una somma così alta. Il 15 luglio i rapitori si dichiarano pronti alla liberazione della ragazza dietro pagamento di un riscatto di un miliardo. A fine luglio Helios Mazzotti consegna la somma di un miliardo e cinquanta milioni ai rapitori, ricevendo in cambio la loro assicurazione sull’immediato rilascio della figlia. Il primo settembre però arriva la tragica notizia: il corpo senza vita di Cristina viene ritrovato ritrovato in una discarica del Varesotto. Tra i responsabili del sequestro, Domenico Loiacono, boss calabrese arrestato grazie alle rivelazioni del pentito Antonio Zagari, e Antonino Giacobbe, personaggio di spicco dell’anonima sequestri calabrese. Il capo del commando, arrestato soltanto nel 2008, è invece Giuliano Angelini, indagato anche per la strage di Piazza Fontana.
1976
Caterina Liberti, Melito Porto Salvo (RC)
Caterina Liberti è morta a Melito Porto Salvo la mattina del 22 marzo 1976 all’ospedale Tiberio Evoli dove era stata ricoverata in seguito a ferite di arma da fuoco. Tre giorni prima, venerdì 19 marzo, Caterina era stata colpita da alcune fucilate nella piazzetta del suo paese, Motticella di Bruzzano, mentre rincasava insieme alla madre. Aveva 36 anni e una figlia di 14 anni.
Il movente dell’omicidio sembrerebbe legato ad una denuncia che aveva sporto ai carabinieri qualche tempo prima. Caterina Liberti faceva la contadina e tempo prima le erano state rubate 4 capre. Dopo aver tentato invano di recuperarle, ne aveva denunciato il furto ai carabinieri. Uccisa perché aveva infranto la legge dell’omertà?
Fonte: memoriaeimpegno.blogspot.com
1977
Mariangela Passiatore, Brancone (RC)
La storia di Mariangela è la storia incredibile e amara di una semplice turista che ha scelto per le sue vacanze estive Brancaleone, un paesino sul mare Jonio della provincia di Reggio Calabria. È una domenica di fine agosto e nella villa affittata dall’industriale Sergio Paoletti è appena terminata la cena. Mariangela si gode gli ultimi giorni di libertà prima del rientro a Cinisello Balsamo, dove vive con il marito. Attorno alle dieci e mezza della sera del 28 agosto accade l’incredibile. Cinque banditi, armati e mascherati, fanno irruzione nella villa e sbattono tutti contro il muro. All’inizio sembra si tratti di una rapina. Quegli uomini fanno man bassa di soldi e gioielli. Mai e poi mai la signora Mariangela si sarebbe aspettata in sorte di essere sequestrata dall’Anonima. Ha 48 anni quando il marito la vede andar via. Per l’ultima volta. Nella villa resta un bandito fino alle due di notte a terrorizzare i presenti. Quando va via scatta l’allarme. Ma ormai Mariangela è già stata inghiottita dalla montagna. Il riscatto è fissato in 150 milioni, che non saranno mai pagati. Le notizie che arrivano in casa Paoletti sono confuse. Un amico di famiglia che vive nella Locride vuole dare una mano nelle ricerche e nella mediazione coi rapitori. Ma per il commerciante 45enne Giulio Cotroneo si mette male. Forse ha riconosciuto gli uomini della banda, forse ha fatto troppe domande in giro. Lo fanno fuori a colpi di upara il 13 settembre a Bruzzano Zeffirio, non lontano da Brancaleone. Finiscono in cella Angelo Bello, Fortunato Gallo e Carmelo Scaramozzino di Brancaleone, e Leo Alalia che vive a Genova, mentre Giuseppe Favasuli è emigrato in Australia ed è ricercato. Arrestano anche Giovanni Stellitano, custode del cimitero. A un anno dal rapimento, l’industriale Paoletti sembra aver perso ogni speranza di rivedere viva la moglie, ma vorrebbe almeno poter fare un funerale come si deve e per questo pubblica un’inserzione su diversi quotidiani, offrendo 30 milioni in cambio di notizie. Riceverà solo telefonate degli sciacalli. Nell’80 il processo di primo grado si conclude con un nulla di fatto. In attesa del processo muoiono ammazzati prima Stellitano (1984) e poi Angelo Bello (1987). In appello, istituito dopo diversi anni, si scopre che il processo è da rifare: un giudice popolare, il sindaco Dc di Stignano, Tobia Sotira, non aveva i titoli per partecipare al procedimento non avendo conseguito la licenza media. Seguono le definitive assoluzioni. E restano le ombre sulla vicenda.
Maria Rosa Bellocco, Rosarno (RC)
La regola della ‘ndrangheta prevede che a custodire l’onore della famiglia debbano essere gli uomini, costi quel che costi. Anche se il prezzo da pagare è la morte della propria compagna, della propria madre o sorella. È un prezzo che, soprattutto nella Piana di Gioia Tauro, è stato pagato più e più volte. Sono morti così Mario Alessio
Conte, Maria Rosa Bellocco e il loro figlioletto Francesco Antonio Conte, di appena nove anni. Secondo la ricostruzione dei magistrati, toccava al marito lavare col sangue l’infedeltà della moglie, lui si è rifiutato di farlo, e per questo l’intera famiglia è stata sterminata il 1° settembre 1977. Nelle indagini sono stati coinvolti il padre della donna, Michele Bellocco, insieme ai figli Pietro, Bernardo e Antonio. Solo quest’ultimo sarà condannato. Le successive rivelazioni del pentito Pino Scriva porteranno in cella Giuseppe, Umberto e Carmelo Bellocco, cugini della “disonorata”.
1980
Filomena Morlando, Giuliano (NA).
Filomena Morlando è una giovane insegnante: il 17 Dicembre del 1980 rimane uccisa nel corso di una sparatoria tra bande rivali a Giugliano. Alla sua memoria viene dedicata una strada e una lapide nel luogo dell’omicidio. L’obiettivo dei killer è Francesco Bidognetti. Sfugge all’agguato. Diventerà uno dei capi del clan dei Casalesi.
1981
Francesca Moccia, Napoli.
Una fruttivendola del centro di Napoli, Francesca Moccia, 48 anni, viene colpita a morte durante un agguato compiuto da un commando di killer. È il 21 marzo. L’obiettivo era Mariano Mellone, inseguito e freddato nell’auto dove si era rifugiato.
Rossella Casini, Palmi (RC).
Rossella è una bellissima ragazza fiorentina del quartiere Santa Croce, capelli biondi e occhi azzurri, ha 21 anni e studia Psicologia all’università. Ha le carte in regola per vivere felice, ma sul suo cammino c’è la ’ndrangheta. E per le cosche lei è solo «la straniera» da sacrificare per salvare la faccia. Nel ’77 Rossella conosce Francesco Frisina, un giovane che viene da Palmi, studia Economia a Firenze ed è andato ad abitare nel palazzo ottocentesco dove vive la famiglia Casini. È amore a prima vista. Due mondi diversi che si trovano e si fondono. Anche le famiglie vivono quel fidanzamento come una lieta novella e s’incontrano più volte in Calabria. Già si parla dei fiori d’arancio. Sembra che nulla possa rompere quell’idillio. Ma nel ’78 a Palmi scoppia la faida tra i Gallico e i Parrello-Condello e nessuno può chiamarsi fuori. Il 4 luglio del ’79 ammazzano Domenico Frisina, il padre di Francesco. E nel dicembre successivo tocca al ragazzo, che si becca una pallottola in testa, ma sopravvive. In Toscana non sanno nulla di lupare e onorata società. I Casini sono in preda al terrore, ma Rossella è decisa ad andare fino in fondo e non riescono a fermarla.
Si precipita in Calabria, fa trasferire il suo amato in una clinica fiorentina e presto lo convince a parlare. L’epoca dei pentiti deve ancora venire, e violare la legge dell’omertà è davvero un atto coraggioso. Frisina racconta tutto quello che sa sulla catena di morti della faida. È una bomba e a Palmi le cosche accusano il colpo. È chiaro che anche l’intera famiglia del ragazzo rischia di finire in carcere. È quello che Pino Mazzullo, inviato in missione al nord, dice al cognato Francesco per convincerlo a ritrattare. E ci riesce. Dopo tre giorni li arrestano entrambi. La posizione di Rossella diventa scomodissima: una straniera che fa leva sull’amore per spingere il suo uomo a tradire. Anche lei deve averlo capito e compie un passo indietro. Fa la spola tra Firenze e Palmi, incontra i pm e gli uomini d’onore, cerca di salvare il fidanzato con una maldestra ritrattazione che non convince nessuno. E soprattutto non capisce quello che sta davvero avvenendo. Nel febbraio ’81 è di nuovo a Palmi, a pochi giorni dall’avvio del processo, chiamata dai suoi parenti acquisiti. Le fanno firmare una completa ritrattazione. La mattina del 22 febbraio, una domenica, telefona al padre Loredano e lo avvisa che sta per rientrare. Ma da quel giorno della 25enne Rossella non si hanno più notizie. Ci vorranno 13 lunghi anni per scoprire la verità. A raccontarla è il pentito palermitano Vincenzo Lo Vecchio, ospitato in latitanza dai Frisina a Palmi e impegnato nel loro gruppo di fuoco durante la faida. Dice di aver appreso in carcere che «la straniera» è stata uccisa e fatta a pezzi dai Frisina. Rossella ha pagato anche per il fidanzato, che è stato risparmiato perché è rientrato nei ranghi e ha accettato senza fiatare la sentenza della cosca. Quando nel luglio del ’94 la notizia rimbalza dalla procura di Reggio ai giornali nazionali, per Loredano Casini – la madre di Rossella è morta poco dopo la sua scomparsa, straziata dal dolore, e il padre s’è impegnato per anni nelle ricerche – è l’ennesima tremenda botta. Ha scoperto dalla voce di un giornalista che la tomba di sua figlia è in fondo al mare, nel tratto di costa ammaliante della Tonnara di Palmi. «Ma che Stato è mai questo?», dice in uno sfogo pubblico. E ancora non sa che tutti gli imputati saranno mandati assolti. Coinvolti nelle indagini Domenico Gallico, Pietrò Managò, Francesco Frisina e la sorella Concetta, che è considerata la reggente della ’ndrina. Nelle motivazioni delle sentenze, i giudici che li hanno assolti per insufficienza di prove hanno espresso una netta condanna morale circa il loro coinvolgimento nell’omicidio della ragazza.
Annunziata Pesce, Rosarno (RC).
Trent’anni, figlia di Salvatore e nipote del boss Giuseppe Pesce, ad Annunziata capita la cosa peggiore: tradisce il marito, oltretutto con un carabiniere. È il 20 marzo del 1981 quando il marito ne denuncia la scomparsa. Per anni della donna non si saprà più niente, nessuno deve neanche più pronunciare il suo nome e il suo ricordo viene cancellato con il terrore. Solo il pentito Pino Scriva racconta la sua storia. Le sue parole cadono però nel vuoto. Quando nel 1999 il tribunale di Palmi dichiara la sua morte presunta, nessuno si ricorda più quella vecchia storia. Dovremo aspettare il 2010 perché la testimone di giustizia Giuseppina Pesce riveli cosa era accaduto ad Annunziata, raccontando che a eseguire la sentenza di morte era stato il cugino Nino Pesce alla presenza del fratello della donna, Antonio. Infatti, secondo il codice etico delle ‘ndrine, il disonore deve essere lavato in presenza di un parente della vittima, in genere il fratello maggiore.
Palmina Martinelli, Fasano (BR).
La storia di una ragazza di 14 anni, Palmina Martinelli, bruciata viva con alcol e fiammiferi perché si rifiuta di prostituirsi. Cresciuta in un quartiere povero di Fasano, Palmina è la sesta di 11 figli. L’11 novembre del 1981 viene ritrovata avvolta nelle fiamme nel bagno di casa dal fratello maggiore Antonio. Uno degli aguzzini è un ragazzo di cui Palmina è innamorata, Giovanni Costantini. Il fratellastro di Giovanni, Enrico, aveva già costretto a prostituirsi la sorella di Palmina, Franca. Quando la ragazza capisce che l’intento di Giovanni è di destinarla alla stessa sorte, si ribella e per questo due fratellastri inscenano un finto suicidio.
Palmina muore in ospedale dopo 22 giorni di agonia. Le gravi ustioni riportate non le impediscono però di rivelare i nomi dei suoi carnefici. Cosciente e lucida fino alla fine, Palmina denuncia i suoi assassini, indica la dinamica, il movente e l’ambiente in cui si consuma l’aggressione. Ad ascoltarla il magistrato Nicola Magrone che registra la sua deposizione in un nastro audio, in cui la ragazza conferma il nome dei suoi assassini. Nel suo racconto Palmina parla anche del fatto che i due prima di cospargerla di alcool e darle fuoco, la obbligano a scrivere una lettera di addio alla madre. Questa prova però non è bastata all’accusa per dimostrare la colpevolezza dei due imputati, assolti in primo e secondo grado e, alla fine, anche in Cassazione. Il processo davanti alla Corte d’Assise di Bari, infatti, iniziò il 28 novembre del 1983 e si concluse il 22 dicembre dello stesso anno con l’assoluzione degli imputati principali per insufficienza di prove.
Il tribunale non accoglierà la versione di Palmina, avallando la tesi della difesa, per cui, stanca e depressa, avrebbe deciso di suicidarsi. Questa ipotesi ruotava attorno proprio al ritrovamento della lettera cui fa riferimento anche la ragazza e alla conclusione della quale si leggeva: “Mi sono stufata, addio per sempre”. Ma per l’accusa l’intero contenuto dello scritto è opinabile. Contro la sentenza di primo grado, il Pm propose l’impugnazione. Ma ciò non servì a modificare il verdetto, confermato sia in Appello, nel 1987, che in Cassazione, l’anno successivo: Giovanni Costantini ed Enrico Berardi verranno assolti per insufficienza di prove per la morte di Palmina, ma saranno condannati a 5 anni per sfruttamento della prostituzione. Questo di Palmira è l’ennesimo caso di una morte dimenticata, archiviata, rimossa in fretta non solo dalla giustizia, ma anche dalla comunità. Palmina non è solo una vittima della mafia e della violenza alle donne, ma anche dell’indifferenza e del silenzio di una città che ha dimenticato la sua morte, perché legata ad una storia di degrado, prostituzione e violenza di genere. A distanza di 30 anni il caso, apparso di recente anche nella trasmissione televisiva “Chi l’ha visto?”, è stato riaperto, grazie all’impegno dei suoi fratelli, che non hanno mai creduto alla tesi del suicido sostenuto dalla difesa. In prima linea nella richiesta di giustizia anche l’associazione femminista “8 marzo”, che nel processo Martinelli si è costituita parte civile. E proprio l’avvocata Laura Rennidoli ha spiegato in trasmissione che il famoso biglietto di Palmina Martinelli lasciato alla madre è stato oggetto di ulteriori approfondimenti ed indagini. Secondo la tesi della parte civile, confermata anche da una specifica perizia grafica compiuta sul biglietto, le parole “er sempre” non sarebbero state scritte da Palmina ma da uno degli imputati. La ragazza aveva solo scritto un messaggio di sconforto per come veniva trattata a casa e voleva andar via: “Mi sono stufata, addio p.”
1982
Anna Maria Esposito, San Giorgio a Cremano (NA);
Anna Maria è seduta alla cassa del suo bar quando due giovani con il volto coperto le sparano. Probabilmente Anna Maria aveva visto in volto i killer del pluripregiudicato Vincenzo Vollaro. Per questo il 7 gennaio, due giorni dopo l’omicidio, viene uccisa da due sconosciuti poi fuggiti a bordo di una moto. Muore poco dopo il suo ricovero in ospedale per la gravità delle ferite riportate.
Rosa Visone, Torre Annunziata (NA).
La sedicenne Rosa Visone sta camminando per le strade di Torre Annunziata quando viene colpita a morte da una pallottola vagante. A 100 metri di distanza una pattuglia dei carabinieri sta effettuando un fermo su un’auto con all’interno dei camorristi legati al clan Cutolo, che non esitano a usare le armi. Nella sparatoria rimane ucciso, oltre a Rosa Visone, il maresciallo dei Carabinieri Luigi Alessi.
Simonetta Lamberti, Cava dei Tirreni (SA).
Simonetta è ricordata come la prima di una lunga serie di innocenti caduti per mano della camorra dagli anni 80 in poi. Ha 10 anni e sta rincasando col padre, il magistrato Alfonso Lamberti, dopo aver trascorso una giornata al mare. È il 29 maggio e un killer della camorra la uccise nel tentativo di colpire il padre. Oggi, a quasi trent’anni dalla sua morte, un killer vicino ai Cutolo confessa il delitto. Così, alla luce di queste dichiarazioni l’inchiesta viene riaperta.
Emanuela Setti Carraro, Palermo.
Emanuela muore perché è la moglie del prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa. Alle 21,15 di venerdì 3 settembre una raffica kalashnikov colpisce l’auto sulla quale viaggiano Emanuela e Dalla Chiesa. Emanuela è la prima ad essere colpita. Il sicario, per assicurarsi della loro morte, scende dalla motocicletta e spara per finire il lavoro iniziato. Quest’ultimo particolare contribuisce a smentire la falsa credenza secondo cui, per il codice d’onore, “le donne e i bambini non si toccano”. I loro corpi crivellati dai proiettili vengono rinvenuti abbracciati nel vano tentativo del prefetto di proteggere la moglie.
1983
Annunziata Giacobbe, Taurianova (RC).
Annunziata ha 24 anni quando viene barbaramente uccisa insieme al cugino 18enne, Antonio Giacobbe, è il 2 maggio del 1983. Sono anni di faida nella Piana di Gioia Tauro. I due ragazzi appartengono a una famiglia ‘ndranghetista di Taurianova che gravita sotto l’influenza dei Piromalli di Gioia Tauro, in guerra coi Tripodi. Alleanze, accordi sotto banco, matrimoni di calcolo e tradimenti sono all’ordine del giorno. Non è chiaro il motivo che porta alla morte dei due giovani. Quel che è certo è che sono stati attirati in una trappola. Annunziata ha un appuntamento nel pomeriggio, ma non vuole andarci da sola e affida la sua 127 alla guida del cugino. Quando si fermano in una strada di campagna nella zona Carosello di San Ferdinando sono in tre. La ragazza è seduta dietro. È un agguato. Sono almeno in due sparano diversi colpi di pistola uccidendo Antonio e ferendo Annunziata. È moribonda, ma per sicurezza la sgozzano con un coltello da potatore. Roba da macellai. Del terzo passeggero, di sicuro un complice, non c’è traccia. Il pentito rosarnese Salvatore Marasco ha raccontato (non creduto) che a ordinare l’omicidio è stato il boss Vincenzo Pesce, infastidito dal fatto che Annunziata volesse fidanzarsi a tutti i costi con un ragazzo della famiglia. Come se la decisione potesse mai spettare ad una donna.
Maria Maiolo, Fabrizia (VV).
È una vicenda sconvolgente quella accaduta nel 1983 a Fabrizia, un piccolo paese del vibonese, dove ancora i matrimoni sono affari di famiglia decisi a tavolino e imposti alle donne. A 15 anni Maria è promessa sposa ad un uomo molto più grande di lei. Il padre Antonio faceva il carbonaio, prima di morire stroncato da un tumore. Rimasta vedova e con due figli a carico, la madre decide di sistemare la figlia con un buon partito. Quell’uomo di quasi trent’anni, fratello di uno zio è emigrato a Brescia, fa il muratore e può darle un futuro lontano da quel paese ancora stravolto dall’alluvione. È un matrimonio di convenienza che può risollevare le sorti di quella famiglia. Maria è una bella ragazza, bruna e riccia, alta e piena di vita. Ha voglia di godersi la sua adolescenza e non certo di accasarsi. Ma è difficile resistere alle pressioni della madre. E così Rosina combina l’incontro con il suo futuro genero. Per due volte Giuseppe La Rosa fa visita alla casa di via Montepindo, e per due volte Maria recita la parte della fidanzata. L’ambiente della scuola, le amiche e le compagne dei paesi vicini, il contatto con una dimensione diversa, l’aiutano a trovare la forza di rompere quel legame. Ma sa che non potrà resistere a lungo alla processione dei parenti e all’insistenza della povera madre. Maria ha 17 anni nella primavera dell’83, non ha più scuse da opporre. La convincono a chiedere al giudice l’autorizzazione a sposarsi da minorenne. È tutto pronto, tutto organizzato: il 12 luglio le pubblicazioni e ad agosto il matrimonio. A Maria non rivelano la data per non darle il tempo di reagire. Finita la scuola per lei non c’è più salvezza. Chiusa in casa, libera di uscire solo per andare a fare la spesa e sempre in compagnia di qualche familiare, Maria non trova appigli. Il 10 luglio del 1983 è domenica. C’è una strana atmosfera in casa, agitazione, confusione. Presto è chiaro il motivo: quella sera arriva Giuseppe, il promesso sposo, pronto a recarsi in municipio e in chiesa insieme a Maria per annunciare ufficialmente la notizia della loro unione. È finita, non c’è più possibilità di sfuggire. Un senso di profonda angoscia travolge quella diciassettenne con ancora tutta una vita davanti. Il pensiero del futuro che gli toccherà era insostenibile. Non è già sua quella vita. E allora Maria decide che ha una sola possibilità. Mette i suoi jeans preferiti, quelli attillati ai fianchi e al sedere, e una maglietta blu che risalta le sue forme. Colora le unghie con uno smalto brillante, pettina i ricci mediterranei. È pronta a partire. Nessuno la può fermare. Prova con un coltellaccio da cucina, ma la lama sulle vene dà un dolore che non riesce a sopportare. Pensa al padre Maria, che se ne è andato tre anni prima. Pensa al suo fucile da caccia riposto come un cimelio sulla parete della camera. Quell’arma lunga e fredda è la sua unica speranza di pace. Appoggia le canne al ventre, chiude gli occhi e in un attimo Maria trova la sua libertà. Una tragedia, l’ennesima, vissuta a Fabrizia con morbosa attenzione. Sono in tanti fuori dai cancelli del cimitero, in attesa del responso del medico legale. Maria è morta vergine. Non ci sono retroscena pruriginosi. E così la sua storia finisce presto nel dimenticatoio.
1984
Lucia Cerrato, Anna Maria Brandi, Anna De Simone, Luisella Matarazzo, Maria Luigia Morini, Federica Taglialatela, Susanna Cavalli, Angela Cavalese, Valeria Moratello, Vernio (PO).
È il 23 dicembre, il rapido 903 parte da Napoli, diretto a Milano, pieno di viaggiatori in transito per le feste natalizie. All’altezza della Grande Galleria dell’Appennino, una violenta esplosione uccide 9 donne. Insieme a loro muoiono altre 6 persone. I feriti sono in tutto 267. Le indagini portano a Pippo Calò e Guido Cercola, ai quali, nel 1986, viene imputata formalmente la strage. Emergono poi dei collegamenti tra Calò, mafia, camorra napoletana, gli ambienti del terrorismo eversivo neofascista, la Loggia P2 e la Banda della Magliana. I due vengono condannati in via definitiva all’ergastolo insieme ad altri responsabili della strage, nonostante la 1° Sezione della Corte di Cassazione, presieduta dal discusso giudice Carnevale, avesse annullato l’Appello. Pippo Calò passerà alla storia come il cassiere di Cosa Nostra.
Maria Antonietta Flora, Lagonegro (PZ).
La sera del 10 novembre 1984 Maria Antonietta, insegnante elementare, sposata e madre di tre figli, esce di casa a Lagonegro e sparisce nel nulla: la sua auto viene ritrovata ferma su una piazzola di sosta dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria. Cosa le sia accaduto e per mano di chi, è tuttora un mistero.
Renata Fonte, Nardò (LE).
Renata è tra le prime donne impegnate in politica nella provincia di Lecce. Quando viene uccisa, il 31 marzo 1984, è assessora alla Cultura e alla Pubblica istruzione del Comune di Nardò per il Pri, il Partito repubblicano italiano. Ha 33 anni e due figlie piccole. È una donna scomoda Renata. Si batte contro la speculazione edilizia del Parco naturale di Portoselvaggio. E porta avanti la sua battaglia per la giustizia anche dalla piccola emittente locale Radio Nardò1.I due sicari che la uccidono con tre colpi di pistola sono stati individuati e condannati. Viene condannato anche il mandante: è Antonio Soriano, collega di partito di Renata. Soriano, infatti, ha progettato di costruire un villaggio turistico proprio nel Parco di Portoselvaggio e l’elezione di Renata interferisce con i suoi piani.
1985
Barbara Rizzo Asta, Erice (TP).
Il 2 aprile Barbara, come ogni mattina, accompagna a scuola i suoi figli, i gemelli Salvatore e Giuseppe. Quella mattina la figlia maggiore, Margherita, capisce che i suoi fratelli non hanno nessuna intenzione di vestirsi e, visto che non vuole far tardi a scuola, si fa dare un passaggio dalla vicina di casa. Alle 8,35 Barbara e i due bambini sono a bordo dell’auto e attraversano la statale di Pizzolungo. La stessa mattina il sostituto procuratore Carlo Palermo – il magistrato delle indagini sulle connessioni nei traffici di armi e di droga tra mafia, criminalità internazionale e la politica – sta andando al Palazzo di Giustizia di Trapani. Ma proprio mentre la blindata del procuratore, nella strada che costeggia il mare, supera l’auto di Barbara, esplode una carica di tritolo. È subito chiaro che si tratta di un attentato al giudice. Il fato ha voluto che a morire fossero Barbara (34 anni), Giuseppe e Salvatore (6 anni). Il procuratore Carlo Palermo e la sua scorta rimangono feriti. L’auto della donna ha fatto da scudo.
Il boato è sentito a chilometri di distanza. La scena che si presenta agli occhi dei primi soccorritori è drammatica, i corpi dilaniati erano ridotti in brandelli. Tra i primi ad arrivare sul posto anche il marito di Barbara, Nunzio Asta, che non immagina nemmeno che la moglie e i figli possano essere rimasti coinvolti nell’esplosione. La macchina di Barbara non è riconoscibile. Nunzio ritorna a lavoro e poco dopo riceve una telefonata dalla polizia che gli chiede il numero di targa dell’auto. Nel frattempo la sua segretaria ha verificato, i due gemelli non sono mai giunti a scuola. Per la strage sono condannati, come esecutori materiali, in primo e secondo grado, Gioacchino Calabrò, Vincenzo Milazzo e Filippo Melodia. La sentenza è stata poi cassata nel 1991: gli imputati non hanno commesso il fatto. Nel 2004 sono stati condannati, quali mandanti della strage, Balduccio Di Maggio, Vincenzo Virga e Totò Riina.
Nel luogo della strage è stato posto un monumento con la scritta: «Rassegnati alla morte non all’ingiustizia le vittime del 2-4-1985 attendono il riscatto dei siciliani dal servaggio della mafia. Barbara, Giuseppe e Salvatore Asta»
Ai piccoli Salvatore e Giuseppe viene intitolato l’Istituto polivalente della città di Erice, in provincia di Trapani.
Giuditta Milella, Palermo (TP).
Biagio Siciliano, 14 anni, e Giuditta Milella, che di anni ne ha 17, sono alla fermata dell’autobus dopo l’uscita da scuola. L’auto dei carabinieri che scorta il giudice Borsellino, per evitare un’auto che le taglia la strada, investe il gruppo di studenti. Biagio e Giuditta restano uccisi. Paolo Borsellino commenta così: «La mafia dovrà essere chiamata a rispondere del sacrificio di queste vittime innocenti».
Graziella Campagna, Forte Campone (ME).
Graziella Campagna è una ragazza di 17 anni che lavora come stiratrice in una lavanderia di Villafranca Tirrena, a pochi chilometri dal suo paese. Il 12 dicembre del 1985 per Graziella è una sera come tutte le altre. È alla fermata dell’autobus che l’avrebbe riportata a casa dopo una lunga giornata di lavoro, quando viene rapita e portata a Forte Campone, lontana dalle luci del paese. Qui viene giustiziata con cinque colpi di fucile a canne mozze. Viene sparata al braccio, con il quale tenta di difendersi, al volto, allo stomaco e alla spalla. Il colpo fatale le viene inferto alla testa quando è già riversa a terra. Tra le mani di Graziella, qualche giorno prima della sua barbara uccisione, è passata una camicia sporca da controllare prima di passare al lavaggio. Da una delle tasche è spuntata un’agendina scottante che le ha rivelato l’identità di due latitanti che da tempo frequentano la lavanderia sotto falso nome. Si tratta di Gerlando Alberti jr e del cugino Giovanni Sutera. Bisognerà aspettare il 2004 perché sia Alberti che Sutera vengano condannati all’ergastolo. La sentenza viene confermata nel 2008 dai giudici della Corte d’Appello. Il 18 marzo 2009 la Cassazione respinse il ricorso degli imputati e conferma i due ergastoli.
Annunziata Ferraro, Mammola (RC).
Non vogliono lasciare testimoni i killer che hanno ammazzato a colpi di fucile a canne mozze Annunziata. Così il 1° maggio 1985 a Mammola si compie una vera e propria strage. E nell’attentato in cui cade il pregiudicato Salvatore Ferraro vengono uccisi anche il contadino Pasquale Sorbara e la giovane Annunziata Ferraro, di solo 16 anni. Secondo gli inquirenti, dietro la strage c’è la famiglia Sorbara, che ha subito in precedenza un rapimento, per cui era stata arrestata Rosa Mercuri, cognata dello stesso Salvatore Ferraro.
1986
Nunziata Spina, Messina.
La sala d’attesa dell’istituto ortopedico Ganzirri di Messina è la scena dell’omicidio di Nunziata Spina, 35enne originaria della provincia di Catania. Nella saletta vicino a lei ci sono un ragazzino di 13 anni e un 21enne, ricoverato anche lui, Pietro Bonsignore, un pregiudicato. Stanno chiacchierando, come spesso si fa tra pazienti. Nunziata non può immaginare che l’uomo seduto vicino a lei è imputato nel maxi processo e che sulla sua testa pende una sentenza di morte. All’improvviso due uomini fanno irruzione e iniziano a sparare. Nunziata prova a nascondersi. Inutilmente. Un colpo vagante la prende alla testa. Gli assassini completano il loro piano di morte sparando il colpo di grazia a Bonsignore.
Domenica De Girolamo, Platì (RC).
L’ex direttrice dell’Ufficio postale di Platì Domenica De Girolamo, 60 anni, e suo marito Francesco Prestia, 62 anni, ex sindaco comunista di Platì, sono all’interno della loro rivendita di tabacchi del paese quando un gruppo di quattro persone incappucciate fa irruzione sparando. Francesco muore subito sotto i colpi di pistola e di fucile caricato a pallettoni. Domenica muore poco dopo all’ospedale di Locri, dov’è stata trasportata. Forse sono morti per vendetta, forse una rapina finita male. È l’11 febbraio.
Luciana Arcuri, Palmi (RC).
È il 25 febbraio quando Luciana Arcuri, 22 anni, e Ferdinando Fagà, 33 anni, vengono uccisi. I killer li sorprendono in auto mentre sono in un luogo isolato e li uccidono con una pioggia di colpi di pistola e fucile scaricati contro la macchina dell’uomo a brevissima distanza. Il loro è un amore impossibile perché lui è sposato e ha due figli, ma soprattutto perché lei è la moglie di uno ‘ndranghetista, finito in cella per aver cercato di eliminare un rivale, l’ennesimo atto della faida tra i Gallico e i Condello di Palmi. I due amanti si erano appartati sulla spiaggia, ma stavolta le precauzioni prese prima di incontrarsi non bastano per salvarsi dalla furia delle cosche.
Fortunata Pezzimenti, Bruzzano Zeffirio (RC).
Motticella è una piccola frazione del comune di Bruzzano Zeffirio, ai piedi dell’Aspromonte. Un buco nero che ha inghiottito decine di persone nella terribile faida tra i Mollica e i Morabito-Palamara.La mattina del 3 maggio, Pietro e Fortunata Pezzimenti scalano in auto la stradina che dal paese porta a Motticella. La Fiat 500 scura arranca, è carica di tegole che serviranno per ristrutturare la casa di famiglia, e Pietro ingrana la prima marcia. I due ragazzi studiano medicina all’università di Messina, hanno 26 e 24 anni e di certo non si aspettano di cadere in un agguato mentre proseguono a rallentatore tra i tornanti dell’entroterra ionico, circondati dai castagni e dai rovi. Non hanno scampo. Gli sparano con un fucile caricato a pallettoni e una pistola. Fortunata muore subito, colpita alla testa. Pietro ha il tempo di scendere dall’auto e tentare una fuga inutile. Un colpo al capo non lo risparmia. Li trova poco dopo una pattuglia dei carabinieri. Una fine misteriosa: i Pezzimenti non sembrano avere legami con la ‘ndangheta, e sono comunque una famiglia onesta. I cronisti descrivono scene di strazio e di dolore. La madre è stesa sul corpo dei figli, li bacia in lacrime. Poco dopo arriva la sorella, Caterina. Il nero dei suoi abiti è rivelatore. Porta il lutto per la morte del marito, Gabriele Spadaro, ucciso a colpi di pistola nella sua macelleria. Un legame che trascina l’intera famiglia nella faida. Pietro e Fortunata avevano scelto di studiare, volevano un’altra vita, ma restano vittime di una violenza trasversale.
1987
Francesca Familiari, Reggio Calabria.
Quello di Francesca è un classico omicidio d’onore: una donna ribelle, il nome della famiglia “macchiato”, un fratello vendicatore. Francesca ha 24 anni e da tempo vive lontano da casa. La sua è una famiglia travolta dalla violenza ‘ndranghetista: sei anni prima le hanno ucciso il padre, poi è toccato a un fratello, mentre l’altro fratello è in cella. Quella di Francesca è stata una vita avventurosa, drammatica, alla ricerca di un equilibrio che le restituisse la pace. Giovanissima si è innamorata di un marocchino, poi di un agente di custodia, quindi di un rom di Gioia Tauro, Mario Berlingieri, di quattro anni più grande di lei. È una storia importante, una scelta di vita che l’allontana per sempre dalla sua famiglia. Francesca mette al mondo due figlie, Santina e Antonella, ma i guai la portano lontano dalla Calabria. Ha dei precedenti per furto e un foglio di via che le impone di lasciare la sua terra. Decide di trasferirsi in Lombardia e di lasciare le figlie alla custodia di un istituto religioso di Reggio Calabria. Non è una vita facile quella di Francesca, costretta anche a fare la prostituta per andare avanti.Nell’aprile dell’87 il rientro in città per far visita alle piccole che non la vedono da mesi. Lei e il compagno sono scesi in auto da Brescia e si sono sistemati in un albergo. La mattina del 21 si alzano con calma. Dopo la colazione escono per rag-giungere le figlie. Sono a bordo dell’Alfaud quando un uomo si avvicina, spara alla ruota della macchina, urla qualcosa e poi esplode due colpi contro Francesca a distanza ravvicinata. Il killer scappa, getta la pistola sotto un’auto e si allontana indisturbato. Berlingieri non conosce l’assassino, ma in meno di 24 ore Stanislao Familiari, ventenne camionista, finisce in cella. Confessa il giovane fratello di Francesca: ha ucciso per vendicare l’onore della famiglia infangato dalla vita dissoluta della sorella.
1988
Lucia Montagna, Melfi (PZ).
Lucia è sola nella sua casa di Melfi la sera del 12 novembre quando tre sorelle, Maria Altomare, Filomena e Rosa Russo bussano alla sua porta per vendicare la morte del fratello Santo Russo. Una vendetta efferata che vede soccombere la 14enne Lucia sotto 11 pugnalate, una della quali le recide la giugulare destra. Il cadavere di Lucia, con ancora due coltelli conficcati in gola, viene ritrovato dalla cognata Fiorida Russo, rientrata dal carcere dove si trova Angelo Montagna, fratello della ragazza ammazzata, arrestato perché colpevole dell’omicidio di Santo Russo. L’omicidio è maturato in contesto di vendette trasversali tra famiglie di zingari. Una modalità che mutua quelle dei clan. Alla fine degli anni 80, a Potenza, si è assistito alla nascita di un’organizzazione criminale denominata “I Basilischi”, che successivamente s’è diffusa nel resto della regione. Inizialmente è una ‘ndrina della ‘ndrangheta calabrese, da cui dipende ed è protetta e aiutata. In seguito acquisisce autonomia organizzativa e operativa, con l’ambizione di diventare la quinta mafia del Sud.
Maria Stella Callà, Locri (RC).
Maria Stella, dipendente del settore amministrativo del carcere di Locri, è a casa con suo figlio Giovanni quando sente bussare alla porta. È il 14 novembre. Sicuramente è qualcuno che conosce perché apre ed esce sul pianerottolo. Dopo solo qualche minuto il figlio sente un colpo di pistola. Maria Stella è stata colpita alla faccia. Viene accusato dell’omicidio un pregiudicato che aveva conosciuto la vittima durante il periodo di detenzione nel carcere di Locri. L’amore non corrisposto lo ha spinto al folle gesto.
1989
Marcella Tassone, Laureana di Borrello (RC).
La faida di Laureana di Borrello è già una faida moderna, una guerra tra le cosche della Piana all’ombra dei Molè di Gioia Tauro e dei Bellocco di Rosarno, nata per la successione al potere. Marcella Tassone ha nove anni, un fratello morto, l’altro in carcere e l’altro uscito di galera e chiuso in uno strano silenzio: tutti buoni motivi per rubarle l’infanzia.
La sera del 22 febbraio sta per rientrare in casa seduta su un sedile troppo grande per lei. Il fratello Alfonso guida la sua Alfetta salendo verso Laureana. Sono in due, appostati dietro un muretto ai lati della strada. L’uomo con la lupara fa centro, colpendo il bersaglio al fianco sinistro, l’auto si ferma sul ciglio della carreggiata e Marcella si ritrova addosso il fratello. C’è sangue dappertutto. I suoi occhioni verdi vedono un volto conosciuto. Sono sette i colpi di pistola che le sparano in faccia. Gli assassini di Marcella non l’hanno fatta franca: mandanti ed esecutori sono stati tutti arrestati e condannati.
Raffaella Chindamo, Laureana di Borrello (RC).
Al sangue si aggiunge sangue. La vendetta assurda nel nome di Marcella Tassone si compie con l’uccisione di un’altra giovane donna, la 24enne Raffaella Chindamo, una ragazza innocente, con problemi mentali. La feriscono nel cortile di casa il 1° marzo. Sparano dall’auto con una pistola a tamburo, colpendola al collo. Morirà il 6 marzo in ospedale.
Roberta Lanzino, Falconara Albanese (CS).
La vita di una donna in Calabria vale poco o nulla. Anche se è quella di una ragazzina di appena 19 anni, che ha fretta di trascorrere un pomeriggio al mare e si avventura con il motorino per una ripida discesa che porta dritta alla costa. Una ragazza carina e intelligente, alle prese con gli studi universitari. Ma questo conta davvero poco per l’uomo che la blocca lungo il sentiero isolato, la trascina con sé, la possiede e poi l’accoltella. Una storia drammatica, intricata, misteriosa e soprattutto ancora insoluta: quella di Roberta Lanzino. Il pomeriggio del 26 luglio 1989 Roberta ha già la testa in vacanza. Avverte i suoi genitori che li precederà in motorino nella villetta al mare di Torremezzo, frazione costiera di Falconara Albanese, quel pomeriggio Roberta decide di prendere una scorciatoia. Non conosce bene la strada e chiede più volte indicazioni. Prima ferma un contadino, poi si affianca a un furgone. Incrocia altre auto e altre persone. Quello che accade dopo è ancora un giallo. L’auto dei Lanzino arriva a Torremezzo ma Roberta non c’è. Dopo alcune perlustrazioni vane, avvertono i carabinieri. Solo al mattino successivo si scopre il cadavere della ragazza, nascosto dietro un cespuglio. La ragazza è seminuda, i suoi jeans sono stati tagliati per strapparli via. Roberta è stata picchiata brutalmente. Ha lottato con tutte le sue forze ma alla fine ha dovuto cedere sopraffatta da uno o più assalitori. Per farla stare zitta le hanno messo in bocca due spalline da donna, che presto l’hanno soffocata. Poi almeno due tagli alla nuca, con un coltello premuto contro il suo corpo mentre la violentano. Infine almeno tre coltellate. Una ferita alla gola le ha reciso la giugulare e ha provocato un’imponente emorragia. La prima fase delle indagini porta a un nulla di fatto: tutte le persone incriminate vengono rilasciate perché gli indizi non sono sufficienti. Inoltre alcuni reperti fondamentali per le indagini vengono trovati in ritardo e mal conservati. Per anni la famiglia Lanzino continua pubblicamente a chiedere giustizia per Roberta, accusando anche la magistratura di colpevoli ritardi, ma bisognerà aspettare il 2007 perché il pentito Franco Pino faccia delle rivelazioni che portano alla riapertura del caso: Franco Sansone viene incriminato per l’omicidio di Roberta. Il processo si apre nel 2009 ma sorgono di nuovo ostacoli, depistaggi e intrighi; alcuni dei reperti, già mal conservati all’epoca, addirittura scompaiono. Il processo è in corso. Da questa vicenda sono nati la Fondazione e il Centro Lanzino, un fronte importante nella lotta contro la violenza sulle donne e nel mantenere viva la memoria di Roberta.
Mirella Silocchi, Stradella di Colecchio (PR).
Sono le 8.30 del mattino del 28 luglio quando Mirella Silocchi viene prelevata nella sua casa di campagna di Stradella di Colecchio, in provincia di Parma, da alcune persone, una delle quali in divisa da finanziere. Il marito Carlo Nicoli, imprenditore del ferro, riceve la prima lettera dei sequestratori dopo quasi un mese: la richiesta di riscatto è di cinque miliardi di lire. Nel novembre dello stesso anno i sequestratori lasciano un orecchio mozzato della donna in un’area di servizio nei pressi di Parma. Dopo poco tempo, arrivano a casa di Nicoli cinque foto in cui la moglie appare incatenata, con gli occhi chiusi, in pessime condizioni e con un fucile puntato alla tempia. Qualche giorno dopo, viene raggiunto un accordo: i banditi accettano due miliardi di lire da consegnare a Torino. Ma in realtà la donna è già morta. L’incontro fallisce perché i rapitori si accorgono che Carlo Nicoli è seguito dagli inquirenti. Dopo una nuova richiesta della prova che Mirella Silocchi è ancora viva i contatti si interrompono per sempre. I resti del cadavere di Mirella vengono trovati in un podere nel viterbese in un sacco di cellophane nascosto in un pozzo. Con il passare del tempo viene scoperta la banda. Sono dei sardi e un gruppo eversivo. Negli anni vengono tutti arrestati: l’ultima cattura in ordine di tempo è quella dell’italo-americana Rose Ann Scrocco, arrestata il 16 gennaio del 2005 ad Amsterdam.
Ida Castellucci, Villagrazia di Carini (PA).
Il 5 agosto 1989 l’agente di polizia Nino Agostino e la moglie Ida Castellucci, incinta di cinque mesi, stanno andando a festeggiare il compleanno della sorella di Nino quando, davanti all’ingresso della villa di famiglia, un commando spara contro la coppia. Muoiono entrambi all’istante sotto gli occhi atterriti dei genitori di lui. Sulla morte di Ida non è ancora stata fatta giustizia. Sul fascicolo delle indagini è stato apposto il segreto di Stato.
Carmela Pannone, Agropoli (SA).
Carmela è una bambina di 5 anni. Si trova ad Agropoli, in vacanza con gli zii. Il 25 agosto si trova in auto con i tre cuginetti e lo zio Giuseppe Pannone, 32enne pregiudicato di Afragola. Tre malviventi a bordo di una Renault 19 si avvicinano alla vettura e sparano con una calibro 9, incuranti della presenza dei bambini. Carmela muore subito dopo il ricovero in ospedale per la gravità delle ferite riportate, due cuginetti rimangono feriti. Giuseppe muore sul colpo.
Grazia Scimé, Gela (PA).
Il 12 settembre l’affollatissima piazza Salandra di Gela diventa teatro di una sparatoria e si sfiora la strage. Due killer a bordo di una Vespa fanno fuoco sulla folla. Rimangono ferite cinque persone, tra cui il pregiudicato Giuseppe Nicastro, vero bersaglio dell’agguato. La 56enne innocente Grazia Scimè, intenta a fare la spesa, è l’unica a perdere la vita.
Annamaria Cambria, Milazzo (ME).
L’8 novembre 1989, la studentessa viene uccisa da un proiettile vagante nell’agguato – avvenuto davanti a un bar – in cui viene ucciso il pregiudicato Francesco Alioto.
Leonarda Costantino, Lucia Costantino, Vincenza Marino Mannoia, Bagheria (PA).
La prima strage di donne nelle guerre di mafia. A cadere sono donne del clan Marino Mannoia. Viene uccisa Leonarda Costantino, 62 anni, moglie del boss Francesco Marino Mannoia. Insieme a lei cadono anche la figlia di Leonarda, la 24enne Vincenza, e la sorella Lucia, di 50 anni. Francesco Maria Mannoia è uno dei boss emergenti della Sicilia orientale, legato ai corleonesi di Totò Riina e specializzato nella trasformazione della morfina in eroina. Il triplice omicidio avviene il 24 novembre 1989 in via De Spunches a Bagheria, davanti l’abitazione dei Marino Mannoia. Parcheggiata all’angolo di una stradina poco illuminata c’è la Citroen AX dentro la quale ci sono le tre donne e probabilmente un uomo del quale non si conosce l’identità. I killer si avvicinano all’auto e sparano all’impazzata. La carrozzeria dell’auto è ridotta in pezzi. Le donne muoiono all’istante. Inizialmente gli investigatori considerano l’uomo il probabile bersaglio. Ipotesi però scartata dopo un’analisi più attenta della dinamica: tutti quei pallettoni di lupara scaricati sull’automobile, esplosi a distanza ravvicinata, indicano che i killer volevano uccidere proprio le tre donne.
Nicoletta Biscozzi, Brindisi.
Nicolina è una vittima innocente della faida all’interno della Sacra Corona Unita, dovuta alla rottura tra il capoclan Giuseppe Rogoli e il suo ex braccio destro Antonio Antonica. Nicolina ha 33 anni ed è la compagna di Vincenzo Carone, 37 anni, uomo considerato vicino ai clan. È il 22 giugno e i due sono in auto insieme, quando un gruppo di malviventi li affianca e spara. La giovane donna muore dopo un mese di agonia in ospedale.
Ornella Greco, Copertino (LE).
Ornella ha 24 anni quando viene ritrovata morta nell’auto del fidanzato parcheggiata nei pressi dell’ospedale di Copertino. Le hanno sparato in testa con un fucile a pallettoni nella notte tra il 25 e il 26 novembre Dalle indagini risulterebbe che in auto con lei ci fosse il fidanzato Giuseppe Martina, 29 anni, con precedenti per un tentativo di omicidio. Secondo una ricostruzione degli investigatori Martina, scampato all’agguato, porta Ornella in ospedale e, resosi conto della morte della ragazza, abbandona l’auto fuggendo via. L’omicidio sarebbe maturato all’interno dell’ambiente legato allo spaccio di droga.
1990
Rosaria Genovese, San Lucido (CS);
Rosaria Genovese, 49 anni, scompare il 5 aprile dalla sua casa di Paola, in provincia di Cosenza. Prima di uscire riceve una telefonata. L’ultimo a vederla viva è uno dei suoi cinque figli, lo stesso che dopo alcune ore denuncia la scomparsa.
Il suo cadavere viene rinvenuto dopo 14 giorni in una chiusa in località “Cavani” di Falconara Albanese. Il corpo, in parte immerso nell’acqua, ha comunque consentito di rilevare tracce di strangolamento e un vasto ematoma sulla fronte. Rosaria Genovese sarebbe colpevole di avere rivelato a una sua cara amica alcuni dettagli dell’omicidio di Roberta Lanzino appresi da uno dei responsabili a cui era legata sentimentalmente, Francesco Sansone.
Antonella Oronza Maggio, Anna Forcignano, Squinzano (LE);
Antonella e Anna sono due giovani cugine pugliesi di 30 e 24 anni. Antonella è la convivente di Valerio Marucci, un pregiudicato affiliato alla sacra corona, di cui si sono perse le tracce nei primi mesi del 1990. In seguito alla scomparsa del suo compagno, la donna inizia a indagare autonomamente. Forse perché Antontella scopre qualcosa che non deve, forse perché le due ragazze sanno troppo, scompaiono entrambe a pochi mesi dalla scomparsa dello stesso Marucci.I loro corpi vengono ritrovati solo tre anni dopo, sepolti sotto un metro di terra in un vigneto. Il pentito Piero Manca si è dichiarato responsabile del duplice omicidio
Raffaella Scordo, Ardore Marina (RC).
Siamo nell’estate del 1990. La Calabria è il centro nevralgico dei sequestri di persona. Raffaella Scordo, professoressa 39enne, la sera dell’aggressione, avvenuta il 12 luglio, sta rincasando assieme al marito, Franco Polito e ai due figli, Maria Antonietta di 16 anni e Antonio di 10. Ad aspettarli davanti casa tre malviventi, probabilmente per tentare un sequestro di persona: uno si scaglia contro Raffaella, gli altri puntano le armi contro i suoi familiari. Raffaella tenta di reagire e il malvivente spazientito la colpisce con violenza alla testa e al collo con un oggetto simile a un martello. Il sequestro fallisce e i banditi abbandonano la scena. Subito la corsa all’ospedale di Locri e il trasferimento al Riuniti di Reggio Calabria. Le condizioni sono disperate: la professoressa muore dopo 18 giorni di agonia.
Maria Marcella, Elisabetta Gagliardi, Palermiti (CZ).
Il 7 settembre Mario Gagliardi, pluripregiudicato che si occupa di movimento terra, sta discutendo con l’imprenditore Domenico Catalano. Due sicari in moto, con il volto coperto da caschi, fanno fuoco sui due uomini ferendoli entrambi. Il primo si reca al Pronto soccorso per essere curato, Gagliardi invece decide di recarsi a casa pensando di riuscire a medicarsi da solo. Ma a casa non ci sono né la moglie né la figlia. Nel frattempo una pattuglia dei carabinieri, per saperne di più sul ferimento, va nella casa di campagna della famiglia Gagliardi. È qui che viene fatta la tragica scoperta: il corpicino di Elisabetta Gagliardi, di soli 9 anni, è disteso a terra, ormai senza vita, colpita alla nuca da due colpi sparati a bruciapelo. Pochi metri più in la giace il corpo della mamma, Maria Marcella, 47 anni. I killer si sono accaniti contro la donna scaricandole addosso mezzo caricatore di pistola. A cercare di dare un nome e un volto agli assassini ci provano in tanti ma questa è destinata a rimanere una strage senza nomi e senza perché.
Rosalba Codispoti, Locri (RC).
A 11 anni è difficile fare i conti con un fallimento familiare. I genitori si separano e continuano a litigare a colpi di carte bollate. E nella vicenda si inseriscono anche i parenti, da una parte e dall’altra. Tensioni fisiologiche, normali per le persone adulte. Ma Rocco Pizzinga è ancora troppo piccolo e la situazione che è costretto a subire per cinque anni lo mette a dura prova. Vede la madre disperata, il negozio di elettrodomestici di famiglia finito in malora, la crisi che obbliga a ristrettezze e sacrifici. La madre torna a vivere con i genitori e lui la segue. Cova un odio profondo Rocco. Nella sua testa sono i parenti del padre i responsabili dell’allontanamento dei suoi genitori e delle successive amarezze. Quello che prova Rocco non lo dà a vedere. Nessuno immagina che da un momento all’altro vestirà i panni del vendicatore, per riparare all’onore infranto. Spesso il ragazzo, ormai 16enne, aiuta lo zio Domenico Pizzinga nel negozio di elettronica che gestisce a Locri. E proprio qualche giorno prima della strage è a cena in pizzeria con gli odiati zii e i cuginetti.È l’11 dicembre, la zia Rosalba Codispoti, di 26 anni, riposa tranquillamente accanto alla figlioletta Vittoria, di appena tre anni. Rosalba ha cantato la ninnananna alla bambina per addormentarla e si è appisolata anche lei. Non vede e non sente nulla. Le due fucilate a distanza ravvicinata irrompono nei suoi sogni. Ha confessato subito Rocco: i miei zii hanno messo contro i miei genitori e io li ho puniti.
1991
Giuseppina Cozzumbro, Bronte (CT).
Giuseppa è titolare di un bar, a Bronte. Fa il suo lavoro onestamente, si rifiuta di pagare il pizzo. È per questo, probabilmente, che viene uccisa il 16 dicembre. In primo grado, grazie anche alla testimonianza della figlia di Giuseppa, presente al momento dell’omicidio, viene condannato Pietro Longhitano e assolto lo zio Nunziato Sanfilippo. In Appello, vengono prosciolti entrambi: la ragazza ha ritirato le accuse.
Valentina Guarino, Taranto.
Valentina è la vittima più piccola della faida di Taranto che dal 1990 ha visto morire almeno 40 persone. Ha appena sei mesi Valentina, si trova tra le braccia della madre, seduta accanto al posto di guida di una Lancia Prisma. Al volante c’è Cosimo Guarino, il padre di Valentina, cognato di Gianfranco Modeo, boss di primo piano nella faida nel quartiere Tamburi di Taranto. È lui l’obiettivo dell’agguato quel 9 gennaio. L’auto di Guarino viene affiancata dai killer che esplodono una serie di colpi di pistola centrando in pieno il bersaglio e non risparmiando la piccola Valentina. Illesa la madre. Come succede spesso, nessuno ha visto nulla.
Angelica Pirtoli, Paola Rizzello, Casarano LE)
Paola Rizzello, 27 anni, e sua figlia Angelica, 2 anni, scompaiono il 20 marzo. Paola ha chiuso da poco una relazione con il capozona Luigi Giannelli, già sposato con Anna De Matteis, e ne ha iniziata un’altra con un uomo del suo paese, Luigi Calzolari. Giannelli non accetta questa scelta e Calzolari paga con la vita il suo rapporto con Paola. Paola inizia a fare domande in giro sull’omicidio di Calzolari per incastrare Giannelli, finito intanto in carcere per altre vicende. Sono proprio le sue indagini a decretare la sua condanna a morte: l’ex amante non l’ha mai perdonata e sua moglie Anna De Matteis non ha mai accettato il tradimento. L’atroce compito viene affidato a Donato Mercuri, che fa salire Paola e sua figlia in auto senza difficoltà in virtù di una precedente relazione con la ragazza. E mette a segno il piano di morte. Ci vogliono sei anni per ritrovare il corpo senza vita di Paola e ben nove per quello di Angelica. Paola è stata strangolata e gettata in un pozzo, mentre il corpo della piccola Angelica è stato rinvenuto sotto un pino, poco distante dal luogo del ritrovamento del cadavere della mamma, avvolto in un sacco di juta.
Salvatora Tieni, Torre Santa Susanna (BR).
Salvatora Tieni è la madre di Romolo e Cosima Guerriero. Nel corso di una faida per alcuni possedimenti agricoli a Torre Santa Susanna tra i Bruno e i Persano, Romolo, autista di Cosimo Persano, scompare, vittima di lupara bianca. Salvatora e Nicola, suo marito, decidono di testimoniare contro i fratelli Bruno, ritenendoli responsabili della morte del figlio. Scompaiono anche loro l’11 agosto. I loro corpi non sono mai stati trovati. Cosima, loro figlia, diventa testimone di giustizia, entrando nella protezione testimoni. È grazie a lei se sono stati condannati gli assassini dei suoi genitori. Solo nel 1990 nel Comune di Torre Santa Susanna nove persone erano scomparse, vittime di lupara bianca.
Giovanna Sandra Stranieri, Taranto.
Giovanna Sandra Stranieri, 20 anni, sta passeggiando con un’amica. È il 29 dicembre quando la sua giovane vita viene stroncata da una pallottola vagante. Viene colpita alla gola. Vero bersaglio della sparatoria è Umberto Galiano, pregiudicato. Il responsabile dell’omicidio è Carmelo Fuggetti.
Luigina De Luca Cosenza.
Luigina viene uccisa il 6 maggio col figlio Antonio De Luca in un appartamento di piazza Zumbini. I corpi, trucidati a colpi di pistola, sono stati sfigurati a colpi di bastone. I due cadaveri eccellenti sono la suocera e il cognato di Franco Garofalo, boss emergente, che si vendicherà con quattro omicidi prima di pentirsi.
Anna Maria Cozza, Cosenza.
Neanche le mogli separate sfuggono alla vendetta. Anna Maria Cozza, 23 anni, ha deciso ormai da tempo che la sua vita al fianco di Francesco Chirillo è finita. Quel nome fa tremare le vene ai polsi a tanti. Ma lei non ha paura. Anche se il suo nuovo compagno, l’operaio 30enne Gianfranco Fucci, gliel’hanno ammazzato l’anno prima, il 2 maggio del ’90 a Dipignano. Un agguato in piena regola, con una fucilata contro la sua auto in corsa e dopo il colpo di grazia alla nuca. Sotto la pedaliera dell’auto trovano anche dieci dosi di eroina, avvolte in una carta stagnola. Si scoprirà che Fucci con la droga non c’entrava nulla. Anna Maria ha deciso di indagare sulla sua morte e su quel depistaggio. Davanti ai carabinieri accusa la famiglia del marito. Ma ci vogliono le prove, e lei cerca di procurarsele affrontando i suoi nemici con addosso un registratore. Non ottiene nulla, se non di finire inghiottita dalla lupara bianca, nel novembre del ’91.
Francesca Morvillo, Capaci (PA).
Quella della strage di Capaci, il 23 maggio del 1992, è una data che scuote l’Italia. Sono le 18 e sull’autostrada A29 Palermo-Trapani ci sono cinque quintali di tritolo che aspettano il giudice Giovanni Falcone e la sua scorta. In macchina con loro anche la moglie del magistrato, la 46enne Francesca Morvillo, magistrata anche lei.
Emanuela Loi, Palermo.
Emanuela Loi è una degli agenti di scorta del procuratore aggiunto di Palermo Paolo Borsellino. Ha solo 25 anni quando il 19 Luglio 1992 muore nella strage di via D’Amelio. Un’auto carica di tritolo aspetta il giudice e la sua scorta sotto la casa della madre a cui Borsellino va a fare visita. Gli altri agenti della scorta uccisi sono: Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina e Vincenzo Li Muli.
Rita Atria, Roma.
Rita è la figlia di Vito Atria, piccolo boss di Partanna ucciso da Cosa Nostra nel novembre dell’85 quando lei ha solo 11 anni. Alla morte del padre il rapporto con il fratello Nicola e con la cognata Piera Aiello diventa molto intenso, fatto di complicità, confidenze e di amicizia tanto che Rita, a soli 17 anni, diventa la custode di segreti legati alla criminalità organizzata: Nicola le racconta delle persone coinvolte nell’omicidio del padre, del movente, di quali sono gli equilibri in paese. Siamo negli anni della guerra di mafia che decretano l’ascesa dei corleonesi. A giugno Nicola viene ucciso. Piera, sua moglie, decide di collaborare con la giustizia e Rita ne segue l’esempio, sperando così di riuscire a incastrare gli assassini del padre e del fratello. È Paolo Borsellino a raccogliere le sue rivelazioni, e al giudice lei si lega come a un padre. La mamma di Rita le aveva più volte consigliato di rimanerne fuori, di farsi gli affari suoi, di non parlare. Ma Rita è forte, ha Borsellino accanto, e parla, racconta fatti, fa nomi, indica persone. Il 19 luglio Paolo Borsellino muore nella strage di via D’Amelio. Rita non regge il colpo, è sola e ripudiata dalla famiglia, e una settimana dopo, il 26 luglio, si getta dal settimo piano del palazzo dove vive sotto protezione a Roma. “Fimmina lingua longa e amica degli sbirri”, disse qualcuno parlando di lei. Al suo funerale non va nessuno, nemmeno sua madre, che non perdona a Rita e a sua cognata Piera di aver “tradito” l’onore della famiglia. Si reca al cimitero solo tempo dopo e solo per oltraggiare la memoria della figlia rompendo la lapide e strappando la foto.
Lucia Precenzano, Lamezia Terme (CZ).
Salvatore Aversa è un poliziotto vecchio stampo. Uno che ha passato la sua lunga carriera a dare la caccia agli ‘ndranghetisti della zona di Lamezia Terme. Il poliziotto esperto, quello che non ha bisogno di consultare archivi e faldoni, che conosce fatti, storie, boss e cosche a menadito. Uno sbirro d’altri tempi, temutissimo dalle cosche. Tanto temuto che hanno deciso di farlo fuori. La sera del 4 gennaio 1992 Salvatore e sua moglie Lucia Precenzano sono appena usciti da un palazzo della centralissima via dei Campioni di Lamezia Terme. Stanno per salire sulla loro Fiat 500 quando due killer professionisti col volto scoperto e i guanti in lattice si avvicinano e sparano. Non c’è scampo per Salvatore e Lucia. E non ci sarà pace dopo la loro morte. Una presunta testimone oculare, la giovane Rosetta Cerminara, falsa il processo e rivolge le accuse contro due giovani poi risultati innocenti. Solo in un secondo momento si scopre che a uccidere Aversa e Precenzano sono state le cosche lametine che per fare il lavoro hanno ingaggiato due killer pugliesi che dopo anni hanno confessato l’omicidio. Nel corso degli anni la tomba dei due coniugi, che si trova nel cimitero di Castrolibero in provincia di Cosenza, è stata profanata più volte.
1993
Angela Fiume, Nadia e Caterina Nencioni, Firenze.
Nella notte tra il 26 e il 27 maggio, una Fiat Fiorino carica di tritolo esplode in via dei Gergofili, a Firenze. È l’ennesima strage firmata Cosa Nostra, che pochi mesi dopo colpirà anche la Capitale e Milano, attuando quella che verrà poi definita la strategia della tensione. L’obiettivo è far indietreggiare lo Stato dalla lotta alla criminalità organizzata e in particolare dall’applicazione del “carcere duro” ai boss mafiosi catturati. In via dei Gergofili perdono la vita Nadia Nencioni, di 9 anni, sua sorella Caterina, di un mese e mezzo, la madre, Angela Fiume di 36 anni, il padre Fabrizio Nencioni di 39 anni e lo studente Dario Capolicchio (22 anni).
1994
Liliana Caruso, Agata Zucchero, Catania.
Liliana Caruso ha 28 anni, suo marito è Riccardo Messina, membro del clan Savasta. Quando l’uomo decide di pentirsi, Liliana non ha dubbi: non lo disconoscerà come tante hanno già fatto in questi casi con i loro compagni, decidendo di rimanergli accanto nel suo percorso di collaboratore. Pagherà con la vita questa scelta. Il 10 luglio viene uccisa nel pieno centro di Catania: due killer le sparano al volto. Altri due criminali uccidono sua madre Agata Zucchero, poco distante da lei. Per gli investigatori non è difficile trovare un movente: per fare desistere Messina, il clan Savasta aveva inviato degli emissari da Liliana con lo scopo di convincerla a fingersi ostaggio della mafia con il resto della sua famiglia, obbligando così l’uomo a ritrattare. Liliana non solo si era rifiuta di assecondarli, ignorando le minacce, ma era andata dai giudici a denunciare. Soltanto due giorni prima di morire, convinta di non dover temere per la sua vita, si era recata in carcere dal marito per metterlo in guardia, temendo per lui. Messina, dopo l’atroce vendetta trasversale, continuerà a collaborare con la giustizia. La procura di Catania trova i mandanti del delitto e ordina un arresto e sette fermi per associazione mafiosa e omicidio.
Angela Costantino, Reggio Calabria.
A soli 25 anni Angela ha già 4 figli. È solo un’adolescente quando ha sposato Pie-tro Lo Giudice, membro di una cosca di spicco della ‘ndrangheta reggina. Poi re-sta incinta, ancora. Questa volta però è di un altro uomo. Cerca di rimediare: va in ospedale, riesce ad abortire. Ma la con-danna dei suoi cognati arriva lo stesso, implacabile. Angela ha macchiato il nome della famiglia dei Lo Giudice, e va punita. Tutte lo devono sapere. E viene “suicida-ta”. Un cognato la strangola, la seppelli-sce sotto terra, la sua automobile viene abbandonata in un viadotto di Villa San Giovanni, per inscenare un suicidio. È il 16 marzo.
Maria Teresa Gallucci, Nicolina Cerrano, Marilena Braccaglia, Genova.
Maria Teresa Gallucci in Alviano ha quarant’anni ed è una bella donna. Ha vissuto una vita difficile, fatta di sacrifici e sofferenze. A 25 anni resta vedova: il marito muratore è volato dal quarto piano di un edificio in costruzione. E Maria Teresa rimane a Rosarno, va avanti da sola crescendo i suoi tre figli. Solo madre premurosa e attenta, non più donna. Almeno fino alla soglia degli anta. I suoi ragazzi ormai sono cresciuti, e lei all’improvviso riscopre l’amore. Inizia una storia con un commerciante del paese, Francesco Arcuri, più giovane di lei di qualche anno. Ufficialmente è una storia segreta, ma presto in paese tutti sanno della relazione. Non si tratta di privacy violata, ma del tribunale della ‘ndrangheta. Francesco Alviano ha 23 anni, senza padre da quando ne ha cinque. È un ragazzo cresciuto in fretta, con la responsabilità di sostituirlo il più presto possibile. Forse la voglia di bruciare le tappe, forse il peso della responsabilità, forse il desiderio di prendersi quello che la vita gli ha negato, forse il fascino del crimine, fatto sta che Francesco coltiva amicizie di “alto rango” e aspira alla carriera ‘ndranghetista. Quella che segue è una storia verosimile, la ricostruzione fatta dagli investigatori per dare un perché ad una strage così terribile, ma si tratta solo di ipotesi bocciate dalla magistratura. Si chiacchiera tanto nei bar di Rosarno, e a Francesco tocca l’accusa più profonda: le risatine, le mezze frasi. Gli hanno messo la pulce nell’orecchio: «Tua madre se la tiene uno del paese, tuo padre si rivolta nella tomba». È un’accusa gravissima, l’indegnità massima per un uomo d’onore. La sera del 4 novembre 1993 Francesco Arcuri viene ferito barbaramente. Nove colpi di pistola, diretti al basso ventre. Coi genitali spappolati e un’emorragia, l’uomo muore dopo un’agonia di undici giorni. C’è tensione in paese, è chiaro che qualcosa deve accadere. Ma il giovane Francesco Alviano non è un malandrino qualunque, da poter fare fuori senza disturbare. È ormai organico alla cosca Pesce. La ‘ndrangheta emette il suo verdetto: chi uccide per onore non può essere punito anche se a morire è uno ‘ndranghetista. Ma la salvezza del vendicatore passa dalla morte della donna infedele, come vuole la legge d’onore. A Francesco, per tener fede al giuramento, tocca uccidere la madre con le proprie mani. Il 18 marzo, a Genova, assolve al suo compito. È lì che Maria Teresa si è rifugiata insieme alla mamma Nicolina Cerrano. La morte del suo amante l’ha terrorizzata. Sa bene cosa l’aspetta al suo paese e ha deciso di cambiare aria. Le donne trovano ricovero presso Concetta Gallucci, sorella e figlia delle due. La mattina del 18 marzo a casa ci sono solo Maria Teresa e la vecchia Nicolina Cerrano insieme alla nipote Marilena Bracaglia che ha 22 anni, studia da architetto e non ne vuole sapere di svegliarsi. Tra le nove e le dieci si compie la strage. Suonano alla porta, Maria Teresa si accosta all’ingresso. Di certo conosce il nuovo venuto, e lo accoglie senza nemmeno indossare la vestaglia. I primi colpi sono per lei. Al capo. Poi tocca alla giovane Marilena, fulminata nel sonno con due pallottole alla testa. Ultimo atto della tragedia l’uccisione della nonna accorsa in soggiorno in pigiama e a piedi nudi, con il cuore che galoppava e già temeva il peggio. Ancora dei colpi alla testa. Una carneficina, un lago di sangue che di lì a poco accoglierà i parenti delle vittime.
Ilaria Alpi, Mogadiscio, Somalia.
Ilaria, 33 anni, è una giornalista e, insieme a Miran Hrovatin, il cameraman che l’accompagna, si trova in Somalia per conto del Tg3 a seguito dell’operazione militare sotto l’egida dell’Onu Restor Hope. “1400 miliardi di lire: dov’è finita questa impressionante quantità di denaro?” – questa la frase trovata nel suo taccuino da cui si capisce che Ilaria sta investigando su traffici illeciti di armi e rifiuti tossici, che intrecciano una parte governativa della cooperazione e alcuni rami dei servizi segreti. Ilaria e Miran vengono uccisi a Mogadiscio il 20 marzo. La commissione d’inchiesta parlamentare istituita nel 2006, presieduta da Carlo Taormina, conclude frettolosamente che Ilaria e Miran sono morti per caso, per un fallito tentativo di rapimento, dopo una settimana “di vacanze”. I suoi genitori, Luciana e Giorgio, non hanno mai smesso di cercare la verità e tenere alta l’attenzione nei confronti di questo mistero che potrebbe rivelarsi uno dei più grandi intrecci tra cattiva politica e ‘ndrangheta nell’ambito della cooperazione internazionale. Nel gennaio del 2011 le indagini sul caso si riaprono e la Commissione riprende il suo lavoro. In nome di Ilaria Alpi esistono premi giornalistici, libri, articoli, intitolazioni di piazze e scuole, spettacoli teatrali. Tutta una letteratura che ancora non individua un conclamato movente e l’individuazione dei mandanti.
Maria Teresa Pugliese, Reggio Calabria.
Maria Teresa Pugliese è la moglie dell’ex sindaco di Locri, Domenico Speziali. Muore a 54 anni, il 26 marzo mentre esce di casa per raggiungere il marito che l’aspetta in macchina. L’omicidio si consuma in pochissimi secondi. Il killer in moto estrae la lupara dalla giacca e fa fuoco due volte. Speziali assiste impotente alla morte della moglie dalla sua automobile, inizialmente convinto che si tratti dell’esplosione di mortaretti. Pensa sua moglie sia svenuta dalla paura e solo quando vede il volto di Maria Teresa insanguinato capisce ciò che è successo. La famiglia Speziali è da tempo vittima di minacce e di attentati da parte del racket delle estorsioni, l’autovettura di Maria Teresa è stata fatta bruciare qualche mese prima. Ma si pensa ancora a degli avvertimenti. Questa ipotesi iniziale salta ben presto: si è trattato di un agguato in piena regola. L’appartamento era illuminato, così come il circondario, il marito l’aspettava fuori, l’abitazione è vicina al tribunale della città costantemente piantonato dai militari. I killer non avrebbero ignorato tutti questi dettagli e se si fosse trattato di un errore e perciò di un avvertimento finito male, i sicari non avrebbero corso tutti questi rischi.
Anna dell’Orme, Secondigliano (NA).
Da anni è in corso una faida tra la famiglia degli Esposito e degli Amura. In questa guerra Anna Dell’Orme, 47 anni, nel 1991, ha perso il figlio 20enne Domenico Amura, ucciso da una sospetta overdose. La donna ha iniziato insieme all’altro figlio Carmine una battaglia per far luce sull’accaduto, indicando nella famiglia Esposito i colpevoli della morte del figlio. Anna porta avanti la sua lotta anche in due programmi televisivi molto seguiti. In seguito a questa esposizione mediatica si moltiplicano le minacce di morte, fino ad arrivare alla doppia esecuzione il 26 marzo. Seppure in due posti diversi, l’orario del duplice agguato è lo stesso: Anna viene uccisa a Secondigliano nel suo supermercato e Carmine a Casavatore nel suo negozio di abbigliamento.
Maria Grazia Cuomo, (NA).
Maria Grazia Cuomo, 56 anni, conduce una vita molto riservata a casa di sua sorella, moglie di Francesco Alfieri, lontano parente del boss pentito Carmine Alfieri. La sera dell’8 aprile, un commando di killer incappucciati, in cerca del figlio dell’ex boss, scaricano i loro kalashnikov al buio di una stanza da letto in un casolare di Nola. Il ragazzo però si trova altrove e a pagare con la vita quello che doveva essere una punizione esemplare è Maria Grazia.
Palma Scamardella, Napoli.
Si muore anche al posto di qualcun altro. Questo è il caso di Palma Scamardella, 35enne, madre di una bimba di 15 mesi, uccisa il 12 dicembre al posto dello zio, suo vicino di casa, sulle scale esterne della propria abitazione. Coperta dai rami di un albero, viene scambiata per lui, Domenico Fusco, detto Mimì uocchie ‘e brillante, membro di rilievo del clan camorristico di Giorgio Lago, contrastato, nella lotta alla supremazia sul territorio di Pianura, dal clan rivale di Giuseppe Contino. Palma viene immediatamente soccorsa, ma muore prima di arrivare in ospedale.
1995
Epifania Cocchiara, Gela (CL)
Era la vigilia di Pasqua quel 15 aprile del 1995 quando Epifania Cocchiara, Fina, 28 anni, madre di un bambino di 5 anni e una bambina di 2, fu uccisa nella macelleria del marito, Raffaele Cafà di 32 anni.
Fina, assieme al marito e ai suoi due figlioletti, finito di fare le pulizie, stava per chiudere il negozio quando sul posto sono piombati due rapinatori armati di pistole semiautomatiche e col volto coperto da calzamaglie.
I malviventi hanno sparato due colpi, uno dei quali ha colpito Fina alla nuca, come reazione, sembra, ad un urlo cacciato dalla donna quando uno dei bambini si è allontanato mentre era in corso la rapina.
Non si è mai saputo chi fossero i rapinatori, la famiglia attende ancora giustizia.
Carmela Minniti, Catania.
È l’1 settembre, Carmela apre la porta ai suoi assassini che al citofono si spacciano per poliziotti e viene uccisa a colpi di pistola. Con lei c’è sua figlia, che viene risparmiata. Carmela non è una donna qualunque, è la moglie del mammasantissima di Catania Nitto Santapaola. A lungo ci si è chiesti il movente del delitto di Carmela: una delle ipotesi era che il boss volesse diventare collaboratore di giustizia. La Procura sostenne, invece, che si è trattato di un avvertimento dei suoi rivali affinché capisse che il suo potere si avviava al declino. Giuseppe Ferone, collaboratore di giustizia, dichiarò invece di aver ucciso Carmela per vendicare la morte di suo figlio e suo padre. Era convinto che Santapaola non avesse fatto niente per evitare l’omicidio dei suoi congiunti. La donna aveva più volte rilasciato, poco prima di morire, dichiarazioni pubbliche a difesa dei suoi figli arrestati per associazione mafiosa.
1996
Mimma Ferrante, Palermo.
Girolama Ferrante, detta “Mimma”, 48 anni, è un’architetta molto conosciuta in città anche per il suo impegno sociale e politico. Appassionata di restauro, si è battuta contro il “sacco edilizio” a favore del recupero del patrimonio artistico e culturale della città, militando nelle file della sinistra extraparlamentare. Appena tornata dal Messico, vuole realizzare il sogno di una vita: aprire un centro sociale e occuparsi di anziani e soggetti problematici. Il 30 agosto Mimma si trova nel cantiere per consegnare gli stipendi agli operai. Si imbatte in due uomini che le chiedono di poter lavorare. Mimma li manda via, ma dopo qualche minuto i due ritornano, estorcendole il denaro (circa 10 milioni di lire destinati agli operai). Mimma cerca di difendersi ma invano. I due rapinatori la uccidono con un colpo di pistola all’addome.
Maria Antonietta Savona, Trapani.
Si può morire a causa della mafia in tanti modi, anche per una banale accidentalità legata alle azioni per combatterla. È il caso di Maria Antonietta, 36 anni, e del suo bambino, Riccardo, di appena un mese. In un incrocio, lungo la circonvallazione che collega Trapani all’autostrada per Palermo, la donna e suo figlio muoiono in un incidente provocato da un’auto di scorta che passa col rosso. L’auto viene centrata in pieno sulla fiancata dove è seduto Riccardo che resta intrappolato nel seggiolino. A bordo della scorta c’è il procuratore di Sciacca. Maria Antonietta lascia il marito Antonino Salerno e altri due bambini.
Santa Puglisi, Catania.
Santa non poteva sfuggire al suo destino. Suo padre è Antonino Puglisi, capo del clan Savasta, arrestato nel 1995 per l’omicidio di Liliana Caruso e Agata Zucchero, moglie e suocera di Riccardo Messina, pentito del suo stesso clan. Suo marito, Matteo Romeo, è stato ucciso da pochi mesi, il 23 Novembre 1995. Il 27 agosto 1996 Santa, come tutti i giorni, sta portando fiori freschi sulla tomba del marito. Quel giorno è in compagnia di due nipoti del capomafia, Salvatore Botta, 14 anni e una ragazzina di 12, la cui identità è tenuta riservata. Il killer solitario non si limita a uccidere Santa e Salvatore, ma sfregia le vittime e di riflesso il boss detenuto. Dalle indagini emerge che l’assassino si è appostato ore prima nel cimitero, nascondendo una pistola in un vaso. Ha colpito prima Santa alle spalle, poi in viso. Quindi si è scagliato contro il ragazzo, prima sparandogli mentre tentava di fuggire, poi prendendolo a calci e dandogli infine il colpo di grazia, sempre al volto. Risparmia però la ragazzina. Quando muore, stretta nel suo vestito nero di vedova, Santa ha 22 anni. Dopo due giorni, il pentito Giuseppe Ferone viene arrestato come mandante del duplice omicidio, accusato da altri membri del suo clan di essere anche uno degli esecutori dell’omicidio di Carmela Minniti, moglie di Santapaola, avvenuto nel 1995, quando Ferone era già collaboratore di giustizia. Viene quindi sospeso dal programma di protezione. Avrebbe agito per vendicare gli omicidi di suo figlio e suo padre, uccisi dai sicari di Antonino Puglisi e Nitto Santapaola.Il 30 agosto Giuseppe Ravalli, nipote di Ferone, viene arrestato come l’esecutore dell’omicidio di Santa e Salvatore. Ravalli, che si pente subito l’arresto, racconta di aver vissuto in istituti di assistenza e convitti e di aver avuto come punto di riferimento solo lo zio.Passano pochi giorni e Ferone ammette tutti gli omicidi, confessando di aver progettato anche quello del figlio di Santapaola, dichiarando di voler riprendere il percorso di collaborazione. La magistratura però non lo riammette nel programma di protezione. Il 24 ottobre viene arrestato anche Orazio Puglisi, fratello di Santa, per possesso di arma da fuoco.L’anno successivo si celebra il processo contro Ferone, durante il quale l’imputato chiede protezione per sua moglie e sua figlia. La Corte d’Assise di Catania lo condanna all’ergastolo insieme ad altre quattro persone, coinvolte in tutti gli omicidi. Vengono comminati 21 anni, invece, a Ravalli per semiinfermità mentale perché plagiato dallo zio. Nel 1999 anche Antonino Puglisi decide di collaborare.
Anna maria Torno, Vinosa (Ta).
Diciottenne di Vinosa, Anna Maria è una bracciante agricola sfruttata nei campi del caporalato pugliese. Il primo marzo del 1996 per recarsi al lavoro sale su un pullmino carico di lavoratrici. Avrebbero dovuto essere solo 9, ma erano 14. Un tamponamento e Anna Maria resta uccisa.
Maria Botta, Casoria (NA).
Il primo febbraio ha luogo l’ennesimo atto di sangue che vede il clan dei Riera opporsi a quello degli Equatore per il controllo territoriale della zona del Vasto, nei pressi della stazione centrale di Napoli. Maria, 26 anni, è la moglie del pregiudicato latitante Rolando Riera. È in macchina insieme a suo suocero Salvatore Riera. Stanno andando proprio da Rolando quando vengono assassinati. Maria è all’ottavo mese di gravidanza. Vano il tentativo di salvare il bambino.
Concetta Matarazzo, Giuliano (NA).
La notte del 12 ottobre, Concetta, casalinga di 37 anni muore in un incidente provocato da una sparatoria tra clan rivali. Lungo la statale Domitiana, un gruppo di malavitosi armato attende una Golf bianca sulla quale viaggiavano Gennaro Caianiello e Raffaele Farri. A seguito della violenta sparatoria, la vettura sbanda schiantandosi contro l’auto con cui Concetta viaggiava assieme a un suo amico. Concetta muore sul colpo mentre il suo amico si salva.
1997
Agata Azzolina, Niscemi.
Il 21 marzo, Niscemi, un paese siciliano da quasi 30 mila abitanti, per un giorno è la capitale dell’antimafia. Sulla piazza piena di persone parlano il presidente del Consiglio Prodi e il presidente della Camera Violante. Si inaugura una scuola elementare, si leggono, dal palco, centinaia di nomi di vittime della mafia. Due giorni dopo, Niscemi è di nuovo sui giornali: la signora Agata Azzolina, titolare di un negozio di gioielli e pellicce, si toglie la vita impiccandosi. Il racket ha ucciso cinque mesi prima il marito Salvatore e il figlio Giacomo Frazzetto, in un raid “mascherato” in un primo momento, come tentativo di rapina. Era il 16 ottobre del 1996.Maurizio e Salvatore Infuso, due fratelli con qualche precedente penale si presentano a volto scoperto nella gioielleria “Papillon”. Cosi si chiama l’attività della famiglia Frazzetto avviata da qualche anno. Salvatore l’ha costruita con le sue mani dopo aver lavorato 15 anni nell’edilizia. Li conosce bene Agata, i fratelli Infuso: già in passato hanno preteso di comprare senza pagare. Questa volta vogliono acquistare, “a credito”, dicono loro, due vere nuziali. L’ipotesi è che si tratti di un pizzo “camuffato”, riscosso in beni e non in contanti. Invece del passaggio da una mano all’altra dei soldi, gli emissari della criminalità organizzata si servono direttamente dagli scaffali.
Quella sera, Agata dice no. La colpiscono con uno schiaffo. Alle sue grida accorrono il marito ed il figlio. Il ragazzo, quando si rende conto della situazione non perde tempo: prende la pistola che il padre custodisce in un cassetto. Ma Giacomo non ha dimestichezza con le armi e se la fa strappare da uno dei banditi. Seguono una raffica di pallottole, prima contro Salvatore Frazzetto, 46 anni, poi sul ragazzo, Giacomo 23. Muoiono sul colpo. Muoiono davanti agli occhi atterriti di Agata, madre e moglie, testimone di una strage. I due assassini vengono fermati cinque ore dopo: in una borsa hanno ancora la pistola. Lei si salva a stento, ma da quel giorno comincia a spegnersi. Il dolore si trasforma in rabbia e poi arriva anche la paura. Paura per le aggressioni e le minacce che subisce quotidianamente. Un giorno la seguono fino al cimitero. Sta pregando sulla tomba dei suoi cari quando qualcuno si avvicina:“Non finisce qui”, si sente dire. Agata prova ad andare avanti, lo fa per la figlia, Chiara, 21 anni. Vuole portare avanti l’attività, non vuole cedere. Ma le intimidazioni continuano: “Devi pagare…devi pagare…”, si sente ripetere. Denuncia tutto alla polizia. Fa nomi e cognomi. Al commissario parla anche di certi traffici di oro, di uomini che si muovono nell’ombra. Vuole giustizia e la vuole subito. Vuole provare a far vivere a sua figlia una vita normale. Vuole andare avanti, lo deve a Chiara, ma è sconvolta e terrorizzata. La sera di San Silvestro viene addirittura picchiata da un paio di ragazzi che entrano ancora una volta nella sua gioieleria. Qualche giorno dopo, a Gennaio, le giurano che avrebbe ricevuto un’altra “visita”. Arriva anche una lettera anonima. Minacciano di uccidere anche la figlia. Non ce la fa più Agata. Vittima del suo dolore, la notte del 22 marzo 1997 si impicca con una corda di nylon nella sua cucina. Lascia un biglietto alla figlia: “Perdonami“, le scrive.
Annunziata Marrabella, Bovalino (RC).
Annunziata Marrabella, 35 anni, è originaria dello Stato del New Jersey. Moglie del boss Domenico Grasso, in carcere dal 1989 a causa del sequestro di Lorenzo Crosetto, viene assassinata il 5 agosto perché probabilmente ha una relazione extraconiugale. L’omicidio si è consumato in presenza del figlio Paolo, di 16 anni, che invano cerca di proteggere la madre.
Angela Bonarrigo, Oppido Mamertina (RC).
Angela Bonarrigo, 54 anni, perde la vita l’11 agosto durante un agguato a Oppido Mamertina. Lì, dal 1992, è in corso una faida che vede in guerra alcune famiglie per il controllo del territorio. Insieme ad Angela, muoiono anche suo figlio Antonio Gugliotta, vero bersaglio dell’agguato, e un loro conoscente.
Raffaella Lupoli, Taranto.
Il bersaglio è Antonio Lupoli, ma per errore viene uccisa sua figlia, una bambina di appena 10 anni. Raffaella e suo padre, tossicodipendente con piccoli precedenti per droga, sono in auto quando vengono raggiunti da 5 colpi di pistola sparati da due uomini a bordo di una moto. Tre colpi uccidono Raffaella mentre Antonio sopravvive. Il movente, secondo gli inquirenti, sarebbe passionale. L’assassino, Francesco Pulpo, secondo quanto egli stesso ha raccontato alla polizia, avrebbe ucciso per ordine di Rodolfo Caforio, 26 anni, pregiudicato per spaccio di droga e traffico d’armi e sorvegliato speciale. Caforio, appena uscito di galera, ha voluto vendicare la relazione tra sua moglie e Antonio Lupoli.
Silvia Ruotolo, Napoli.
Quartiere del Vomero, 11 giugno 1997. Una donna rientra a casa dopo essere andata a prendere a scuola suo figlio Francesco. Ha 39 anni. Viene uccisa da un clan di camorristi che ha come obiettivo Salvatore Raimondi, affiliato al clan Cimmino, avversario del clan Alfieri. Sparano quaranta proiettili. A guardare la scena dal balcone c’è la figlia Alessandra di 10 anni.
1998
Annalisa Isaia, Catania.
Annalisa è una ragazza di 20 anni. Merita di morire solo perché frequenta il “giro” sbagliato. Ad ammazzarla è lo zio materno, Luciano Daniele Trovato: non sopporta di essere deriso dagli affiliati della cosca mafiosa di cui face parte, gli Sciuto, perché la ragazza frequenta un gruppo di coetanei di un clan rivale, i Laudani. Questi ultimi sono ritenuti colpevoli della morte del padre di Annalisa avvenuta nel 1993. Il cadavere della ragazza viene rinvenuto sepolto dopo diversi giorni.
Mariangela Ansalone, OppidoMamertina (RC).
La sera dell’8 maggio, Oppido Mamertino passa alla storia per un episodio sanguinario: il bilancio in pochi minuti è di quattro morti e tre feriti gravi. Mariangela, 8 anni, si trova in auto con i nonni, la mamma e il fratellino quando una scarica di proiettili si abbatte su tutta la famiglia. Muoiono subito la bambina e il nonno Giuseppe Bicchieri, mentre gli altri tre vengono feriti. A sparare sono alcuni killer che poco distante hanno ucciso Vito Rustico e Giovanni Polimeni e mancato Paolo Polimeni. Nella fuga, i malviventi si sono imbattuti nell’auto della famiglia di Angela. Purtroppo è uguale a quella dei rivali. Nonostante i fatti siano avvenuti nella piazza del paese, nessuno ha visto ne sentito nulla.
Incoronata Sollazzo, Maria Incoronata Ramella, Cerignola (FG).
È il 24 aprile. Incoronata Sollazzo e Maria Incoronata Ramella, due braccianti agricole reclutate dai caporali, muoiono in un incidente mentre viaggiano a bordo di un furgone che le avrebbe portate al lavoro. Era pieno zeppo di lavoratori.
Giuseppina Guerriero, Scisciano (NA).
È il 3 settembre e Giuseppina Guerrero è di ritorno da un colloquio di lavoro. La sua auto affianca quella del boss Saverio Pianese, lungo via Garibaldi, Giuseppina ha 43 e quattro figli. Un proiettile destinato al capo clan, la colpisce. La donna muore nel reparto di rianimazione dell’ospedale di Loreto.
Erilda Ztausci.
1999
Rosa Zaza, Foggia.
Ennio e Rosa sono una coppia di giovani sposi di ritorno dalle vacanze in Croazia. È il 25 agosto, di lì a poco avrebbero festeggiato il loro primo anniversario di matrimonio. Due contrabbandieri, per evitare un posto di blocco, fanno inversione di marcia in autostrada travolgendo i due giovani sposi che viaggiano in moto. Ennio Petrosino, 33 anni e Rosa Zaza, 31 anni, muoiono nell’ambulanza che li sta conducendo all’ospedale di Cerignola
Anna Pace, Brindisi.
Anna ha 62 anni, viaggia lungo la strada statale che collega Fasano a Locorotondo. Muore nello scontro con un furgone carico di sigarette di contrabbando.
2000
Valentina Terraciano, Pollena Trocchia (NA).
Il feretro bianco di una bambina di soli due anni attraversa le vie di Pollena Trocchia davanti agli occhi colmi di lacrime di un intero paese. È il 12 novembre.Valentina è morta, colpita da alcune pallottole mentre è nel negozio dello zio Fausto Terracciano, il vero obbiettivo dei killer. Restano feriti i suoi genitori. Sulla bara della piccola Valentina ci sono i suoi giocattoli preferiti e la chiesa è colma di fiori bianchi e di confetti.
Maria Colangiuli, Bari.
A Bari è in atto una sanguinosa lotta tra clan per il controllo del traffico di stupefacenti. La sera dell’8 giugno Maria, 70 anni, è in cucina intenta a preparare la cena. Un proiettile vagante oltrepassa la finestra aperta colpendola al fianco. La donna viene immediatamente soccorsa dalle figlie e trasportata in ospedale. Muore pochi minuti dopo il ricovero.
Silvana De Marco, Castiglione Cosentino (CS).
Silvana De Marco, 30 anni, e il marito Sergio Pierri, 36 anni, viaggiano a bordo della loro Mercedes station wagon sulla strada che collega Rende a Castiglione Cosentino. L’automobile è affiancata da una moto con a bordo due persone. Si tratta di un agguato. Sparano contro la macchina una ventina di colpi alcuni dei quali colpiscono a morte i coniugi. È il 16 novembre. Sergio Pierri, da poco uscito dal carcere, ha parentele scomode, come quella con Vittorio Marchio, suo cognato, ucciso nell’89, e suo zio Pino Chiappetta, ucciso 10 anni prima, imprenditore edile e consigliere comunale.
2001
Francesca Vecchio, Rosarno (RC).
Francesca è una rosarnese di 28 anni. Gestisce un negozio di abbigliamento nel centro di Gioia Tauro, di cui è titolare insieme al marito, ed è li che trascorre le sue ultime ore. La sera del 14 maggio Angelo Fazzari, tradito nell’onore e nell’orgoglio, chiude per sempre la partita. Stanno insieme da due anni e mezzo e hanno una figlia di poco più di un anno. Ma la vita di coppia non funziona. C’è un amante di mezzo. Quando sono ormai le nove scoppia l’ennesima lite. L’uomo ha una lama in tasca e si accanisce contro la donna con una furia inaudita: almeno 50 coltellate. Un raptus di certo, ma covato in testa e in petto per lungo tempo, in un ambiente che ispira violenza. Poi chiude a chiave la porta del negozio e si allontana. È lo stesso Fassari ad avvertire i carabinieri, poco dopo. Dice di aver ucciso la moglie e dà l’indirizzo del locale. Ma l’uomo non si fa trovare e resta alla macchia per una settimana, prima di costituirsi e confessare tutto
Florentina Motoc, Torino.
Florentina Motoc è una ragazza moldava che per sopravvivere è costretta a prostituirsi. La notte tra il 16 e il 17 febbraio viene barbaramente assassinata a Torino. Ha solo 20 anni. Il suo cadavere viene ritrovato nudo, con diverse ferite sul capo, con gambe e piedi bruciati dallo stesso falò con cui l’assassino ha bruciato i suoi vestiti. Intorno alla gola sono stretti i suoi collant. In seguito all’efferato delitto, un corteo ha sfilato per le strade della città in memoria di Florentina e di tutte le vittime della schiavitù e della prostituzione.
2002
Fatima Fauhreddine, Giuseppina Mammana, Rometta Marea (ME).
Le grandi opere pubbliche in Sicilia spesso sono nelle mani delle imprese mafiose. Il 20 luglio il treno espresso Palermo-Venezia, “la freccia della Laguna”, transita nei pressi della stazione ferroviaria Rometta Marea. Improvvisamente il locomotore esce dalle rotaie, ruota violentemente di 180° e urta le strutture laterali di un ponticello. Il resto del convoglio si stacca dalla motrice e investe il casello ferroviario sventrando l’edificio in due parti. Dietro la strage – che va sotto il nome di “strage di Rometta Marea” – ci sarebbero storie di appalti e tangenti, collusioni, corruzioni sorte all’ombra di grandi commesse delle ferrovie italiane.
Strage di mafia oltre che strage di Stato è stata definita da pochi giornalisti coraggiosi. A morire sono otto persone. Tra loro Fatima Fauhreddine, 59 anni, originaria del Marocco, e Giuseppina Mammana, 22 anni, siciliana.
Clarissa Cava, Lauro (AV).
Siamo a Lauro, un paese dell’Irpinia, in provincia di Avellino. Dal 1972 è in corso una faida che vede in guerra la famiglia dei Cava contro quella dei Graziani per il controllo del territorio. Nel 2002 il conflitto ha un risvolto inedito: le donne delle due famiglie, già da tempo ai vertici degli assetti organizzativi, divengono protagoniste assolute della faida. La cronaca non esita a parlare di “strage delle donne”. Qualche giorno precedente allo scontro, le madri, le figlie, le mogli appartenenti ai due clan rivali si incrociano in piazza e si affrontano con insulti, spintoni e schiaffi. Ad avere la peggio sono le donne della famiglia Graziano che vogliono rivendicare “l’onore” ferito. La sera del 26 maggio Maria Scibelli, 53 anni, moglie del boss Salvatore Cava, è a bordo di una macchina con Michelina Cava, sorella di Biagio Cava. Sedute dietro, Clarissa Cava, figlia di Michelina, appena 16 anni, sua sorella Felicia, diciannovenne, e una loro amica Italia Galeota Lenza, di 23 anni. Sull’altra auto, un’alfa 146, si trova il capo clan Salvatore Graziano, sua cognata, Alba Scibelli e le figlie di quest’ultima, Stefania e Chiara rispettivamente di 20 e 21 anni. L’ auto delle Cava viene inseguita per un paio di chilometri da quella dei Graziano. Secondo le poche testimonianze raccolte a sparare i primi colpi è Salvatore Graziano. Ma le dinamiche del conflitto a fuoco non saranno mai chiarite del tutto. Il bilancio è pesantissimo: muoiono la minorenne Clarissa, Maria Scibelli e Michelina Cava mentre rimangono ferite Felicia Cava, Galeota Lenza e Chiara e Stefania Graziano.
2003
Armida Miserere, Milano.
È una delle prime donne direttrici di carcere, Armida Miserere. Si è fatta la fama da dura per via della sua intransigenza. Sostiene che il carcere deve sicuramente occuparsi del recupero del detenuto ma che deve “essere un carcere e non un grand hotel”. Siamo agli inizi del 1990 e Armida ha un compagno, Umberto Mormile, educatore carcerario. Entrambi lavorano nel carcere di Milano-Opera. L’11 aprile 1990 Umbero Mormile viene ucciso all’interno del carcere. Il mandante, come si scoprirà solo più tardi, è Domenico Papalia, calabrese di Platì e ritenuto il capo dei capi della ‘ndrangheta in Lombardia. Umberto è morto perché, a un certo punto, ha deciso di non aiutare più nessuno a ottenere benefici e permessi a pagamento. Il 19 aprile del 2003 Armida non ce la fa più, deciso di farla finita, si uccise con un colpo di pistola alla testa. Il lutto, mai superato, per la morte del suo amato compagno e soprattutto la rabbia di sapere i suoi assassini ancora liberi, nonostante avesse comunicato fin dall’inizio i suoi sospetti, l’hanno fatta capitolare. Quando si uccide ha 47 anni.
2004
Matilde Sorrentino, Torre Annunziata (NA).
Smascherare una banda di pedofili è senza dubbio un rischio, che tanti preferiscono non correre. Non è stato così per Matilde Sorrentino, che ha avuto il coraggio, insieme ad altre due mamme, di denunciare gli aguzzini del figlio, facendoli così arrestare. Ma Matilde ha pagato con la vita a soli 49 anni. La sera del 25 marzo il killer ha bussato alla sua porta di casa. Appena Matilde ha aperto, è stata raggiunta da diversi proiettili al volto e al petto. In casa con lei c’è il marito. Per il marito e i due figli di Matilde e per le famiglie delle altre due testimoni al processo è stata disposta la protezione.
Annalisa Durante, Napoli.
Annalisa ha 14 anni e scoppia di vita. Sabato 27 marzo sta chiacchierando con la cugina e un’amica vicino a casa sua. All’improvviso sopraggiungono due uomini in sella a una moto e sparano contro Salvatore Giuliano 20enne dell’omonima famiglia camorristica che si trova accanto alle ragazze. Alcune pallottole raggiungono alla testa di Annalisa, che cade a terra in una pozza di sangue. La ragazza viene subito trasportata all’ospedale più vicino che però non è attrezzato per situazioni così critiche. Il tentativo di salvarle la vita in un secondo ospedale purtroppo è vano. I genitori decidono per l’espianto degli organi. Sembrerebbe che Salvatore Giuliano si sia salvato usando Annalisa come scudo umano.
Gelsomina Verde, Napoli.
Quello di Gelsomina Verde viene ricordato come uno dei più spietati delitti della camorra. Una vicenda raccontata anche da Roberto Saviano in Gomorra. È una relazione sentimentale con un ragazzo appartenente agli scissionisti a costarle la vita. Gelsomina ha solo 22 anni e fa l’operaia in una fabbrica di pelletteria. La sera del 21 novembre Mina, così viene chiamata dagli amici, viene attirata in una trappola proprio da un amico, Pietro Esposito, uno dei primi della faida a pentirsi. I suoi aguzzini avrebbero dovuto estorcerle delle informazioni. Il mandante, Cosimo di Lauro, pensa che sappia dove si nasconde il fratello del ragazzo col quale ha avuto una relazione, un rivale di camorra. Probabilmente Mina non sa, forse non vuole tradire. Rimane inspiegabile l’efferatezza con la quale i killer si avventano sul suo corpo. Torturata per ore, forse stuprata, sei colpi di pistola la finiranno. Alla fine per cancellare lo scempio di quel corpo innocente assurdamente martoriato servono le fiamme.
I poveri resti di Mina vengono ritrovati nella sua stessa auto, in una strada di Secondigliano.La famiglia di Gelsomina Verde si costituisce parte civile nel procedimento penale che si conclude il 4 aprile 2006 con la condanna all’ergastolo di Ugo De Lucia, l’esecutore materiale del delitto secondo la sentenza di primo grado, e con la condanna a sette anni di reclusione per il collaboratore di giustizia Pietro Esposito. Nella sentenza depositata il 3 luglio 2006 si legge: «Si badi, ed è il caso di sottolinearlo con forza che, a fronte di decine e decine di morti, attentati, danneggiamenti estorsivi e paraestorsivi, lutti che hanno coinvolto persone innocenti che non avevano nulla a che fare con la faida in corso, ma che hanno avuto la sventura di trovarsi al momento sbagliato nel posto sbagliato, finanche anziani e donne trucidate impietosamente, ebbene di fronte a tale scempio, fatto di ingenerato ed assurdo terrore, non vi è stata alcuna costituzione di parte civile, ad eccezione dei genitori di Gelsomina Verde. In altre parole, pur non indulgendo in considerazioni sociologiche, o peggio, moraleggianti (omissis) non può non rilevarsi che nessun cittadino del quartiere di Secondigliano e dintorni, nel corso delle indagini, e prima ancora che esplodesse la cruenta faida di Scampia, abbia invocato, con denuncia o altro modo possibile, l’aiuto e l’intervento dell’autorità. Sembra, e si vuole rimarcarlo senza ombra di enfasi, che ad alcuno dei superstiti e parenti delle vittime, specie se ancora residenti a Secondigliano, è mai interessato chiedere ed ottenere giustizia, instaurare un minimo, anche informale, livello di collaborazione con le forze dell’ordine, tentare, in vari modi, di conoscere i possibili responsabili, ma è evidente che solo arroccandosi tutti dietro un muro di impenetrabile silenzio, hanno visto garantita la propria vita». Il 13 dicembre 2008, Cosimo Di Lauro, 35 anni, viene condannato all’ergastolo per l’omicidio di Gelsomina come il mandante. L’11 marzo 2010, lo stesso Di Lauro, pur non ammettendo la responsabilità del delitto, ha risarcito la famiglia di Gelsomina con la somma di 300mila euro. In seguito al risarcimento, la famiglia della vittima rinuncia a costitursi parte civile. Nel dicembre del 2010, Cosimo Di Lauro viene assolto dall’accusa di essere il mandante dell’omicidio. La Corte d’Assise d’Appello di Napoli accoglie in toto la tesi della difesa. E ribalta il giudizio di primo grado. Clamorosamente.
2005
Francesca Aloi, Oppido Mamertina (RC).
Vincenzo Scarcella, sua moglie Francesca Aloi e loro figlia Maria Francesca viaggiano a bordo della loro auto nei pressi di Oppido Mamertina, quando vengono avvicinati da alcuni sconosciuti che aprono il fuoco. È il 7 agosto. Sparano almeno cinque cariche di fucile i killer. Muoiono Vincenzo e Francesca. Si salva la figlia. Il duplice omicidio è riconducibile a contrasti nell’ambito della criminalità organizzata della zona. Vincenzo Scarcella aveva infatti precedenti penali.
Carmela Attrice, Napoli.
La camorra a Secondigliano dispone come meglio crede degli alloggi popolari: decide chi e per quanto tempo ci deve stare, se e quando qualcuno deve lasciare la casa. A Carmela lo sfratto viene imposto perché madre di uno scissionista, ma lei non ci sta e per questo vive per anni blindata in casa. In quegli anni a Secondigliano la guerra tra scissionisti e Di Lauro fa 45 vittime. Anche se è sempre stata estranea agli affari del figlio, con la scusa di una comunicazione importante da parte di Paolo Di Lauro, Carmela viene fatta scendere in cortile e brutalmente assassinata con numerosi colpi al volto e al petto.
2006
Maria Strangio, San Luca (RC).
È il 26 dicembre e un gruppo di persone chiacchiera all’ingresso di casa al centro di San Luca. Sopraggiungono due uomini che sparano colpendo a morte una giovane donna di 33 anni, Maria Strangio, e ferendo in modo grave un parente della vittima, Francesco Colorisi. L’obiettivo dei killer probabilmente è Giovanni Luca Nirta, il marito di Maria, uscito da poco dal carcere, dopo aver scontato una pena per spaccio di stupefacenti. Anche il nome di Maria deve entrare nel lungo elenco di vittime che sta insanguinando San Luca a causa della faida tra le famiglie Nirta-Strangio e quelle dei Pelle-Vottari.
2007
Cornelia Doana, Rosarno (RC).
Cornelia è una ragazza rumena, trasferitasi in Italia con la mamma casalinga e il papà, bracciante. Ha 17 anni e un fidanzato, dalla cui relazione nasce una bambina. Ma tra i due le cose non vanno più bene così Cornelia decide di lasciare il ragazzo. Le donne, però, non possono osare tanto e per questo viene uccisa la notte di Capodanno. Per strada a Rosarno si sparano castagnole, “ricciole” e bombe di vario tipo, ma Ceravolo, questo il nome del suo fidanzato, spara quaranta colpi di pallettone contro la casa dei suoceri colpendo a morte la giovane Cornelia.
Liberata Martire, Cosenza.
Liberata Martire è una giovane donna di 39 anni, sposata con Rocco Bevilacqua e madre di due figli. Sta preparando il caffè, il pomeriggio del 30 gennaio, quando due assassini fanno fuoco contro la tapparella abbassata della cucina colpendo in pieno Liberata. La rosata la investe al busto e al torace. Muore immediatamente. Insieme a lei in casa oltre al marito c’erano anche i due figli, la più piccola di soli 13 anni, e Luca, agli arresti domiciliari. Probabilmente i killer non volevano uccidere, quasi sicuramente doveva essere solo una “lezione” per spaventare Luca.
2009
Barbara Corvi, Amelia (TR).
Barbara Corvi è sposata con Roberto Lo Giudice, fratello di Antonio detto “il nano”, oggi pentito. Vittima della lupara bianca, scompare il 26 ottobre del 2009, dopo che il marito scopre la sua relazione extraconiugale: il bimbo che cresceva nel suo ventre era di un altro uomo. Anche Angela Costantino, sua cognata, rimasta incinta per tradimento, sposata a un altro Lo Giudice di Reggio Calabria, era stata uccisa nel 1994.
Lea Garofalo, Monza.
Lea Garofalo ha pagato con la vita la sua scelta di diventare una collaboratrice testimone di giustizia. Rapita e torturata, il suo cadavere è stato poi sciolto nell’acido. Originaria di Petilia Policastro (KR), diventa collaboratrice testimone di giustizia nel 2002, quando decide di testimoniare sulle faide interne tra la sua famiglia e un’altra rivale. Già a maggio 2008 l’ex compagno Carlo Cosco cerca di farla rapire a Campobasso, ma l’agguato fallisce. A novembre 2009, con il pretesto di mantenere i rapporti con la figlia Denise, legatissima alla madre, Cosco attira la sua ex a Milano con la scusa di parlare dell’università della figlia. Ma al treno che avrebbe dovuto riaccompagnarla al Sud Lea non arriva mai. Almeno quattro giorni prima del rapimento, Cosco ha predisposto un piano contattando i complici: erano pronti il furgone con a bordo 50 litri di acido, la pistola per ammazzarla «con un colpo», il magazzino dove interrogarla e l’appezzamento dove è stata sciolta nell’acido, per simulare la scomparsa volontaria. Il processo ai suoi presunti assassini è stato “azzerato” e, se entro luglio 2012 non si arriverà a una conclusione, gli imputati potrebbero tornare tutti in libertà per scadenza dei termini di custodia cautelare.
Felicia Castaniere, Casandrino (NA).
Felicia ha 50 ed è costretta su una sedia a rotelle da quando ha nove mesi. Il gennaio 2009 è appena uscita dall’ufficio postale dove ha ritirato la sua pensione, quando viene aggredita e scippata da due criminali in sella a una moto. La donna muore in seguito a un arresto cardiocircolatorio in seguito al traumatico evento. Nessuno ha visto niente
2010
Orsola Fallara, Reggio Calabria (RC).
S’è portata con sé molti segreti Orsola Fallara, 44enne potentissima dirigente del comune di Reggio Calabria, temuto braccio destro dell’allora sindaco Giuseppe Scopelliti, uomo forte della destra calabrese (oggi Pdl), attuale presidente della Regione.
La Fallara entra nell’occhio del ciclone il 2 novembre del 2010. Alcuni esponenti del Pd, durante una conferenza stampa denunciano un gigantesco ammanco dentro le casse del Comune. Chiamano in causa l’ex sindaco Scopelliti e Orsola Fallara. Non solo: accusano la dirigente di essersi liquidata indebitamente 750mila euro per rappresentare l’ente come consulente esterno nella Commissione tributaria. È l’inizio del caso Reggio legato ai misteriosi conti del Comune. Politica e media calcano la mano sulla gestione economica e il 22 novembre, dopo un’indagine interna, Orsola Fallara viene sospesa. Lei è una combattente e decide di raccontare a tutti la sua versione dei fatti. Convoca i giornalisti. Risponde alle accuse. Attacca il sindaco facente funzioni Giuseppe Raffa, il Pd che l’ha messa sulla graticola e ringrazia soltanto l’ex sindaco Scopelliti al quale è legata da un rapporto molto forte. Poi annuncia la decisione di dimettersi. È il 15 dicembre del 2010. Finita la conferenza, scopre che le hanno scassinato la macchina. Poi incomprensibilmente va verso il porto della città, estrae dalla sua borsa una boccetta di acido muriatico, se lo cala in gola. Se ne pente, disperatamente. Chiama lei stessa i carabinieri per chiedere aiuto. Viene ricoverata in ospedale. Muore, è venerdì 17 dicembre. Scoppia una polemica furibonda. Passata la tempesta, interviene la magistratura. A marzo 2011 «Il Quotidiano della Calabria» svela che Giuseppe Scopelliti è indagato per abuso d’ufficio nell’ambito dell’inchiesta sugli incarichi affidati alla dirigente. Al centro dell’indagine, le somme che Orsola Fallara si sarebbe autoliquidata. Secondo la procura quegli incarichi non potevano essere affidati. «Sono molto sereno e fiducioso», commenta Scopelliti rigettando qualsiasi accusa. Una nuova tegola giudiziaria cade su Scopelliti il 19 ottobre quando scopre d’essere indagato anche per falso in atto pubblico, «a causa di irregolarità contabili presenti nei bilanci comunali approvati negli anni 2008-2010». Irregolarità che avrebbero provocato un buco da 170 milioni di euro. Anche in questo caso Scopelliti rigetta le accuse. Orsola Fallara è morta, ma resta aperto il caso Reggio con tutti i suoi misteri
Teresa Buonocore, Napoli.
Viene ammazzata a colpi di pistola per aver denunciato un pedofilo. È in auto quando viene avvicinata da una moto con a bordo i killer. Le indagini della Squadra Mobile di Napoli si orientano immediatamente nell’ambito della vita privata di Teresa. Non ci vuole molto per capire che il movente dell’omicidio è la vendetta dell’uomo condannato per pedofilia. Enrico Perillo sta scontando la condanna a 15 anni di reclusione.
2011
Rosellina e Barbara Indrieri, San Lorenzo De Vallo (CS).
Uccise per vendetta. Le due donne, Rosellina Indrieri, 45 anni, e la figlia Barbara, 26 anni, sono la cognata e la nipote di Aldo De Marco, un commerciante che il 17 gennaio aveva assassinato a Spezzano Albanese Domenico Presta, 22 anni, figlio di Franco, considerato il boss della zona e attualmente latitante. Nell’agguato, portato a termine in un alloggio popolare del piccolo comune cosentino, è rimasto ferito in maniera grave alla spalla e al bacino anche Silas De Marco, nipote del commerciante-assassino. Sfuggito all’agguato anche il marito dell’Indrieri. I killer si sono presentati intorno alle 21 davanti a casa della Indrieri con il volto coperto. Hanno buttato giù la porta d’ingresso a calci e hanno iniziato a sparare all’impazzata. A nulla sono valsi i tentativi delle due donne di sottrarsi al fuoco dei due fucili, caricati a pallettoni. Madre e figlia hanno tentato di buttarsi dal balcone, inutilmente. Per i carabinieri il duplice omicidio e il ferimento del ragazzo hanno una matrice mafiosa e sarebbe la risposta all’assassinio di Domenico Presta.
Santa “Tita” Buccafusca, Limbadi (VV).
Santa «Tita» Buccafusca, 38 anni, è una donna forte, potente, decisa a cambiare vita. Una mattina di aprile del 2011 si presenta alla caserma dei carabinieri di Limbadi, un piccolo centro della provincia di Vibo Valentia fondamentale per gli equilibri della ’ndrangheta. È con suo figlio. Dice: «Sono la moglie di Pantaleone Mancuso, voglio parlare con un magistrato». I carabinieri sgranano gli occhi: tutti a Limbadi sanno chi sono i Mancuso, tutti conoscono Pantaleone Mancuso, «Luni», boss in inarrestabile ascesa della potentissima cosca. Tita ha deciso di collaborare con i giudici, di raccontare ciò che sa. Non è ancora chiaro cosa l’abbia convinta a fare il salto, ma i carabinieri capiscono immediatamente che quello è un momento importante. Ci sono i primi contatti, poi viene portata a Catanzaro di fronte ai magistrati della Dda che l’ascoltano con molto interesse. Perché Tita non è soltanto moglie di un personaggio importante: negli anni ha visto crescere il suo prestigio, il suo peso, il suo potere. È una donna che ha partecipato ai summit, ha curato strategie, ha preso decisioni rilevanti. E che sia molto bene informata devono averlo pensato anche i suoi familiari, che in alcune cronache locali vengono descritti molto preoccupati per quello che potrebbe rivelare e cercano un modo per depotenziare il valore delle sue parole. Così, proprio nelle stesse ore in cui Tita è a Catanzaro a parlare con i magistrati, sembra che i familiari siano alla caserma dei carabinieri di Limbadi per denunciare la scomparsa della donna. E, soprattutto, per spiegare che se avesse manifestato l’intenzione di collaborare non le avrebbero dovuto credere perché soffriva di problemi psichici. La sera stessa accade qualcosa: Tita si pente di essersi pentita. S’interrompe improvvisamente la sua collaborazione con i giudici. Cosa è accaduto? Nessuno lo sa. Passano alcuni giorni e dentro Tita probabilmente crescono ansia, angoscia, paura.
Il 16 aprile decide che deve farla finita. Prende una bottiglia di acido, se l’attacca alle labbra. Beve. È ancora viva quando la trasportano all’ospedale di Vibo Valentia nel tentativo disperato di salvarla. Si aggrava, viene trasferita agli Ospedali riuniti di Reggio Calabria. Muore due giorni dopo. Ancora l’acido, anche per Tita. Come per Maria Concetta Cacciola è in corso un’inchiesta, per istigazione al suicidio. Intanto i verbali dei primi interrogatori sono rimasti segretissimi. E po-sono ancora fare male.
Maria Concetta Cacciola, Rosarno (TO).
I suoi 31 anni Maria Concetta Cacciola li ha vissuti tutti respirando aria di ’ndrangheta. È figlia di Michele Cacciola, cognato del boss di Rosarno, Gregorio Bellocco. Rosarno è una capitale dei clan, un paese in cui la pressione è tanto forte da essere usato dai magistrati come paradigma per descrivere la potenza della ’ndrangheta. È in questo contesto difficile che Maria Concetta va via prestissimo da casa nel tentativo di sfuggire da regole arcaiche e soffocanti. Si sposa giovanissima con Salvatore Figliuzzi, e prova a crederci con tutte le sue forze a questo matrimonio. Insieme hanno tre figli – due bambine di sette e dodici anni e un ragazzino di sedici – che diventano presto la sua unica ragione di vita. È sfortunata, però. Perché Salvatore Figliuzzi fa parte del mondo che lei vuole rifuggire ed è presto condannato a otto anni per associazione mafiosa. Ma non perde la speranza. Anzi, dopo un lungo travaglio – forse spinta anche dall’esempio di sua cugina Giuseppina Pesce, figlia del boss Salvatore Pesce che da mesi collabora con i giudici – nel maggio 2011 capisce che è arrivato il momento di dire basta. Prende dentro di sé tutto il coraggio che ha, sfida l’ira della famiglia, le pressioni del paese e inizia anche lei a parlare con i magistrati. Non ha commesso reati, non è indagata. La sua è una scelta di rottura nei confronti di un sistema. Con una determinazione sorprendente va dai pm Alessandra Cerreti e Giovanni Musarò per raccontare quello che sa del clan Bellocco. Li avvisa subito che teme per la propria incolumità. Le si presentano davanti i fantasmi alimentati dai suoi parenti che gli raccontano le storie delle donne del clan che hanno disobbedito e sono state uccise. Grazie alle sue prime dichiarazioni vengono fuori due bunker utilizzati dai latitanti. La collaborazione della testimone è credibile e Maria Concetta Cacciola viene subito trasferita in una località segreta. Ma non è una favola, quella delle collaboratrici, delle testimoni. La scelta di Maria Concetta è faticosa, difficile, ricca di contraddizioni. Le pressioni diventano forti, fortissime. Spesso i familiari – violando le regole previste per le collaborazioni – la vanno a trovare per convincerla a cambiare idea. Si sente addosso una sorta di ricatto che riguarda il futuro dei suoi figli. La situazione diventa insopportabile. Così Maria Concetta rinuncia alla protezione e torna a Rosarno: s’è fatto troppo forte il desiderio di riabbracciare i propri figli. Compie un passo in più: registra una lunga dichiarazione audio per sconfessare l’intero percorso della sua collaborazione. Una registrazione che coglie di sorpresa. Perché nessun segnale avevano ricevuto i magistrati rispetto alla sua intenzione di smettere di collaborare. Anzi, Maria Concetta sembrava decisa a tornare nella località segreta. La mattina del 22 agosto si sveglia intenzionata a partire, eppure teme di non essere capita. Lo dice soprattutto a proposito del maschio, il più grande: «Non verrà con me, ma sarà il primo che mi dovrà ammazzare. Le figlie di sette anni e dodici anni invece potremo recuperarle». La disperazione prende il sopravvento. All’improvviso entra in bagno, vede che c’è una bottiglia con dentro un litro di acido muriatico. Beve. I suoi familiari la trovano distesa a terra, agonizzante. La trasportano in ospedale. Muore. Suicida, suicidata. Per padre, fratello e madre scatta l’arresto. La Procura di Palmi ritiene che i parenti abbiano portato la donna a suicidarsi tramite atti continui di violenza fisica e psicologica.
[…]
Segue: https://www.bibliocamorra.altervista.org/pdf/Sdisonorate.pdf